CONTROSCENAIl teatro visto da Enrico Fiore |
AREA PERSONALE
TAG
MENU
« La gelosia di Molière a ... | Frankenstein come un div... » |
Dice Wilhelm Furtwängler: «Io credo che si debba lottare dall'interno e non dall'esterno». E precisa: «Io sono rimasto per dare conforto, per assicurarmi che la gloriosa tradizione musicale di cui mi considero fra i custodi rimanesse intatta, perché fosse intatta quando ci saremmo svegliati dopo l'incubo». Ma Steve Arnold gli obietta: «Eri come uno slogan pubblicitario per loro. Questo produciamo, il più grande direttore d'orchestra del mondo. E tu ci stavi. Magari non sarai stato membro del Partito, perché la verità è, Wilhelm, che non avevi bisogno di esserlo».
Ecco, sono queste le battute-chiave de «La torre d'avorio», il testo di Ronald Harwood in scena al Diana. Si tratta, infatti, dell'interrogatorio a cui, nel 1946, il celebre musicista viene sottoposto da parte del maggiore dell'esercito americano incaricato dal tribunale della «denazificazione» di provare la sua presunta (tenuto conto che altri artisti e intellettuali tedeschi avevano preferito l'esilio) connivenza col regime di Hitler.
In breve, Harwood si propone - giusta la domanda di un altro personaggio, Tamara Sachs: «Come potete trovare la verità?» - di lasciare che sia lo spettatore a decidere per chi schierarsi tra Furtwängler e Arnold. E per stimolare il pubblico a questa presa di posizione immagina l'ufficio in cui si svolge l'interrogatorio come un'«isola» (leggi: il ring della coscienza) circondata a vista dalle macerie (leggi: la storia) della Berlino rasa al suolo dalle bombe alleate.
Invece Luca Zingaretti, che non a caso proviene soprattutto dalla televisione e dal cinema, punta sul realismo: sicché, in quanto regista, colloca quell'interrogatorio in un ufficio-ufficio, grigio e asettico come ogni ufficio e completamente chiuso all'«esterno» del mondo e della società; e in quanto attore, fa di Steve Arnold un militare che più militare non potrebb'essere, evidentemente nevrotico e letteralmente murato nelle proprie certezze e nei propri pregiudizi.
A sua volta Massimo De Francovich, che non a caso proviene soprattutto dal teatro, punta sulla simbolicità: e dunque disegna di Furtwängler un ritratto giustamente e assai efficacemente tramato di accensioni passionali mischiate con allusioni, sottintesi e mezze verità.
Fra gli altri, si distinguono Gianluigi Fogacci (Helmuth Rode), Peppino Mazzotta (il tenente Wills) e Caterina Gramaglia (Emmi Straube). Gran successo, a riprova che il processo sul palcoscenico (ricordate «La parola ai giurati» di Alessandro Gassman?) funziona sempre.
Enrico Fiore
(«Il Mattino», 16 febbraio 2013)
INFO
CERCA IN QUESTO BLOG
ULTIMI COMMENTI
Inviato da: roberto
il 11/12/2013 alle 16:45
Inviato da: arieleO
il 12/11/2013 alle 09:39
Inviato da: floriana
il 11/11/2013 alle 19:40
Inviato da: Federico Vacalebre
il 16/10/2013 alle 17:14
Inviato da: arieleO
il 16/10/2013 alle 17:10
CHI PUÒ SCRIVERE SUL BLOG
I messaggi e i commenti sono moderati dall'autore del blog, verranno verificati e pubblicati a sua discrezione.