Creato da Blackwater_park il 27/02/2007

Wildest Dreams

In the beginning...

 

 

I quattro cavalieri

Post n°6 pubblicato il 20 Aprile 2007 da Blackwater_park

Correva l'anno 1983 quando usciva il primo album di una band che avrebbe cambiato radicalmente faccia all'heavy metal.

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Stiamo infatti parlando di quel pazzesco lavoro che fu "Kill 'em all" dei Metallica.

Va detto che attorno a quel periodo uscirono diversi altri album fondamentali per la nascita di un genere fino ad allora appena accennato e che avrebbe in seguito generato un vero e proprio movimento: il Thrash Metal. Tra le bands che affiancarono i 'Tallica in questo roboante cambiamento c'erano gli Slayer (si ricordi "Show no mercy"), gli Exodus ("Bonded by blood"), gli Anthrax ("Fistfull of metal") e in maniera minore anche gli Overkill ("Feel the fire" che sarebbe uscito solo nel 1985).

Perchè i Metallica fecero la differenza? A detta di molti addetti ai lavori perchè il loro sound, pur grezzo in questa prima prova, era già molto tecnico, ricco di cambi di tempo e spinto da un mix tellurico (vero marchio di fabbrica dei primi tre album) tra heavy metal e punk. Il songwriting, a parte alcune canzoni, è quello classico di quegli anni e anche ovviamente "spinto" dalla giovane età dei componenti, si pensi a canzoni come "Metal Militia", "Whiplash" e "Jump in the fire".

Quello che colpisce dei quattro di Frisco è la maturità musicale e tecnica. Dalla sua nascita il thrash è sempre stato il capolinea ovvio della tecnica, dove parti sincopate di chitarra, assoli lunghi ed elaborati, tempi in doppia cassa e rullate velocissime facevano ammattire l'ascoltatore. Questi quattro ragazzi erano, e sono tutt'ora, in possesso di qualità straordinarie. Il talento della chitarra solista di Hammett, la precisione cronometrica dietro le pelli di Ulrich (che avrebbe dato il massimo di se nel sottovalutato "...And justice for all" del 1988) o la stravaganza psichedelica del compianto Burton al basso erano tutte componenti che hanno fatto del combo della bay-area una specie di faro assoluto, alla faccia di tutte le mode. L'unica nota appena appena fuori dal coro in "Kill 'em all" la si può forse rintracciare nella voce giovanissima e un po' stridula di Hetfield. Ma è un dato marginale a cui si presta attenzione senza per questo inficiare la bontà di un lavoro come questo.

Del resto va anche detto che Hetfield affilerà subito le lame e già dal successivo "Ride the Lightning" (1984) la voce ha uno spessore e una maturità notevolmente cresciuta. Tra l'altro mi permetto di dire che a mio avviso frontman come il Signor James Hetfield ce ne sono e ce ne sono stati pochissimi, sia per presenza scenica, che per carisma e anche per intelligenza. Oltre che essere mente pensante, generatrice e organizzatrice (assieme a Lars Ulrich, con cui litiga spesso e volentieri) del fenomeno Metallica.

A tutti gli effetti quindi un album da riscoprire, riascoltare e omaggiare. Su "Kill 'em all" trovate quasi tutto quello che si sarebbe sviluppato in seguito: le basi dello speed metal, tracce di death metal, power metal e naturalmente la spinta generatrice del thrash più puro.

Da avere! (se non ce l'avete e vi piace il metal...ah, beh "Houston, abbiamo un problema!"

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Metallica 1983:

James Hetfield - Chitarra, voce

Kirk Hammett - Chitarra

Lars Ulrich - Batteria

Cliff Burton - Basso

 
 
 

Post N° 5

Post n°5 pubblicato il 31 Marzo 2007 da Blackwater_park
Foto di Blackwater_park

Nonostante abbia finora parlato di gruppi del passato (grandi vecchi, se vogliamo, ma ancora in circolazione) e su note prettamente rock/hard-rock, è chiaro che non mi limiterò né a questi generi, né solo ad artisti "pluridecennali".

Stasera, in giro sulle pagine nel tentativo di finire un lavoro di revisione (ebbene si, scrivo...), ascoltavo una band che per me rappresenta una specie di icona. Band dalla quale ho perfino estrapolato il mio nick. Gli Opeth.

