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Il teatro visto da Enrico Fiore

 

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La paura della verità

Post n°360 pubblicato il 13 Novembre 2010 da arieleO
 

Il 28 ottobre scorso pubblicai – in margine al dibattito da me avviato circa la cultura e i suoi rapporti con il teatro – il commento, intitolato «La paura, le parole e il luogo comune», che qui di seguito riporto.

Al di là della sua (scarsa) consistenza specifica, «Regina la paura» - lo spettacolo di Elena Bucci che, coprodotto dallo Stabile di Napoli e dalle Belle Bandiere, ha aperto la stagione del San Ferdinando - torna utile per aggiungere qualche altra considerazione allo scarno (finora mi si son presentati solo due interlocutori) dibattito che sto cercando di portare avanti sullo stato della cultura in generale e sul rapporto fra la cultura e il teatro in particolare. I due interlocutori sono Andrea De Rosa, il direttore dello Stabile partenopeo, e Carlo Cerciello, il direttore dell'Elicantropo. E a loro mi rivolgerò, molto brevemente ma con chiarezza e fermezza insieme.

   Andrea De Rosa dovrebbe spiegarmi (e spiegare soprattutto agli spettatori) che cosa c'entri «Regina la paura» con i compiti principali e determinanti che lui assegna al teatro perché possa uscire dalla crisi che lo attanaglia e ridiventare vitale e necessario: reagire allo «svuotamento» e «impoverimento» del linguaggio, restituire «forza, peso, sostanza» alle parole, rifuggire l'«eterno luogo comune» in cui viviamo. Ma, specialmente, dovrebbe spiegare come si fa a mescolare nello stesso calderone il nazismo, il Vietnam e «L'Internazionale». Gli ricordo che, se il comunismo è stato l'unica luce di speranza per i dannati della terra, «L'Internazionale» è stato, spesso, l'ultimo sussurro sulle labbra di chi moriva (altro che il teatro) combattendo per un mondo di uguali. E dal canto suo, Carlo Cerciello dovrebbe spiegarmi perché mai - mentre ha opposto una valanga di lunghe e-mail e fluviali commenti ad ogni mio sia pur minimo intervento - non ha replicato nemmeno con una virgola ad Andrea De Rosa, che pure lo ha chiamato in causa direttamente e persino in modo piuttosto brusco.

    Secondo me, la spiegazione - sia per quanto riguarda De Rosa, sia per quanto concerne Cerciello - sta in tre parole, le tre parole che indicano gli altrettanti mali endemici del teatro. Se Andrea De Rosa e Carlo Cerciello le indovinano e me le riportano sul blog, ammettendo che anche loro sono affetti da quei mali, assumo il solenne impegno di versare ogni mese, nelle anemiche casse dello Stabile e dell'Elicantropo, la metà della mia non lauta pensione.

Adesso, finalmente, è arrivata da parte di Carlo Cerciello la seguente risposta:

Scusate il ritardo, il Cerciello è qui, ma non è dipeso dal sottoscritto che, pur impegnato in feroci dibattiti sulla trascorsa faziosaviana puntata televisiva di «Vieni via con me», aveva risposto immediatamente all'appello di Enrico, moderatore, stimolatore e sottile provocatore di questa discussione che al momento vede me e Andrea soli partecipanti.

   Sulla prima parte del discorso di Andrea mi trovo più che d'accordo, soprattutto sul discorso del capocomicato e del teatro di regia. Siamo nella società dei capocomici e dei capotragici, di capi, capetti, capezzoni, capipopolo, santini e santoni nei quali non mi riconosco, di cui non sento il bisogno. Ciò detto, però, preciso il mio pensiero sul cosiddetto teatro d'impegno, etichetta affibbiata dal confindustriale burocratese teatrale di stampo borghese per stabilire gerarchie di potere e di danaro, dividendo il teatro in categorie «nobili» e meno «nobili». Per me, se non c'è impegno non c'è teatro: laddove per impegno intendo motivazione, responsabilità sociale, etica e politica nei confronti del pubblico al quale ci si presenta in veste di comunicatori, affabulatori, sognatori, e non certo di semplici animatori. Il teatro assolve a una funzione unica e irripetibile, la comunicazione diretta - non mediata, filtrata o manipolata, ma immediata e senza rete - dell'uomo verso l'altro uomo. Se poi per impegno intendiamo brutti spettacoli che - speculando su grandi questioni umane, massimi sistemi ed emotività condivise - nascondono dietro la bandiera dell'impegno la loro pochezza artistica e la disonestà intellettuale di chi li mette in scena, in tal caso condivido il pensiero di Andrea.

