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26/5/2007 The great gig of Pink Floyd Sound 2 (Bibbona marittima on air)

Post n°116 pubblicato il 31 Maggio 2007 da darkside_79
 
Foto di darkside_79

Abbiamo un puntino sulla cartina stradale che voglio vederti a conoscerlo anche solo per sentito dire. Abbiamo un alberghetto che costeggia una rotonda situata ai margini di questo puntino sulla cartina, un posto che profuma di familiare, senza tanti fronzoli. Dove la cortesia e la pulizia sopravvanzano qualsiasi altra scintilleria, e dove chi ti porta da mangiare è un signore piccino e mai invadente che se non lo cerchi rischia di passare inosservato. Mi piace pensare, con un filo di malinconia, a quante persone transitano di lì ogni giorno, spesso occasionalmente, e magari di Riccardo conoscono solo la frittura. Come i clienti che a mezzodì di domenica scorsa si sono seduti ai tavoli apparecchiati ignari di ogni cosa. L'area ristorante era esattamente come l'avevamo trovata il giorno prima, senza una virgola fuori posto. Il camiciotto di Riccardo, bianco e stirato. La penna e il taccuino per gli ordini, la cameriera che ti cambia il piatto. Abbozzavo un sorriso, giusto pochi attimi prima di mettere in moto e fuggire via, scorgendo quei clienti pranzare in quella parentesi di inconsapevolezza. Vaglielo a spiegare che su quelle piastrelle, pochi giri di lancette indietro, ci stava una batteria affittata a Cecina, con i piatti rastrellati a Torino, le aste portate da Bari e i microfoni raccattati a San Giovanni Rotondo. Vaglielo a raccontare che dietro di lui scorrevano centinaia di cavi, che una montagna di amplificatori, tastiere, reggichitarre e trick e track seppellivano il pavimento, che c'era un gruppo di innamorati che si emozionava ad ogni respiro, che cantava, ballava, soffriva e si deliziava di esserci. Ma nulla, quel signore si gustava il quartino e di certo non sospettava alcunchè. Non una traccia visibile, Zero di zero. Tutto smontato e ripulito durante la notte, quasi con furtività, con metodo mordi e fuggi. Come le bolle di sapone di Simo nascevano, screziavano il soffitto e pluff... così noi siamo arrivati in punta di piedi, abbiamo cinto quelle mura di una scorza agrodolce, costruendo mirabili castelli in aria sorretti dalle nostre note, dai nostri sogni, dal nostro emozionarci senza vergogna e alle luci dell'alba siamo volati via, eclissandoci dietro i cieli di Toscana. Nell'aria nemmeno più l'eco della chitarra di Francesco. Un senso di normalità in quel ristorante, ora che tutto era ritornato al suo posto, che quasi mi veniva il magone. Vaglielo a dire a quel tipo là che c'ero io che sbuffavo sudore e lacrime su quel rullante, urlando idealmente in faccia a chi mi vorrebbe sempre intriso di cinica razionalità, che io sono fiero di essere un debole. Sono fiero di piangere, sono fiero di non amare il potere, sono fiero di non saper comandare nessun'altro se non il ritmo di quella Any Colour che ad ogni rullata diventava sempre più furiosa, sempre più palpitante. Mi ci rivedo: eccomi lì, ci sudo l'anima, ci rovescio dentro 28 anni di vita, mordo il tamburo coi denti se posso. Se non mi fermano ci sanguino pure, l'avrei fatta tre volte più veloce. Sono posseduto, indiavolato, brucio da solo, sono vivo. Li ho fatti ballare i ragazzi su Any Colour, a sto giro li ho fatti sudare diciotto camicie; c'era Arber al basso con le dita che fumavano da sole, Vince ha consumato la plastica e su quei tasti c'ha mollato i polpastrelli. Enzo poi, ah ah, Enzo!... da english man impassibile e serafico s'è trasformato giocoforza in un improbabile mix fra Mick Jagger e Keith Emerson, con qualche pennellata di lussuria sfrenata di pornografica memoria. Enzo è stato il polso della situazione, vederlo saltare sui synth come un canguro mi ha fatto capire che l'avevo inventata bella. Un cambio di tempo che chissà. Metafora di vita, come spesso solo la musica può fare.

