A proposito di Massimo Castri - spentosi ieri mattina, a sessantanove anni, nella casa di Firenze, dopo una lunga malattia - mi viene subito in mente quel che mi disse Valeria Moriconi, superba protagonista del suo straordinario allestimento de «La vita che ti diedi» di Pirandello: «Al termine delle prove ero letteralmente distrutta. Quelle non erano prove, erano sedute psicanalitiche al limite della tortura». E sì, perché Castri è stato, prima che un grande regista, un acutissimo intellettuale, capace come pochi altri d'indagare i testi fin nelle pieghe più nascoste e, poi, di collegarli alle ragioni della storia e della società.
Non a caso, già la sua tesi di laurea, pubblicata nel '73 da Einaudi, costituì al riguardo un segnale decisivo: s'intitolava, infatti, «Per un teatro politico. Piscator, Brecht, Artaud». E la logica conseguenza di una simile premessa teorica e ideologica fu che, nello stesso anno, Castri scrisse e mise in scena due spettacoli come «Fate tacere quell'uomo!» (una ricostruzione della vicenda di Arnaldo da Brescia) ed «È arrivato Pietro Gori anarchico pericoloso e gentile».
Quindi - nel corso di una carriera prestigiosa che lo vide, fra l'altro, collaborare con il Centro Teatrale Bresciano, Emilia Romagna Teatro e lo Stabile dell'Umbria, oltre che rivestire la carica di direttore del Metastasio di Prato, del Teatro Stabile di Torino e del settore teatrale della Biennale di Venezia - Massimo Castri firmò la regia di un ventaglio di allestimenti amplissimo sia per quanto riguarda i titoli che per ciò che attiene ai temi: cito, per fare solo qualche esempio, «La tempesta» di Shakespeare, «Edipo» di Seneca, «Caterina di Heilbronn» di Kleist, «Urfaust» di Goethe, «Il gabbiano» di Cechov, «Le serve» di Genet, «La vita è sogno» di Calderón de la Barca, «Madame De Sade» di Mishima, «Porcile» di Pasolini, «Ecuba» di Euripide e «Finale di partita» di Beckett.
In particolare, Castri rivolse un'attenzione costante alla crisi della borghesia. E nel farlo mise a frutto quella ch'è stata la sua maggiore e davvero non comune dote: il talento di saper accoppiare il rigore metodologico con la grazia dell'ironia. Basta ricordare, nel merito, appena l'allestimento de «La trilogia della villeggiatura» goldoniana realizzato per il Metastasio e la messinscena del «John Gabriel Borkman» di Ibsen firmata per lo Stabile torinese.
Nel suo spettacolo, i borghesucci messi alla gogna da Goldoni erano tutti raffreddati: da Vittoria a Ferdinando, eccoli continuamente a tossire, starnutire e soffiarsi il naso su e giù per le scale della loro discesa agl'inferi dei debiti e del ridicolo. E nell'allestimento del dramma ibseniano, poi, Castri addirittura inverava la definizione che ne diede Edvard Munch: «Il più potente paesaggio nevoso dell'arte nordica». Nevicava senza interruzione dall'inizio alla fine, sinanche, a un certo punto, all'interno di casa Borkman. E il banchiere, un attimo prima di morire, tirava fuori da un suo simbolico forziere soltanto gl'ingenui giocattoli di un qualsiasi bambino inoffensivo.
Massimo Castri ribadiva così, e sul piano di un'ammirevole coerenza, la sua convinzione di sempre che il teatro di Ibsen sia, per l'appunto, un grande «De profundis» sulla borghesia ottocentesca.
Enrico Fiore
(«Il Mattino», 22 gennaio 2013)
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