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Serendipity

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L'ultimo bacio.

Post n°147 pubblicato il 14 Giugno 2009 da darkside_79

C'è che ieri ho conosciuto la Morte.
'Che l'avevo spesso incontrata di sfuggita, ma non era mai venuta di proposito. Si è presentata poco dopo le nove di sera, danzando leggiadra sul petto di mia zia e accompagnandola sottobraccio altrove. Non è giunta inaspettata, sapevo che il momento era vicino. I soloni in camice bianco non si sbagliano mai e la telefonata mattutina di ieri ci aveva preparato ad un epilogo imminente. 
Nel primo pomeriggio ho baciato mia zia per l'ultima volta, in ospedale, e l'ho baciata sulla fronte. Era l'unico francobollo di viso libero da impedimenti, dove la pelle non era contrita dallo strozzo dei lacci e dalla pressione della maschera per l'ossigeno che le solcava con forza gli zigomi.
Aveva i capelli tirati all’indietro, con alcune velate tracce di bianco miste ad una tinta bionda sbiadita. Il viso era tirato, sofferente allo spasmo, gli occhi socchiusi e assenti, con sporadici movimenti delle pupille. Respirava con pause innaturali, con parentesi di immobilismo lunghissime, mute e vuote, apnee profonde che presagivano la fine ad ogni tocco di lancetta. 
Nella stanza, un po’ sgarruppata e tristemente impersonale, era stata posizionata di proposito una tendina per celare il suo repentino sfiorire dalla vista della sua coinquilina, una signora anziana della quale ho scorto malapena un abbozzo di profilo.
La tendina celava la vista ma amplificava il senso di ineluttabilità e poi faceva freddo, un freddo che non è misurabile col termometro. Mi sono avvicinato alla fronte della zia con pudore e rispetto. L'ho baciata e le ho voluto bene con una carezza che sapeva di commiato. 
Trattenevo a stento le lacrime mentre guadagnavo l'uscita dell'ospedale, sgattaiolando furtivo e invisibile fra decine di persone. Due guardie alla macchinetta del caffè, alcuni portantini che fumavano all'uscita, la donna che puliva le scale; figure scolpite negli occhi, colpevoli, in quel preciso istante, di ovvia inconsapevolezza. Ho odiato il loro chiacchiericcio, senza mai prestare attenzione alle parole, ma solo al loro suono sgradevole. Cercavo silenzio, l’ho trovato dentro.  
Il pomeriggio è stato difficile quanto inutile. Immerso nel ritmo sincopato delle problematiche altrui, cercando di agire sul posto di lavoro con naturalezza e impegno. La maleducazione di un cliente, le confessioni di un amico di famiglia, le telefonate a singhiozzo portatrici di richieste impossibili, offerte stracciate, prezzi pazzi, burocrazie complicatissime, questioni irrisolte. Tutto come al solito, se non fosse che io non c'ero. Agivo per inerzia, ma la testa confluiva all'ora ics. Mi destava solo il trillo degli apparecchi, ma dall'altra parte del filo non si aveva mai la notizia.
Ho puerilmente creduto che la Morte avrebbe tardato, ieri. Invece si è tinta di silenzio, vestendosi d’ombra. Ha agito con la complicità delle tenebre, come un soffio, una brezza lenta e avvolgente. Senza fretta ha atteso paziente che la zia fosse sola, dopo un'intera giornata di via vai fra parenti, infermieri e pure un prete. Si è presentata nel suo abito migliore, puntuale all'appuntamento. Bellissima, 'che non l'ho immaginata in vesti tradizionali. Una bambina, invece, con piccole scarpette bianche e passi veloci e danzanti. In punta di piedi, quasi. Sorridente. Un abito chiaro, ricamato con mestiere. Ed una filastrocca sussurrata con naturalezza, come quando cogli un bimbo giocare in un angolo. Io l’ho voluta immaginare così.
Si è avvicinata al letto della zia e con la sua piccola manina le ha chiuso le palpebre, prendendola poi per mano.
In quel momento io stavo a casa, scambiavo due parole su Msn, quando il telefono è suonato destando d’acchito tutti quanti. Non ho risposto io, ho solo sentito i singhiozzi di mia madre provenire dal salotto. In automatico mi sono vestito, senza chiedere nulla ‘che era tutto lineare, così smaccatamente ovvio che ti veniva male. E’ quel senso di impotenza che ci relativizza in un micron, facendoci sentire minuscoli.
Stelle nane in un universo d’ampiezza indefinibile, troppo esteso per abbracciarlo con i sensi e oltremodo indecifrabile per farsene una ragione, ci muoviamo sospesi. Guidavo verso l’ospedale noncurante del mondo circostante. Le sirene delle autoambulanze, clacson e insegne luminose non mi ferivano né le orecchie né gli occhi.
Semplicemente andavo.