Non ne parlerò qui in modo dettagliato o biografico, ma solamente emozionale. Gli Opeth sono una band che ti apre corridoi lontani, tenuti chiusi da troppo tempo. Strade oscure, finestre livide. Le emozioni che regalano sono spesso liquide, talvolta ariose, in parte arse da un fuoco millenario che bruciava nei boschi dove un tempo i nostri antenati innalzavano canti agli dei.

Mi regalano sensazioni contrastanti. Gioia, dolore, costernazione, rabbia...anche dolcezza, seppur contaminata da passaggi di cupa e melodica rimembranza.

Grandi, gli Opeth.

Con i più grandi, anche loro.

 
 
 

L'attacco dello Squalo Bianco

Post n°4 pubblicato il 28 Marzo 2007 da Blackwater_park

Nel lontano 1991, anno da molti ricordato per diverse cose, più  o meno piacevoli (la prima "desert storm" e l'uscita del disco della svolta dei Metallica [il black album]), faceva la sua comparsa nei negozi un gioiellino di hard-rock che negli anni a venire avrebbe raggiunto la fama di capolavoro.

Il disco in questione si chiamava "Hooked" e i suoi artefici erano una compagine scanzonata e ruvida che rispondeva al nome di Great White.

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I nostri non erano certo alla loro prima uscita, ma fu quel disco a consacrarli come uno dei gruppi (forse l'unico in quel periodo) di punta di certo hard-rock-blues che richiamava nelle sue note i grandi maestri del passato, con una strizzata d'occhio alle classifiche.

Per sfortuna e per ignoranza musicale, in Italia questo disco non è granchè conosciuto, ed è un vero peccato perchè "Hooked" è un lavoro straordinario. Per tecnica e per originalità.  Nelle diverse tracce della band di Jack Russell si trovano rimandi al classico rock degli Zeppelin, dei Foghat, ma anche dei southern rockers Lynyrd Skynyrd. A rischio di sembrare eretico, io trovo che in questo disco i Great White siano riusciti non solo a fare il verso, ma anche ad essere più efficaci e devastanti degli stessi Kiss.

C'è tutta una generazione di capolavori nelle note di questo platter. Dal suono smagliante e granitico di "Desert moon", alle note ruffiane e robuste di "Call it rock'n'roll", senza dimenticare l'anthem "Cant shake it". Le chitarre volano sul tappeto di una sezione ritmica precisa come un metronomo, ma dotata anche di fantasia e acuto desiderio di lasciare il segno. Le note di hammond che si uniscono alle songs sono di impatto emotivo pazzesco, basti pensare, a questo proposito, all'inserto centrale della straordinaria "Congo square".

E la voce? Ah, beh, il buon Jack Russell non sfigura affatto in una classifica ipotetica dei migliori rock-singers di tutti i tempi. Graffiante, ruvido, acuto e sfrontato. Ma capace anche di momenti delicati ed intensi, come nella conclusiva, e stupenda, "Afterglow".

In definitiva, ragazzi miei, a fronte di un panorama rock talvolta avvilente, se trovate da qualche parte "Hooked", acquistatelo ad occhi chiusi. E' davvero un gran disco!

Formazione 1991:

Jack Russell - Voce

Mark Kendall - Chitarra ritmica e solista

Audey Desbrow - Batteria

Tony Montana - Basso

Michael Lardie - Hammond, piano, chitarra

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Post N° 3

Post n°3 pubblicato il 01 Marzo 2007 da Blackwater_park

Correva l’anno 1986 quando per la prima volta venivo in contatto con la musica di quei tre pazzi texani degli ZZ Top. Andavo a scuola all’epoca (bei tempi…), i “grandi fratelli” e i “porta a porta” era ben lungi dall’essere anche solo un’idea nella testa scellerata di chi poi ne avrebbe fatto fenomeni di costume. C’era Maurizio Costanzo…vabbé…

Questa compagine pittoresca e fracassona proveniente dal profondo sud degli states io la avvicinai attraverso un album considerato, di diritto, uno dei lavori migliori dell’hard southern rock degli anni ’80 (ma a ben vedere, di tutto il rock): “Eliminator”.

