Non si potrebbe immaginare una trama più nota. Eliza Doolittle, una ragazza furba ma rozza e ignorante, sbarca il lunario vendendo fiori davanti al Covent Garden. E si esprime in un orribile «cockney», il dialetto dei quartieri popolari e diseredati di Londra. Finché un bel giorno si ritrova a sfoggiare maniere da gran signora e a parlare forbitamente la lingua di Shakespeare, grazie alle lezioni che le ha impartito il professor Higgins, un tipo eccentrico che aveva scommesso con un altro studioso di fonetica, il suo amico colonnello Pickering, di riuscire nella disperatissima impresa.
Sì, parliamo di «My Fair Lady», il celebre musical che Alan Jay Lerner e Frederick Loewe trassero dalla commedia di Shaw «Pigmalione» e che adesso è tornato all'Augusteo, sempre con la regia di Massimo Romeo Piparo, a distanza di quattordici anni dalla sua prima apparizione. Ebbene, in tutto questo tempo Piparo non ha cambiato idea: nel senso che insiste ad attribuire a Eliza smaccate cadenze siciliane, con tanto di «camurria» sparata ad ogni pie' sospinto. E siccome tutto il resto (appunto la trama e la sua ambientazione a Londra) rimane immutato, ne conseguono reiterate e piuttosto fastidiose incongruenze: per esempio, quando sia Higgins che la stessa ragazza parlano dell'inglese come della «madrelingua» di Eliza o quando quest'ultima conversa con suo padre Alfred, che, invece, del siciliano non ha neppure il più vago accento.
Che so, ci voleva tanto, data e non concessa la scelta di Piparo, a fare di Eliza un'immigrata al seguito del genitore espatriato in cerca di lavoro? E ci voleva tanto ad apportare ai dialoghi le leggere modifiche del caso?
Ma non stiamo a romperci inutilmente la testa: i misteri del teatro di oggi sono troppi e, nella maggior parte dei casi, del tutto insolubili. Conviene limitarsi ad esaminare l'aspetto formale dell'allestimento, per rilevare che la sua cosa migliore sono le coreografie di Roberto Croce. E per quanto riguarda gl'interpreti, aggiungo solo che i due protagonisti - Vittoria Belvedere e Luca Ward, ovviamente nei ruoli di Eliza e Higgins - si aggrappano l'una alla grazia e l'altro alla dizione perfetta che gli viene dall'attività di doppiatore.
Il più bravo, senz'alcun dubbio, è il veterano Aldo Ralli (settantotto anni!) nei panni di Alfred Doolittle. Osservatene i tempi, la misura e l'espressività. Queste sono doti che non si acquistano con la bacchetta magica, sono il frutto di una navigazione di lunghissimo corso sulle acque difficili di quello che - con assoluta miopia - si continua a definire teatro leggero.
Enrico Fiore
(«Il Mattino», 23 gennaio 2013)
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