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Il teatro visto da Enrico Fiore

 

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Il teatro, la cultura e i critici

Post n°363 pubblicato il 16 Novembre 2010 da arieleO

Sul sito dell’Arena del Sole, lo Stabile di Bologna, è stato aperto uno spazio chiamato «L’ora d’aria» e riservato alle recensioni e alle riflessioni che non hanno trovato accoglienza da parte dei giornali. Qui di seguito pubblico l’intervento sul ruolo e le prospettive della critica teatrale a cui sono stato sollecitato dal direttore della comunicazione della stessa Arena del Sole, Bruno Damini.

     Accolgo volentieri l’invito di Bruno Damini a una riflessione sul ruolo e sulle prospettive della critica teatrale. E parto da una raccomandazione di Peter Brook e da un’osservazione di Luca Ronconi. La raccomandazione di Peter Brook è questa: «Occorre mettere sempre una distanza fra se stessi e il lavoro che si fa, altrimenti non ci si accorge degli errori che si commettono nel farlo». E questa è l’osservazione di Luca Ronconi: «Temo che il teatro non sia più sentito come necessario dalla nostra società».

   Voglio dire, insomma, che è necessario ripescare la lezione di Marx, troppo in fretta scaraventata nella spazzatura. Affrontare correttamente un problema significa affrontare, nello stesso tempo, anche tutti gli altri problemi ad esso collegati. Se la critica teatrale è entrata in agonia, è perché è entrato in agonia il teatro; se è entrato in agonia il teatro, arte eminentemente sociale, è perché è entrata in agonia la società che lo esprime; se è entrata in agonia la società, è perché sono entrati in  agonia i sistemi di valori che un tempo la giustificavano, la sostenevano e la compattavano: sistemi di valori che si riassumevano nella parola cultura.

   Ebbene, al cospetto di una situazione del genere il teatro nel suo complesso (Stabili, sale private, produttori, impresari, direttori, autori, registi, attori e, per l’appunto, critici) continua ad essere un piccolo mondo autoreferenziale che s’illude di essere un grande mondo, anzi il Mondo tout court. Ed è da questa illusione che discendono l’omertà, l’ipocrisia e il compromesso che costituiscono i mali endemici del teatro di oggi. Allo scopo di raggranellare un po’ di pubblico (e, quindi, per fingere di avere ancora una funzione riconosciuta) un notissimo teatro di sperimentazione napoletano, che pure non pochi e non trascurabili meriti s’era conquistati, è arrivato a staccare biglietti ad appena 2 (due) euro l’uno. E a me torna in mente quel che una sera d’aprile del ’79 mi disse, nel suo camerino del San Ferdinando, un  signore che si chiamava Eduardo De Filippo: «Non riusciremo a procedere spediti fino a quando non avremo fucilato la dignità».

   Per «dignità» Eduardo intendeva, naturalmente, il falso decoro esteriore e - come afferma nella commedia che quella frase assume quale tema centrale – tutte «le bugie con le gambe lunghe» che nel piccolo mondo autoreferenziale del teatro continuano senza sosta e pudore a prendere il posto della realtà. A Napoli, tanto per fare un  altro esempio, ci si è inventati addirittura il teatro al nero: un tal Pasquale offre ai suoi cinquemila clienti sparsi fra il capoluogo e la provincia una sorta di cartellone trasversale ai cui spettacoli, nei vari teatri cittadini che partecipano all’iniziativa, si accede senza biglietto per soli 10 (dieci) euro, due a Pasquale e otto al teatro di turno.

   Questo per non citare le cosiddette rappresentazioni mattutine a cui vengono deportati manipoli d’ignari e annoiati studenti che non fanno altro che parlottare e ridacchiare fra loro (quando non sbeffeggiano apertamente e volgarmente chi sta sul palcoscenico) per tutta la durata dello spettacolo. Ci decidiamo una buona volta ad ammettere che vale anche per il teatro quel che diceva un nero africano in un vecchio film: «Quando si ha fame non si dipingono quadri»? Ci decidiamo, in altri termini, ad ammettere che c’è una disaffezione diffusa verso il teatro, una disaffezione che nasce in pari misura dalle difficoltà crescenti che incontra la gente per far quadrare il bilancio quotidiano e dal fatto, denunciato di recente da uno studioso del calibro di Tullio De Mauro, che la metà degli italiani non è in grado di padroneggiare (ossia di capire) un testo scritto, nemmeno un semplice articolo di giornale?