Uscito nel

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1983, quest’album presentava una caratteristica pressoché unica. Tappeti di sintetizzatore ad arricchirne il sound granitico, qualcosa di incredibile per l’epoca (e per i puristi del genere). Fatto sta che, oltre ad un songwriting assolutamente stratosferico, melodie sfacciate e video azzeccatissimi, fu proprio quel particolare elettronico a fare di “Eliminator” uno dei dischi più venduti di quell’anno, restando per parecchi mesi in classifica. Canzoni come la ruffiana “Gimmie all your lovin’”, un mega-hit, la rocciosa “Sharp dressed man” e la  potente “Got me under pressure” fecero subito presa e divennero ospiti fisse dei passaggi radiofonici.

“Eliminator” fu un antesignano di certo rock elettronico degli ultimi anni, ma anche un vero gioiellino nel panorama southern rock/hard rock, in tempi che vedevano la nascita del movimento thrash metal, la crescita esponenziale degli affiliati all’heavy metal in senso generico e l’esecrabile aumento di fenomeni discutibili come gli “Wham!” e gli “Spandau Ballet” (non me ne vogliano gli aficionados di tal gruppi, ma erano veramente patetici…).

Ma se è vero che il 1983 fu l’anno del successo totale degli ZZ Top, non va dimenticato cosa avevano fatto prima. Il primo vero hit single lo piazzarono dieci anni prima, quando uscì “Tres hombres”. Il singolo “La grange” è ancora oggi uno dei più famosi della storia del rock e ha uno dei riff di chitarra più copiati di tutti i tempi.

Altri brani che vanno segnalati sono “Tush”, del 1975, contenuta nel curioso album “Fandango!”, disco con la side A dal vivo e quella B in studio. E poi, naturalmente, il forte e personalissimo “Deguello”, del 1979, con la simpaticissima “Cheap sunglasses”, un mid tempo ad effetto. Di “El loco”, uscito nel 1981, va sicuramente segnalata “Tube snake bolgie”, dove si sente bene che il prossimo passo potrebbe essere verso qualcosa di ben diverso.

Va detto che i tre barbuti avevano spesso espresso, nelle loro canzoni, le intenzioni di distaccarsi un po’ dal panorama southern , forse troppo ristretto per loro. E probabilmente “Eliminator” è proprio questo. Il ponte ideale fra rock sudista, hard rock e melodia.

Quel che è successo dopo quel 1983 è stato un continuo battere su un ferro molto caldo.

“Afterburner”, del 1985, conferma i sintetizzatori e anzi ne aumenta la dose, cosa che piace a tanti, ma a molti fan della prima ora lascia l’amaro in bocca. Incommensurabili, comunque, le hit “Sleeping bag” e “Planet of women”. Nel 1990 danno alle stampe “Recycler”, album a metà tra la futuristica synth del precedente e la voglia di tornare ad un passato più spoglio e diretto. Va ricordato che da questo album venne presa “Doubleback” per la colonna sonora di “Ritorno al futuro – parte III”.

Per il resto, beh, i cari texani dalle barbe lunghissime (un marchio di fabbrica; pare che una nota azienda di rasoi abbia offerto loro un milione di dollari per radersi, ma hanno rifiutato!) non hanno fatto molto altro. Continuano a pubblicare dischi, l’ultimo nel 2003, “Mescalero”, ma i fasti degli anni ’70 e ’80 sono lontani. Si rintracciano qua e là buone tracce su dischi come “Antenna” del ’94, “Rhythmeen” del ’96, ma la verve sembra aver lasciato il passo.

Noi però facciamo spallucce e continuiamo a tenere alto il morale ascoltandoci il sempreverde, potente e trascinante “Eliminator”.

Per il resto, chissenefrega!

Formazione 1983:

Billy Gibbons – chitarra, voce

Dusty Hill  - basso, voce

Frank Beard (l’unico senza barba!) – batteria, voce

35 anni senza mai cambiare line-up!!!!!

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Post N° 2

Post n°2 pubblicato il 28 Febbraio 2007 da Blackwater_park

“Quando, nel lontano 1985, un amico mi portò una cassetta che aveva appena registrato, non avrei mai pensato che ventidue anni dopo quella musica sarebbe stata tanto presente nella mia vita, nel mio sangue, nel mio spirito.

Ricordo ancora com’era quella cassetta. E ricordo perfettamente qual’era la canzone che la apriva. “Hotel California”.

E da allora quel brano è capace di suscitare in me sensazioni indescrivibili ogni volta che lo ascolto. Forse anche più di quanto accadde la prima volta.

