Come sappiamo, l'opera lirica è nata dall'esigenza di rendere la musica in forma drammatica. E non si potrebbe immaginare nulla di più pertinente, rispetto a quell'esigenza, dell'operazione presentata dal San Carlo domenica e in replica stasera: l'accoppiata della «Symphonie fantastique» di Berlioz e di «Lélio, ou Le retour à la vie», il variegato melologo con cui, per l'appunto, il compositore francese volle darle forma drammatica. E credo che, per inquadrare l'operazione in maniera decisiva, occorra partire dall'ultimo movimento del melologo, la «Fantasia sulla "Tempesta" di Shakespeare».
Sono stato sempre convinto che la chiave per afferrare il senso profondo de «La tempesta» stia in un passo di «Andrea o I ricongiunti», il vertiginoso romanzo incompiuto di Hofmannsthal: «La vera poesia è l'arcanum che ci congiunge alla vita, che dalla vita ci separa. Il separare - soltanto se separiamo noi viviamo veramente - se noi separiamo anche la morte è sopportabile, solo quello che è mischiato è orribile».
Ebbene, è proprio ciò che fa Prospero. Egli aveva voluto unire il Tutto: il cielo e la terra, l'anima e il corpo, l'arcano e il quotidiano. Ma riesce a ritrovare la sua dimensione umana, e quindi a vivere davvero, solo quando spezza la bacchetta magica e dà l'addio agli spiriti e ai folletti: solo quando, cioè, tocca la saggezza estrema, ch'è quella, giusto, di separare l'umano dal divino.
Vale anche per Berlioz, la cui «consistenza» personale e artistica è tutta nelle cesure, quella tra la musica in sé e la «normalità» (in ogni senso») del suo farsi concerto di routine e quella tra l'effusione sentimentale del Romanticismo e la fredda «oggettualità» delle proprie idee tematiche. Eccola, la stretta parentela che lega Berlioz a Prospero sulla traccia di Hofmannsthal: nella «Symphonie» si mischia con l'amore non corrisposto per l'attrice Harriet Smithson e nel «Lélio» si separa dal suo essere compositore, ossia dalla finitezza dell'opera, per conquistare la libertà come individuo immerso nella Storia.
Infatti, nel «Lélio» Berlioz prevedeva che, a un certo punto, l'orchestra venisse isolata dietro una tenda. E altrettanto funzionali e significanti risultano le cesure stabilite da Giuseppe Montesano, traduttore del testo, e da Toni Servillo in quanto voce recitante: Montesano traduce sulla spinta di una sensibilità che lui stesso definisce «postmoderna» e Servillo, portando ancora più avanti l'indagine sul rapporto fra il compositore e l'attore iniziata con «Sconcerto», recita - nel solco di Carmelo Bene - in modo che il ruolo di produttore di senso passi decisamente dalla parola alla voce.
È questo l'alto approdo dell'operazione, al di là dell'ottima prova fornita dall'orchestra e dal coro del San Carlo, diretti da Roberto Abbado e Salvatore Caputo, dal tenore Mario Zeffiri e dal baritono Markus Werba. Dal canto suo (e a tratti sembra proprio che canti), Servillo mette in campo una strategia di toni e semitoni che - l'ennesima cesura, e vieppiù sapiente! - anela costantemente e misteriosamente al silenzio.
Inutile dire del mare di applausi alla «prima». Ma c'è stato spazio pure per la commozione, smarrita e tuttavia indomita. Quando Toni Servillo/Berlioz, avendo riascoltato l'«idea fissa» della «Symphonie fantastique», ha mormorato: «Ancora!... Ancora e per sempre!...», ho rivisto l'immenso Romolo Valli dell'«Enrico IV» di Pirandello. Dopo aver rivolto l'ultima battuta ai suoi finti consiglieri segreti («Ora sì... per forza... qua insieme, qua insieme... e per sempre!»), veniva avanti, e si chiudeva, dietro di lui, l'altissimo sipario trasversale di Pier Luigi Pizzi. Romolo Valli restava solo al proscenio, e non era più l'attore Romolo Valli.
Enrico Fiore
(«Il Mattino», 12 giugno 2012)
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