Ci pensavo mentre passavo per La Spezia. Bibbona era ormai lontana, e cominciava a piovere. Ho dovuto cancellare l'ultima testimonianza fisica della giornata, quando il tergicristalli ha lavato via lo stampo del faccione di Arber impresso sul vetro. Me lo sono portato quasi fino a Rapallo come quei casi mistici di visi sacri che appaiono fra le umidità e i calcinacci dei muri. Pensavo alla vita e ai suoi risvolti, pensavo a come sei veramente, la canzone di Allevi. Pensavo che con la parrucca rossa da mignottone di Bari e il flauto Aulos delle medie a fare lo stupido ero più autentico di quando, in giacca e barba fatta sto lì a discutere di finanziamenti e investimenti. Pensavo a Michela che mi riscalda ad ogni metro di questa autostrada infinta. Il mio angelo custode. E intanto la testa tornava là. A quel groviglio di fili e cavi jack. Alle luci stroboscobiche che quel faccino meraviglioso di Simona continuava a proiettare sui muri. Suonavo, potevo a malapena scorgere piccoli dettagli, accerchiato da visioni chiaroscurali e repentini cambi di sfumature . Ci ho visto un fiore e il simbolo della pace, poi i visi delle due Ilarie come sovrapposti. L'occhiolino sorridente di Cluster mentre attaccavo Shine on e le lacrime a diga venuta giù di Moon dopo aver amoreggiato con The great gig in the sky. Ci ho visto il pancione di Claudia e la dolcissima dedica che gli è stata fatta prima di attaccare Mother, ci ho scorto Daniele in postazione audio-video, il liberatorio sorriso di Fabio sul solo di The final cut, ho immaginato di poter stringere forte Chiara quando la chitarra faceva i capricci e si negava approfittandosi della sua fragilità emotiva. Come se fosse un difetto poi... 
E' stato proprio Allevi a riscaldarmi il cuore poche settimane fa, quando disse che la sua fragilità era la sua unica forza. Strappandomi una lacrima. Un pò come quelle che affioravano quando a luci spente incalzavo sulle note di Echoes. Un nuovo flashback mi risucchia con prepotenza; dominato da forze pulsanti e intestine, faccio crescere il brano sino alle liberatorie note di Francesco, quasi un fiume che ritrova il mare dopo essere partito da lontano. Che poi Francesco non è catalogabile fra le file degli esseri umani. Non so chi o cosa sia. Adesso che ha abbandonato i foulards bluette a pois non ha più riferimenti intelleggibili. Secondo me quando le luci si spegnevano e partiva con l'assolo di Comfortably numb accadeva quello che da tempo ho sempre sospettato, di fisso non ci vado lontano. Atterrato da Saturno per qualche imprecisata missione intergalattica, si nasconde sotto fisionomie a cavallo fra gli occhiali di Harry Potter e il caschetto tipo fungo di Hiroshima, per poi far sgusciare almeno altri quattro arti da dodici dita ciascuno. Snocciolava note su quell'assolo che Chiara e Fabio non resistevano e nel pieno del concerto gli si buttavano ai piedi in preda a delirio tremens e adorazione contemplativa. Chiamatela estasi mistica, se volete. Francesco io non ho aggettivi capaci di coglierti; sei fantastico. Qualunque cosa tu sia e da qualunque galassia tu provenga. Te e quel venusiano di Enzo, 'che insomma, ce n'è pure per lui.