   Vengo, con ciò, all’argomento che mi è stato chiesto di affrontare (il ruolo e le prospettive della critica teatrale) e da cui solo apparentemente mi sono allontanato. Altro che la raccomandazione di Peter Brook. Fatte le debite (ma pochissime) eccezioni, i critici, mentre non si preoccupano di scendere dal loro piedistallo edificato su criptiche (o fin troppo chiare nella loro sostanza di messaggi agli altri affiliati) dissertazioni sui massimi sistemi, mentre cioè non si preoccupano di convincere, facendosi capire, gli spettatori potenziali ad andare a teatro, si preoccupano invece moltissimo di alimentare l’illusione di cui sopra, che il teatro sia un grande mondo, anzi il Mondo tout court.

   Vogliamo parlare dei critici che saltano dall’una all’altra giuria delle decine e decine di premi teatrali che incoronano a ripetizione nuovi Goldoni e nuovi Pirandello che poi entro breve tempo si dissolvono come neve al sole restituendo il posto, nei museali cartelloni dei vari teatri più o meno «stabili», ai Goldoni e ai Pirandello veri? Vogliamo parlare dei critici che scrivono sistematicamente in ogni programma di sala di questo o quel teatro, sì da configurarsi come veri e propri suoi dipendenti? E vogliamo parlare, infine, dei critici che siedono nei consigli d’amministrazione di teatri pubblici e contemporaneamente dirigono festival, facendo inserire nei cartelloni dei teatri che amministrano gli spettacoli che precedentemente hanno inserito nei festival che dirigono?

   Cari amici, io, sia ben chiaro, non mi lamento per me, giacché le mie cinquanta righe di recensione (e per un singolo spettacolo) ancora me le danno, pubblicandole regolarmente due giorni dopo la «prima». Il punto è che la critica teatrale sta morendo non solo perché i giornali le tolgono spazio, ma anche e soprattutto perché ha perso credibilità. Ma qui, per parafrasare l’osservazione di Ronconi a proposito del teatro, esprimo il timore che la critica teatrale non sia più sentita come necessaria dagli stessi teatranti. E ripeto al riguardo quanto – colloquiando con Andrea De Rosa, direttore dello Stabile di Napoli - ho scritto sul mio blog «Controscena. Il teatro visto da Enrico Fiore» il 20 ottobre scorso: «Circa il fatto che la critica teatrale è praticamente sparita dalla carta stampata, non so quante volte, almeno nell'ultimo decennio, ho sentito proclamare - da parte di autori, produttori, impresari, direttori di teatri, registi e attori - l'intenzione di varare un documento di protesta da inviare ai responsabili di quotidiani e periodici. Ma quel documento non è mai stato varato. Perché la verità è che ai teatranti (intendo alla loro stragrande maggioranza) non interessa, appunto, l'analisi critica del fenomeno teatrale, ma solo il soffietto propagandistico mascherato da intervista o da cronaca della presunta conferenza stampa di presentazione del proprio spettacolo di turno. Ma c'è di più e di peggio. Nei miei circa cinquant'anni di attività professionale, ho tenuto a battesimo, e comunque fiancheggiato, tutti gli eventi di rilievo che si son verificati nel teatro (e nello spettacolo in genere) napoletano: dalle prime esperienze dei vari Martone e Servillo alla “Carmela” di Sergio Bruni, di cui sono stato l'iniziale ascoltatore privilegiato. E in cambio, certo, non mi aspettavo un monumento, ma mi aspettavo, questo sì, che almeno mi fossero risparmiati attacchi, insulti, delazioni ai direttori dei giornali per cui scrivevo e persino querele per diffamazione. Concludo lasciando decidere a te che cosa tutto questo c'entri con la cultura».

   Con le ultime parole di quel commento mi riferivo, è ovvio, agli alti lai levati contro i famigerati tagli ai fondi pubblici destinati, per l’appunto, alla cultura. E spero che non mi si sospetti di simpatie berlusconiane, visto che mi porto il marchio del comunismo stampato persino là dove non batte il sole e che mi sono giocato la pelle correndo in ogni posto d’Europa (in Grecia durante la dittatura dei colonnelli, in Portogallo durante la «rivoluzione dei garofani»…) dove ci si batteva per la libertà.

   Voglio solo e timidamente osservare che se non si cambia la società, ossia la Struttura, non ci si può illudere che abbia sorte migliore la cultura, ossia la Sovrastruttura. Di quale cultura parliamo se il teatro, il giornalismo, l’Università non sono che ostaggi della politica di bassissimo rango che oggi ci tocca? Ripeto, allora, quel che risposi a Maurizio Scaparro quando, una volta, mi chiese come si possa uscire dall’attuale impasse. Se ne può uscire riscoprendo tutti insieme, con un po’ di autocritica, quella cosetta semplice semplice che, giusto, si chiama dignità: stavolta nel senso del rispetto che dobbiamo a noi stessi, al lavoro che facciamo e ai destinatari di quel lavoro.

                               

                                           Enrico Fiore                                                          

 

 

 
 
 
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