   La presunta apoliticità del teatro è una grande stronzata. Dalle tragedie greche a oggi il teatro è denuncia, provocazione, rivolta, sovversione, conoscenza, ossessione: non c'è teatro senza umanità e non c'è uomo senza politica. Parlare di ritorno alla tradizione non ha nessun senso, senza una rilettura della stessa in senso critico, senza una motivazione profonda che la riaccosti alla sensibilità e alle problematiche dell'uomo nostro contemporaneo.

   Ogni società ha il teatro che si merita. La nostra manca di coraggio, di coscienza critica, di memoria storica, di sovversione, è narcotizzata, assuefatta, schiava dell'omologazione del pensiero. L'amico Cossia mi ha inviato in questi giorni un pensiero di Gramsci - tratto da «Il grido del popolo»  del gennaio 1916 - che può farci ben riflettere su quanto la mancanza di coraggio in una società come la nostra sia anche mancanza di cultura: «... critica vuol dire cultura, e non già evoluzione spontanea e naturalistica. Critica vuol dire appunto quella coscienza dell'Io che Novalis dava come fine alla cultura. Io che si oppone agli altri, che si differenzia e, essendosi creata una meta, giudica i fatti e gli avvenimenti oltre che in sé e per sé anche come valori di propulsione o di repulsione. Conoscere se stessi vuol dire essere se stessi, vuol dire essere padroni di se stessi, distinguersi, uscire fuori dal caos, essere un elemento di ordine, ma del proprio ordine e della propria disciplina ad un ideale». Il pensiero è di Gramsci, chi vi saluta Carlo Cerciello...

   P.S. La signora Maria Luisa aspetta la piccolissima parte della pensione di Enrico da lui promessa... Di questi tempi ci farà comunque comodo…

   Vi abbraccio.

                                                         Carlo

 

   Innanzitutto, ringrazio sinceramente e vivamente Carlo Cerciello per la passione civile, per lo slancio ideale e per la sostanza ideologica che connotano questa sua risposta. La quale mi dà modo, intanto, d’interrompere la ripubblicazione a giorni alterni del commento «La paura, le parole e il luogo comune» che, come promesso il 30 ottobre, avevo sin qui effettuato; e mi esime, d’altronde, dal versare nelle casse dell’Elicantropo la metà della mia pensione: perché Cerciello non ha indovinato – ciò che avevo invitato a fare sia lui che Andrea De Rosa, direttore dello Stabile di Napoli – le tre parole che indicano gli altrettanti mali endemici del teatro.

   Adesso le dico io, quelle tre parole. Sono: omertà, ipocrisia e compromesso.

   Nel rispondere a quanto asserivo circa la condizione di ostaggio della politica che si trova oggi a scontare il teatro, Andrea De Rosa così si esprimeva in data 19 ottobre: «Sono stato chiamato a dirigere il Teatro Stabile di Napoli; non ho fatto nulla, ti assicuro, neanche una telefonata. Sono stato chiamato, immagino, per aver messo a segno qualcosa di interessante con il mio lavoro di regista. Ammesso che io li abbia, non ho altri meriti che questi. Se ho dei demeriti, di conseguenza, vanno attribuiti solo a me. Non alla appartenenza politica (clientelare), né a quella familiare (i miei genitori vivono tranquillamente a Grumo Nevano, non si occupano di teatro, tantomeno di politica)».

   Mi fu sin troppo facile, nello stesso giorno, obiettare: «Caro Andrea, la differenza tra me e te sta anche nel fatto che tu sei fortunato e io no: te, almeno, ti hanno “chiamato”, me non mi ha mai “chiamato” nessuno. Scherzi (ma non tanto) a parte, proprio questo è il punto: chi ti ha “chiamato”? e nell’ambito di quale logica o strategia? e nel quadro di quale area o schieramento politici? e quante delle energie creative che hai a disposizione devi e dovrai sacrificare per difendere da ingerenze e imposizioni le preziose qualità intellettuali e artistiche che più volte, e con convinzione assoluta, ti ho riconosciuto?».

   Ebbene, a questi interrogativi, che mi sembrano del tutto ovvi, Andrea De Rosa non ha mai risposto, li ha – puramente e semplicemente – ignorati. Trovo allora spontaneo, e in qualche modo obbligato, collegarmi al discorso di Cerciello sintetizzato con ironia al curaro nell’aggettivo «faziosaviana» da lui affibbiato all’iniziale puntata del programma televisivo «Vieni via con me». E chiudo ricordando (e, perché no?, facendole mie) le parole che poco prima di morire pronunciò uno dei più grandi intellettuali, poeti e drammaturghi del Novecento, Giovanni Testori: « In questi anni è stato come se non ci fossi, ma l’importante però è che io non abbia mentito, mai, e che non mi sia mai piegato per non essere isolato».

                                Enrico Fiore                       

 

 
 
 
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