Il parcheggio era desolato, semivuoto. Al contrario del pomeriggio quando il perimetro dell’ospedale era una selva affollatissima di addetti, mezze figure, parcheggiatori e taxisti. Entravo in ospedale da solo, e da solo percorrevo due corridoi e un paio di piani di scale. Non c’era nessuno, il rumore dei miei passi mi appariva smisurato, quasi offensivo. Un rimbombare fra mura vuote, con echi di solitudine percepibili. La mia fragilità messa a nudo dalle lampade al neon. La porta del reparto chiusa, il mio bussare quasi senza disturbare, il viso di mia nonna, solcato da lacrime copiose. Mia cugina, stretta con forza in un abbraccio come mai prima d’ora. E poi mia mamma, indifesa e piangente. E mio fratello, al suo primo appuntamento con la Morte, disorientato con le mani in tasca e le spalle al muro.
Lei era lì, adagiata nel letto. Immobile come una scultura di cera. Gli occhi vitrei socchiusi, le mani semi aperte. Le ho guardato le dita, subito. E mai prima d’ora mi ero accorto di quanto assomigliassero a quelle di mia nonna, le stesse mani, con le medesime venature, con i polpastrelli un po’ rigonfi. La fronte, quella stessa fronte che avevo baciato poche ore prima, era rilassata e lucida. Anche le rughe che le solcavano il viso apparivano meno invasive.
Io la guardavo rapito. Un leggero spostamento d’aria muoveva la tendina divisoria, e a tratti le increspava lievemente il lenzuolo. Al punto che appariva dormiente, io la vedevo respirare, aspettavo che muovesse gli occhi. E invece niente.
Mi sono seduto vicino a lei, mentre gli altri si consolavano fuori dalla stanza. E in quel momento ho conosciuto la Morte, ho potuto coglierla nella sua cruda essenza, senza intermediari, senza lenzuoli coprenti, senza girare la testa dall’altra parte. Ho avvertito il freddo gelido, quel freddo che spira da dentro. Che non c’è coperta.
Il silenzio del reparto, l’oscurità del corridoio e l’intensa luce dei neon nella stanza mi hanno vagamente tramortito i sensi, già messi a dura prova dalla percezione circostante, crepuscolare e carica di sentimento. E’ stato in quel momento che ho cominciato ad avvertire mia zia in maniera difforme. Non la percepivo più con i sensi. Ma la sentivo, la potevo respirare. E’ quello che ho detto a mia cugina, quando mi ha chiesto con gli occhi gonfi come stavo vivendo il momento. Le ho sussurrato in un orecchio: “La sento qui, affianco a noi, è lei a consolarci. Non senti?”.        
Ziotta mi manchi già.
Ti ricordo alla mia laurea, bella come una sposa. Piangevi di felicità, mi sentivo orgoglioso e importante. Ti ricordo quando mi tenevi per mano da cucciolo e mi portavi a guardare i treni che passavano. Ho sempre adorato i treni, sai. Ancora oggi. Mi sovvengono le sere di Natale passate insieme, e le decine di camice a quadretti che mi hai regalato. Non ne ho messe molte a dirla tutta, ma non le ho mai nemmeno riciclate. E il tuo telefonare; esordivi con un “chi è?”, quando di solito è la domanda che pone chiunque risponda.
Mi chiedevi sempre del mio Torino. Ed io te ne ho voluto parlare l’ultima volta che ti ho vista cosciente, giusto un paio di settimane fa. Ti vedevo sofferente e mi si spezzava il cuore, ma cercavo di essere forte in tua presenza. Mi sono chinato vicino al letto, tu hai girato a fatica la testa verso di me, con quegli occhi che ho scolpito nella memoria. Eri sbattuta come un uovo, ma io cercavo di apparire sicuro e fiducioso di una tua pronta guarigione. “Si torna a casa ziotta, tieni duro. E poi ieri, zia, abbiamo vinto una partita!”. Mi hai fatto un sorriso così bello che nemmeno lo sapevi. Forse l’ultimo l’hai davvero riservato a me. Ma ti ha portato via le forze, io l’ho capito.
Chiedevi acqua di continuo, muovevi quelle labbra come un passerotto, suscitando in me un desiderio di protezione misto a struggenti consapevolezze di impotenza. Volevo urlare, ma poi ho sperato in cuor mio che finisse in fretta. Che potessi liberarti da quei lacci e tubi, che il tuo corpo fosse risparmiato e la tua anima libera di vagare oltre le nuvole.
Quando ti hanno portato in una stanzetta vuota con il lenzuolo sul viso, seguivo il portantino senza fiatare. Una stanza di tre metri per tre, con una finestra aperta che sputava freddo, quel freddo notturno tipico delle serate umide di pioggia.
E’ stato lì, nel preciso istante in cui hanno scoperto nuovamente il tuo viso che la luce ti ha avvolta pienamente e ti ho vista per l’ultima volta. Ho potuto accarezzarti dolcemente, illudendomi di trasmettere amore ad una scatola armonica  capace di risuonare in ogni piega dell’infinito, pettinandoti l’anima. Mi sono sforzato di lasciarti con un sorriso, per farti vedere come questo dolore si tramuterà d’incanto in una meravigliosa quanto pulsante voglia di vivere ancora.
Ti sento vicino, ziotta. 

Parlami sempre.

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