Ma no, ce n'è per tutti in verità. Piccoli ma immensi fotogrammi che valgono un dipinto a pastello di inestimabile valore affettivo. Gli occhi lucidi di Beppe, quelli non li scordo mica, e nemmeno la cortesia disarmante di Roberta. Il sole l'han portato Fabiana e il suo ragazzo, due volti che ripuliscono da soli i centinaia di luoghi comuni su una città inestimabile come Napoli, rendendola bella come non mai. E poi il brulicare di mille faccende che fanno da contorno al raduno: c'è chi porta gli strumenti, c'è chi porta le torte e prepara le pizzette, c'è chi ci mette l'albergo e il frigo bar, c'è chi organizza le videoriprese e il mixer. Siamo tutti protagonisti, anche solo chi canta le canzoni fra il pubblico. O chi le prepara. Prendi Max ad esempio. Cioè non so se a qualcuno è stato chiaro che con due misere prove rubate alla pausa cena ha saputo guidarci attraverso gli oltre venti minuti di Atom Heart Mother senza sbagliare una virgola. Non mi pare siano molte le cover band titolate nella penisola che possono permettersi un pezzo simile. Noi, che siamo sgarruppati e improvvisati, sì.
Magia di Bibbona.
Nei rantolii fra un pezzo e l'altro mi sono avvicinato al pc che stazionava sul tavolo delle riprese, il tavolo high tech. Sai quello che io ci sto lontano che per me è tutto arabo. Ecco, ho scoperto che via Webcam era stato creato un collegamento speciale con MrPinky. Un'occhiata fugace e me lo vedo scompigliarsi in salotto in preda a pogo solitario contro il catcus da appartamento. Partecipava come fosse in prima fila, la cosa mi ha emozionato (ma non sorpreso caro Ste, 'che io lo so che sei fatto così) e ritengo vada ricordata negli annali. Un pò come la metamorfosi improvvisa che ha investito il nostro capo. Sai Fabrizio, vederti sferzato da timidezza assoluta e poi ingranare piano piano fino a perdere ogni barriera difensiva è stato il dipinto più bello di tutto questo week-end, non ci crederai ma il tuo volto prima corrucciato poi incapace di mascherare archi di emozione, lo porterò dentro.
Come porterò dentro la musica. Che poi è dura, sapete. Come puoi raccontare undici ore di musica mi sfugge proprio. Come puoi scrivere i profili di ognuno di noi in quei momenti, gli sguardi complici, i mezzi sorrisi quando si svarionava e i trentasei denti compiaciuti quando si azzaccava il passaggio difficile, proprio non mi viene. Forse perchè non vanno raccontati, vanno vissuti. Ed io devo ringraziarvi ragazzi, perchè  per una sera ho accarezzato il sogno di sentirmi un artista, un artista vero. Magari solo per pochi respiri, ma per me impagabili. Immensi. Io che non so manco come è fatta una nota sullo spartito, che appena lo vedo ci scorgo solo le linee bianconere come la maglia della Juve. E mentre godevo di furore personale mi soffermavo a guardarvi tutti, nessuno escluso. Ci vedevo del genio in ognuno, dalla poliedricità di Vince alla incredibile onnipresenza di Enzo, dalla chitarra di Francesco ai passaggi perfetti di Max e Bruno. La tecnologia avveneristica di Brain e Claudio, i panini e le pizzette (ci vuole arte anche in cucina figli miei) di Roberta e company, la cascata di amennicoli che Simona tirava fuori da quella valigetta. Per non parlare dei cartelli. E Chiara, e Fabio, e Ilaria al piano. E tutti, senza distinzione. 
Ci siamo sentiti parte di un gruppo splendido, di un'atmosfera di cui andiamo fieri. Per tutto questo Stefano e Michela ringraziano con devozione. Saremo anche una grande famiglia da ricovero neuropsichiatrico collettivo noialtri di PFS, un pò matti, come i poeti. Un pò innamorati e un pò dannati. Un pò sognatori e un pò tenerilli. Pure un pò scemi, se pensiamo a quanti sacrifici per regalarci una manciata di ore di ossigeno e poesia. Però diciamocelo, e nemmeno troppo sotto voce: non lo rifaremmo già domani?

 
 
 
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