Squadra che vince non si tocca. Questo dev'essersi detto Pierpaolo Sepe, regista dell'allestimento de «Le cinque rose di Jennifer» che la Fondazione Salerno Contemporanea (l'ex Nuovo Teatro Nuovo) presenta al San Ferdinando. E detto fatto: ha preso gli ultrasessantenni Benedetto Casillo e Franco Iavarone, due degli attori comici che figuravano nel suo ammirevole spettacolo beckettiano «Atto senza parole e altri testi», e li ha calati nei panni, rispettivamente, di Jennifer e di Anna.
Piuttosto azzardato, però, si dimostra presumere che l'applicazione al teatro di quell'adagio sportivo possa dotare del buco prescritto tutte le ciambelle cotte sul palcoscenico. E infatti, la ciambella «Le cinque rose di Jennifer» è riuscita proprio senza buco, manco a volerselo sognare. Nelle sue note Sepe dichiara fra l'altro: «Oggi Jennifer ha un corpo pesante, schiacciato dall'età oltre che dalla sua ambiguità». Ma giusto in un'affermazione del genere sta la prova esaustiva di quanto sia peregrina questa rilettura del testo ruccelliano.
Jennifer è giovane, e deve essere giovane: perché ad oltre sessant'anni non si possono più fare (sia pure, appunto, in chiave onirica) progetti di vita e d'amore, né si può andare a battere vestiti come la China Blue di Ken Russell; ma, soprattutto, Jennifer - capofila delle «figure deportate» (così Ruccello definì i suoi personaggi, strappati alla loro cultura originaria e autentica) - non è ambiguo: con straordinaria e addirittura profetica lucidità, Ruccello ne fece un'inconfondibile cartina di tornasole della mutazione antropologica e sociale che dal «femmeniello» (un fenomeno gestito, una volta, in termini fortemente ritualizzati) ha condotto al semplice travestito (un «oggetto» votato unicamente alla funzione di merce di scambio).
Ora, Sepe ha capito che il testo in questione si pone, conseguentemente, come una dimensione mentale: e dà luogo, quindi, all'assenza completa di arredi e oggetti d'uso quotidiano. Ma, poi, Casillo si dedica anima e corpo a fare di Jennifer una proverbiale vecchia checca, per giunta buttandola sul comico più spudorato anche per mezzo di battute inventate (vedi quella sulla morte del medico che ha diagnosticato una «nemesi»). E nelle vesti di vecchia checca è pure bravo, il nostro Benedetto, nonostante sia le mille miglia lontano dall'Albin de «Il vizietto» che qui, forse, si vorrebbe evocare.
Anche Iavarone fa del suo personaggio una vecchia checca. L'unica differenza è che la fa male. E questo è tutto. Ma con questo tutto Ruccello che c'entra?
Enrico Fiore
(«Il Mattino», 1 marzo 2012)
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