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All’aggiornarsi del tempo cammino in punta di piedi. Nell’ambizione di far rumore, senza scena, passo felpato che non sempre mi riesce.
Ospite.
Ambizione, resa e… grazia?
Attraversare la vita degli altri significa interferire. Significa diluire la noia con gli sguardi, coi minuti passati a contatto. Significa rubare ore da dedicare a qualcun altro, al sonno o al tedio. Significa appropriarsi di istanti con la vaga ambizione di interferire ma non troppo. Diluire ma non più del tre quarti, come si fa col vino, altrimenti paga l’oste. Rubare ma senza certezza di appropriarsi, considerando l’ipotesi della presenza fisica e del pensiero che divaga, altrove.
L’ospite si appropria dello spazio: prende il bicchiere, lo riempie e lo lascia sul tavolo, nel lavandino; si stende sul divano e mette su un po’ di musica; gioca a carte e si diverte a guardare le foto che il padrone di casa commenta col senno di poi.
S’approfitta della vacatio legis del protagonismo per protrarsi verso il padrone di casa, illudendosi di prevenire situazioni, malintesi, noia. Aiuta in casa, e si sente in colpa se quella volta il giro di aspirapolvere gli viene rubato mentre lava i piatti alle tre del pomeriggio.
E sa di essere, l’ospite, nonostante la sua posa naturale, nonostante la spontaneità dettata dal sapere dov’è il soggiorno e dov’è la camera da letto; nonostante l’apparente tranquillità,
un corpo estraneo alla normalità.
Altrimenti non sarebbe ospite,
sarebbe membro della famiglia,
e la magia s’interromperebbe.
Deviazione al normale scorrere della vita, l’Ospite s’insinua nei pensieri del Padrone di quegli anni, di quei ricordi, di quei nomi, di quelle vie, di quelle fotografie, di quelle sensazioni, di quelle scelte, di quel vivere quieto, o accelerato.
Assieme a tutte le altre emozioni sposta l’ago dell’attenzione da zero a dieci e da dieci a zero.
Si chiama resa. Presa coscienza:
L’ospite, disturba, è solo che nessuno se ne accorge.
Si chiama piacere, si chiama entusiasmo.
“Prego, nessun disturbo, la chiamo, forse patetica, nostalgia.”
Si chiama grazia.
L’Ospite, se sbaglia porta è giustificato. Quella casa non gli appartiene.
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Il discorso va impastandosi assieme alle parole sputtanate, sguaiate, pallide, trasformate piene di nostalgia e sentimento: da romanzo in tre volumi, teatro francese. Ciò che è sì è fatto, si maledice sempre dopo. S’aspetta cambi qualcosa e ci ripenso mentre il discorso s’accavalla. Ridere e aspettare di ricordare qualcosa da raccontare. E s’apostrofa qualsiasi parola, come un insulto, come una bestemmia. “ e quest’è l’ultimo, ora c’ho il sapore in bocca e non vorrei rimanesse in gola e quest’è quanto. Finiamola qui.” E quasi ti senti leggera a parlare di allegria a regalare scherzi con la solita euforia. Gente che prende e che va via, senza lasciare l’ombra. Ho paura dell’ombra, è amara: sa tutto ciò che fai.- mi vengono in mente tutte le sere passate a infilarsi dentro ai vicoli, dentro ai pensieri degli altri, inconsapevolmente, senza conoscerne l’esistenza. Il silenzio c’ha il vapore del rumore della pioggia e sa di vento freddo. Il silenzio sa di tutto quello che non hai. Accende la pioggia, la luce arancione dei lampioni. Due sorrisi veri nascosti in gola assieme alle emozioni forti e ai brividi che si fa presto a non dire. Sola, a guardarmi nello specchio della sera mentre il tempo scorre e sa d’occasione. Il solito motivetto pronto a disturbare un pensiero già disperatamente appeso a un filo. Trema la mano. Trema di Scozia, limone e zucchero sul fondo. La luce infastidisce quanto il buio spaventa. Nella penombra barcollo ascoltando il sussurrare di qualche strano pensiero che mangia veloce e ripetitivo il mio spazio dedicato al non vivere, solito delle sere festive. Cullata e protetta dalle mie stesse difese, negli errori che non t’accorgi e ti prendon la quiete fa paura mentre disgraziatamente mi dimentico di me: persa tra le virgole e le congiunzioni che non han potere di far luce. Quant’è lunga un’ora non l’ho mai saputo. consacrata alla stanchezza d’andar via, il cane abbaia ricordandomi la mia allegria.
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Silenzio. Appoggiata al muro ascoltavo il nulla. Cinque minuti e.. urla, bestemmie, sgommate e cocci di bottiglia. -ok..- Capii che al mondo "andava tutto bene". Altri cinque minuti dopo dormivo assieme a tutti gli altri.
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Mi guardai intorno. Non c'era nessuna buona fonte di ispirazione li' in quel caffè. Ripiegai sulla cosa che sta al secondo posto in graduatoria: sollevai il mio bicchiere e lo scolai. Ognuno di noi ha i suoi inferni, si sa. Ma io ero in testa, di tre lunghezze sugli inseguitori. Continuo a ripetermi che non tutte gli uomini sono dei puttanieri, non tutti, lo sono solo i miei. Uscii dal Caffè. Passai accanto a duecento persone e non riuscii a vedere un solo essere umano.
Gli psichiatri hanno un termine specifico per questo, ed io ho un termine specifico per gli psichiatri.
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"Spero che abbia smesso di piovere. Spero che le chiavi siano al solito posto. Sono contenta di essere un' idiota. Sono contenta di non sapere niente. Sono contenta di non essere ancora morta. Quando mi guardo la penna e vedo che è ancora attaccata al foglio bianco, mi dico che sono fortunata. Non arrivo da nessuna parte, e neanche il resto del mondo, per quello. Stavamo tutti in giro in attesa di morire e nel frattempo facevamo alcune cosette per riempire lo spazio. Certuni non facevano neanche le cosette. Si litiga di solito ai consigli studenteschi per l'inettitudine della gente. "
L'altro:Ma cosa eviti?
io: Di diventare come gli altri.
l'altro:Se hai stile hai il tuo metodo che continua mentre tutte le cose vacillano. Mi segui?
io: Sì.
lui:Non c'è altro. È molto semplice.
L'altro: Ma lo stile di vita? Cambia anche questo?
io.: Il mio non cambia granché. Mi limito a bere cose diverse.
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Inviato da: giampi1966
il 08/07/2010 alle 18:09
Inviato da: ChildOfMurder
il 10/04/2010 alle 02:48
Inviato da: Alexandriax
il 30/03/2010 alle 12:38
Inviato da: giampi1966
il 02/11/2009 alle 12:35
Inviato da: nichy1955
il 31/10/2009 alle 13:30