Una canzone leggendaria. Una band leggendaria.”

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Nel 1977 la band americana Eagles da alle stampe quello che sarà ricordato per sempre come il loro successo più famoso:  “Hotel California”.

Forti di una formazione straordinaria, dotata di un songwriting eccezionale, i nostri sfoderano in quell’album alcune delle loro canzoni migliori e, in senso generale, più belle dei seventies (e anche di più.).

La dolcissima “Wasted time”, la robusta “Life in the fast lane”, la melodica e struggente “The last resort”. Ma più di tutte, quella che resterà a memoria anche di chi la band non la conosce/non la ricorda è la title-track: “Hotel California”. Questo è un pezzo che fonde magistralmente quelli che erano stati sin dagli esordi gli intenti della band. Una miscela riuscita di rock, country e blue grass. Quest’ultimo genere lo si rintraccia specialmente nella parte finale del pezzo: il meraviglioso, storico e dirompente assolo, che vede coinvolti tutti e tre i chitarristi dell’epoca. Don Felder, Joe Walsh e Glenn Frey.

Ma la strada per arrivare ad un simile risultato e al successo planetario era iniziata qualche anno prima.

Formatisi all’inizio degli anni ’70 dalla mente di Don Henley e Glenn Frey (impegnati fino a quel momento come componenti della band della cantante country Linda Rondstadt), gli Eagles incidono l'omonimo “Eagles”, un album pazzesco per l’epoca, coi suoi continui rimandi country ("Take it easy") o la vena rock cupa e velenosa di “Witchy woman”. Il disco ottiene un successo immediato ed insperato, piazzandosi subito in classifica.

Forti del successo, l’anno successivo incidono “Desperado”, album che spiazza un po’ tutti per il suo forte richiamo western (si tratta di una specie di concept, incentrato su un’ipotetica banda di fuorilegge Doolin Dalton, cui viene dedicato anche un brano e un “reprise”).  

Nonostante alcune chicche straordinarie quali la stessa “Desperado” e “Tequila sunrise”, l’album non conferma nell’immediato, a livello di vendite, quel che aveva fatto segnare l’esordio. Ma è, invero, un gran bel disco, e il tempo ha dato ragione a loro. Eccome.

Nel 1974 entra nel gruppo il chitarrista Don Falder e la banda da alle stampe “On the border”. Pur senza discostarsi dai loro canoni, dove melodia e classe crescono esponenzialmente con l’affiatamento della band, questo disco ha, secondo me dei punti di forza notevoli rispetto ai predecessori. Il rock, vero e spumeggiante, lo si sente davvero e “Already gone” e “James Dean” ne sono un esempio chiaro e lampante. C’è poi una parentesi bellissima, “Ol’ 55”, originariamente scritta ed eseguita da Tom Waits ,che gli Eagles interpretano magnificamente, personalizzandola con il loro stile ormai inconfondibile (personalmente uno dei pezzi migliori degli Eagles, pur se non scritto da loro). E poi c’è la ballad “Best of my love”, che diverrà uno dei più gettonati cavalli di battaglia del gruppo e il primo, vero, enorme successo da classifica.

Il 1975 porta con se uno dei dischi più amati dai fans: “One of these nights”.

E’ un successo totale. “Take it to the limit”, “Lyin’ Eyes” e “One of these nights” sbancano le classifiche. Lo stile è cristallino e le canzoni sono bellissime. Gli Eagles diventano i beniamini negli States ed iniziano ad affacciarsi anche all’estero con prepotenza. Nello stesso anno il chitarrista Bernie Leadon, con loro dagli esordi, lascia la band, stanco della vita sempre on the road. Viene sostituito da quello che giustamente si può considerare un vero e proprio mattatore del palcoscenico: Joe Walsh. Joe proveniva dalle esperienze con la James Gang e i Barnstorm e aveva già inciso diversi dischi solisti di ottimo livello.

E così, arriviamo ad “Hotel California”, con cui abbiamo cominciato.

L’entrata di Walsh ha dato una sterzata notevole al pur elettrico rock della band.

Si tratta, come già detto, di un album storico. Non solo per i pezzi, ma anche per le vendite. “Hotel California” è a tutt’oggi l’album più venduto della storia degli Eagles. E ne han venduti parecchi, circa 83 milioni!

