«Ci troviamo in un luogo di domande e non di risposte, di smarrimento e non di certezze, di sguardi persi nel vuoto, di figli che cercano padri, di cittadini che cercano punti di riferimento, di gente che corre senza sapere nemmeno il perché».
Così Gabriele Russo, autore e regista dello spettacolo, «Odissè - In assenza del padre», che ha aperto la stagione del Bellini. E infatti, si comincia e si finisce con un'orda di trogloditi coperti di stracci che, emettendo versi gutturali, scavano - insieme simbolicamente e ossessivamente - nella terra nera sparsa sul pavimento della platea svuotata delle poltrone. Il tutto, intervallato da scosse di terremoto, in un paesaggio di rovine e sotto l'unico occhio di un Polifemo che alterna la cantilena «Chi fu? E chi 'o ssape! Nessuno fu» alla sinistra profezia «Tu, madre, quanno miettarraie al mondo 'stu criaturo, solo allora te riendarraie conto ca 'stu munno è cecato».
Insomma, se ho capito, l'intento di Russo è quello di far reagire un monumento della grande cultura classica, per l'appunto l'«Odissea», con l'incultura barbarica del nostro asfittico presente. Ma tirare in ballo l'«Odissea» significa tirare in ballo nientemeno che il mito. E, per giunta, qui si pretende di venire a capo di una simile impresa con un copione di sole 14 (quattordici) pagine e uno spettacolo di soli 75 (settantacinque) minuti. Laddove, per dire appena appena qualcosa (sia pure d'alto profilo) sugli dei e sugli eroi che costituiscono il mito greco, un esperto della caratura di Giulio Guidorizzi ha impiegato due Meridiani Mondadori per complessive 3284 (tremiladuecentoottantaquattro) pagine.
Russo, poniamo, accosta i dubbi di Telemaco su Ulisse allo spread. E l'invocata energia rivoluzionaria dei giovani si riduce a un'accelerazione da lampada stroboscopica e al ricalco delle frenesie seriali tipiche di Latella.
Enrico Fiore
(«Il Mattino», 31 ottobre 2012)
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