Francamente, non capisco che cosa c'entri Paolo Poli con quella Anna Maria Ortese dai cui racconti ha tratto lo spettacolo, «Il mare», adesso in scena al Bellini. Come sappiamo, molti sono stati gli scrittori presi in prestito dall'ineffabile e perfido dissacratore fiorentino per sbeffeggiare la retorica e il conformismo del Belpaese. Ma la Ortese non è Fogazzaro, non è Carolina Invernizio. E non è nemmeno Palazzeschi, nemmeno Irene Brin e Camilla Cederna, nemmeno Goffredo Parise. Sicché non vale, nella circostanza, né l'una né l'altra delle due operazioni di solito compiute da Poli: volgere in burla la seriosità dei «vati» che sembrano dir molto e assumere seriamente la burla dei «giullari» che sembrano dir poco.
Gli è che lo scopo di Anna Maria Ortese non era la satira di costume, ma erano la denuncia e l'analisi della nostra miseria spirituale, politica, sociale e culturale. E perseguì quello scopo con una chiarezza e una spietatezza sconosciute alla maggior parte dei suoi colleghi, fino a pagare di persona con l'isolamento e le ristrettezze economiche. «Vedo la vita senza pensiero, privata di critica, correre via come un giorno unico, monotono: come un'imbarcazione piegata su un fianco, e non guidata più da nessuno». Così scrisse in «Corpo celeste». E aggiunse che il vuoto lasciato dalla «perdita grave e terribile di sentimento del vivere» era stato colmato solo dalla «virtù del nulla».
È perché non vuole salire su quell'«imbarcazione» che Eugenia - la bambina «cecata» de «Il mare non bagna Napoli», il celebre libro della Ortese che dà il titolo allo spettacolo - viene presa da un vomito irrefrenabile quando finalmente inforca gli occhiali che aveva tanto desiderato. Ma qui Eugenia diventa una mezza scema schiaffata in una recita a sfottere con corredo di pantomima intorno a un gigantesco piatto di spaghetti e vongole. E insomma, ne «Il mare» non si determina, come in molti degli spettacoli precedenti di Poli, l'interazione e, di più, il corto circuito fra i testi e la ben nota cornice di siparietti «en travesti», canzoni e canzonacce in cui gli stessi vengono immessi.
Certo, il mattatore, pur ottantunenne, si muove - tra «Si fa ma non si dice» e «La saga di Giarabub», tra «Besame mucho» ed «El cumbancero», tra «Que reste-t-il de nos amours» e, naturalmente, «La mer» - con l'eleganza raffinata e l'aguzza ironia di sempre. E fanno il loro dovere anche i suoi quattro boys/girls. Ma non a caso il meglio lo dà, Paolo Poli, con i bis finali estratti dai vertiginosi doppi sensi erotici delle rime di Argia Sbolenfi, alias Olindo Guerrini: perché, appunto, ritrova la sintonia fra le parole adottate e lo sberleffo che gli è proprio.
Enrico Fiore
(«Il Mattino», 11 febbraio 2011)
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