Stavamo immersi tra le spighe mietute del campo, simile ad un esile canneto, attenti alla vista dei contadini. Durante l’estate eravamo soliti depredare gli alberi carichi di frutta. Dopo la stagione delle ciliegie, da cui traevamo tutto il rosso della vita, partivamo alla conquista dei tralci. A ridosso di un’erta, segnato a terra, tra la varia vegetazione, da un sentiero prodigo di passaggi, stava un albero di fico e un complesso di viti. Le innumeravoli orme impresse sul terreno, i rami spezzati, testimoniavano il via vai di fanciulli. Vicino a questo campo sorgeva un insieme di palazzine, dove abitavano diverse ragazze del paese. Tra queste, ricordo bene, c’era una, adesso donna bella e affascinanate, che radunava sotto il suo balcone tutti i maschi adolescenti. Era corteggiatissima. Anche io cercai di entrare nell sue grazie, ma invano. Lei era sempre affascinata dai ragazzi più grandi, almeno sedicenni. Io, invece, che in quel periodo avevo dodici o tredici anni, era attratto non solo da lei, ma anche dal saccheggio degli alberi. Così, prima che la donna potesse diventare donna e il mio costante oggetto di passione, fu verso la fine di Settembre – la scuola riniziata da pochi giorni – quando ci recammo nel campo. Eravamo più di dodici ragazzi e a noi si aggiunsero anche le ragazze dei palazzi vicini. Da prima, solo i più audaci tentarono di convincerle a venire con noi, poi decisero loro stesse di raggiungerci, convinte dal divertimento che si prospettava. Ci sentivamo dei fuorilegge, attenti a non farci scoprire dal proprietario del vitigno. Non appena fummo entrati nel campo, iniziammo a divorare tutta l’uva, a momenti più dolce, a momenti più acerba. Ma quella circostanza fu importante anche perché scoprimmo le ragazze. Scoprimmo quel loro odore così diverso dal nostro – noi ragazzi ancora così sporchi; scoprimmo quella loro grazia nei movimenti, il seno delle più prosperose, scoprimmo quello che di li a poco avremmo scoperto, ovvero la fatale attrazione, il sesso. L’uomo si aggrazia della presenza di tante donne; ma allo stesso tempo quel girono noi ci sentivamo così orgogliosi, virili, sicuri del fatto che saremmo riusciti nella generale conquista. Cinzia, una delle ragazze più belle, più formose, che in tutto quell’avvicendarsi di gesti, di mani che coglievano l’uva per portarla alla bocca, fu l’unica che si concesse ad un bacio. Sotto quel vitigno cresceva il nostro desiderio di baciare tutte le ragazze. Sentivamo il nostro membro rispondere ai richiami della vita, avvertivamo tutta quella incredulità solidificarsi nella carne, nei nostri muscoli imberbi. Poi venne l’ora dell'’assolto più sfrenato.
L’uva divenne il mezzo per colpire le ragazze. Gli acini e i grappoli volavano nell’aria di Settembre, quasi fossero proiettili d’amore. Si schiacciavano sulle magliette, sulle gambe, nei capelli lunghi delle ragazze. Lanciavamo l’uva con tutta la nostra forza, colpivamo anche noi stessi in quel delirio di pubescenza, e non ci importava nulla, ci interessava solo dimostrare tutta la nostra forza, la nostra ribellione vinta dal rifiuto delle ragazzre. Cinzia fu colpita più di tutte le altre, perché da noi ritenuta responsabile di aver accettato la corte da un solo ragazzo. La fuga delle fanciulle fu immediata; i loro insulti ci inorgoglivano e si univamo alle risate, al nostro puerile piacere nel vedere chi è sconfitto tentare ancora un’impossibile vittoria. Noi, noi soli fummo i vincitori, adolescenti avvinazzati, inebriati di odere di uva pesta disseminata in tutto il campo. Restammo lì a ridere, a prendere in giro quelle ragazze che ci sentivano in lontananza mostrare tutta quell’imprevedibilità di cui l’uomo è capace. Su di noi il cielo era mutato. Si stendeva gonfio di nubi e plumbeo all’orizzonte sembrava urlare di gioia e di paura. Per concludere e per osannare, per celebrare quei nostri gesti, decidemmo di salire sugli alberi che stavano tutti intorno. Ridevamo, sentivamo forte l’importanza dell'’azione, della concretezza degli atti, veri perché involontari, veri perché fonte di istinto e ragione. Saliti sugli alberi ci lasciammo cullare dal vento, travolgere di lì a poco da un’acquazzone, avvalendoci di quella autentica, ma adesso perduta, facoltà di poter disporre ognuno delle proprie vite, della propria sorte, senza essere gestiti e limitati negli affetti e nel pensiero. Respiravamo pioggia e libertà. Respiravamo tutto ciò che non ha catene. Respiravamo. Quello fu l’ultimo nostro respiro, sugli alberi con la pioggia.
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il 27/04/2008 alle 23:21
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il 27/07/2006 alle 22:57
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il 22/07/2006 alle 16:48
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il 15/07/2006 alle 00:49
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il 24/06/2006 alle 01:08