Bene. E dopo questo pazzesco successo?

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(Gli Eagles del 1977. Da sinistra: Glenn Frey, chitarra piano e voce - Don Felder, chitarra - Don Henley, batteria percussioni e voce - Joe Walsh, chitarra piano e voce - Timothy B. Schmidt, basso e voce)

I nostri, dopo il tour mondiale si presero un po’ di riposo.

Tornarono ad incidere solo nel 1979. “The long run” è un tipico album alla Eagles, seppur fortemente influenzato dal rock di Walsh e da una vena compositiva tipicamente orientata alla scalata delle classifiche. E infatti brani come “Heartache tonight” (scritta insieme a Bob Seger) e la super-ballad “I cant tell you why” spopolano tra vendite e passaggi radiofonici.

Ma la band ormai è al capolinea. Sono stanchi, tutti.  La voglia di cimentarsi in progetti solisti è tanta, anche per chi, come Walsh, proveniva proprio da quelli.

Nel 1980, dopo la pubblicazione del mastodontico e stupefacente doppio dal vivo “Eagles Live” la band si scioglie e ognuno prosegue per se. Con fortune più o meno grandi e altalenanti.

Ma per tutti rimane il marchio di un gruppo che ha segnato la musica rock degli ultimi trent’anni, e “Hotel California” uno degli album in assoluto più belli di sempre.

Di quel che è successo dopo quel 1980, ne parleremo più avanti.

“Nel frattempo, io mi ascolto di nuovo “Hotel California”. Sognando, ricordando e sorridendo al tempo che passa…”

 

 

 

 

 

 

 
 
 

Post N° 1

Post n°1 pubblicato il 27 Febbraio 2007 da Blackwater_park

Ed eccomi qua con l'ennesimo blog. Ormai mi diverto troppo e allora sotto di nuovo!

Prendo spunto dal blog di ANG3LDUST, "Umbra et imago", (grazie ragazzo) e qui parleremo di musica rock, hard rock ed heavy metal. Se vi intrigano i generi siete i benvenuti, in caso contrario...non so che dirvi! Auguri e figli maschi!

Apro questa nuova avventura dedicando il primo post ad un gruppo piuttosto dimenticato, malgrado abbia fatto la storia del rock negli anni '70. I NAZARETH.

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I Nazareth si formano nel 1968 a Dunfermline, in Scozia. Da subito si rivelano alfieri di un rock granitico e graffiante, vero e proprio antesignano illustre dell'hard rock che avrebbe poi spopolato nei seventies e che li avrebbe visti protagonisti.

"Loud'n'proud", del 1973, è insieme al ben più noto "Razamanaz" ,uno dei punti più alti della loro discografia. Però, a differenza di quest'ultimo, è un lavoro più vario e completo. Se "Razamanaz" anticipava suoni e durezze alla AC/DC, "Loud'n'proud" proponeva atmosfere care al rhythm and blues miste a cavalcate strabilianti.

La canzone più famosa in assoluto dei Nazareth è contenuta in quest'album. "This flight tonight". Ma è solo una delle tante che spiccano per originalità e presa. Consiglio vivamente "Child in the sun", una semi-ballad stratosferica dove il basso di Pete Agnew tuona in modo dirompente; "Go down fighting", degna opener che introduce con cadenze da headbanging. In chiusura d'album un altro aspetto anticipatorio dei Nazareth: "The ballad of Hollis Brown". Un pezzo che in assoluto precorre i tempi di un decennio proponendo vere e proprie sonorità doom.

In questa band va notata la pazzesca ugola di Dan McCafferty, vero progenitore di quel Brian Johnson che negli AC/DC avrebbe fatto sfracelli dal 1980 in poi. Qui McCafferty, ma è un mio personale punto di vista, da il meglio di se, raggiungendo apici qualitativi mai più raggiunti in seguito (se non nel contemporaneo "Rampant").

In definitiva, una band ed un album da riscoprire.

Nota: a coronamento di quanto detto, una chicca. Il produttore di quest'album fu niente meno che Roger Glover. Già bassista dei Deep Purple...

Nazareth 1973: Dan McCafferty - Voce  /  Manuel Charlton - Chitarre e voce  /  Pete Agnew - Basso e voce  /  Darrell Sweet - Batteria, percussioni e Voce

 
 
 

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