Ancora una volta - di fronte a «The seventh wave (La settima onda)», l'azione-installazione di Peter Greenaway che la Fondazione Salerno Contemporanea e la Change Performing Arts presentano nell'altoforno Ex Salid - mi è tornato in mente il passo decisivo di «Andrea o I ricongiunti», il vertiginoso romanzo (non a caso) incompiuto di Hofmannsthal: «La vera poesia è l'arcanum che ci congiunge alla vita, che dalla vita ci separa. Il separare - soltanto se separiamo noi viviamo veramente - se noi separiamo anche la morte è sopportabile, solo quello che è mischiato è orribile».
Sono stato sempre convinto che proprio in quel passo si trovi la chiave per afferrare il senso profondo de «La tempesta» di Shakespeare. Prospero aveva voluto unire il Tutto: il cielo e la terra, l'anima e il corpo, l'arcano e il quotidiano. Ma riesce a ritrovare la sua dimensione umana, e quindi a vivere davvero, solo quando spezza la bacchetta magica e dà l'addio agli spiriti e ai folletti: solo quando, cioè, tocca l'estrema saggezza, ch'è quella, giusto, di separare l'umano dal divino. E un simile quadro riscontriamo nella creazione di Greenaway, che appunto a «La tempesta» s'ispira.
Il riferimento, per cominciare, è alla dimensione dell'acqua e, segnatamente, al mare. E non si tratta solo dell'ossequio al fatto che proprio nel mare si consumano la sconfitta e la vendetta di Prospero, ma anche, e soprattutto, della circostanza che il mare, per dirla con Paolo Conte, «non sta fermo mai» e, dunque, si separa in ogni momento da quello che era un momento prima. Di conseguenza, si separa da sé la stessa immagine dell'onda di cui nel titolo, nel senso che non si offre come un «unicum» in sé e per sempre definito, bensì come un fenomeno visivo frantumato in tante monadi sugli schermi disseminati nel tunnel che percorriamo.
Vediamo, poi, altre monadi costituite da mani e da piedi, forse quelli di un corpo che annega o nuota in apnea, suggerendo la cessazione o la sospensione del respiro. E a un identico traguardo, del resto, giungono le citazioni, oltre che da «La tempesta», da «La ballata del vecchio marinaio» di Coleridge, da «Moby Dick» di Melville e dalla «Quaestio de aqua et terra» di Dante. Basta considerare, al riguardo, come il non meno vertiginoso incipit «Chiamatemi Ismaele» traduca l'ennesima salvifica separazione, quella fra la prigione dell'anagrafe e la scelta di un nome di comodo che, specchiandosi nella vastità del mare, è metafora di un assolutamente libero cercarsi.
Le porge con efficacia, quelle citazioni, l'attore Andrea Carraro, ch'è il nostro Virgilio nel viaggio dalle certezze pigre ai rischi esaltanti della scoperta. E in perfetta sintonia con esse si pongono gli elementi caratterizzanti i costumi dei vari personaggi, che Carraro indossa a vista nel passare (ancora una frattura, ancora una cesura) da un testo e da un personaggio all'altro.
Infine, un attimo prima che si chiuda il sipario al termine del tunnel, sentiamo gli ultimi quattro versi del Purgatorio: «Io ritornai da la santissima onda / rifatto sì come piante novelle / rinovellate di novella fronda, / puro e disposto a salire a le stelle». E non poteva darsi epilogo più motivato a quest'evento che accoglie, ad un tempo, l'acutezza concettuale e la leggerezza fantastica: è un epilogo che incarna lo spirito del teatro di sperimentazione nel cui ambito l'evento stesso si colloca. Che cosa significa, se non questo, restare in un altoforno ma con i piedi su un palcoscenico?
Enrico Fiore
(«Il Mattino», 14 dicembre 2012)
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