Per aspera ad astra

alpinismo , mountain bike e avventura

Creato da fritzwitt il 09/04/2009

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Dulfer alla Grande 2009 ovvero "la terza età non esiste"

Post n°8 pubblicato il 17 Febbraio 2010 da fritzwitt
Foto di fritzwitt

La “terza età” non esiste, almeno alla Dulfer della Grande.”

 

Le Tre Cime di Lavaredo rappresentano da sempre il “tempio” dell’Alpinismo dolomitico.

Aldilà delle vie, però, arrampicare sulle “Drei Zinnen”- così sono conosciute nel mondo di lingua tedesca- è sempre un’esperienza unica, sia per le visioni mozzafiato che si spalancano sullo splendido scenario alpino, che per l’impressionante verticalità della maggior parte delle salite.

Così quel giorno di agosto, quando, dopo aver sudato inutilmente, sbagliando via, sui ghiaioni di un’anonima sella, all’ennesima serpentina del sentiero, accaldato e con il fiatone, mi si staglia davanti, finalmente, il vertiginoso sperone roccioso della Cima Grande, sono subito colpito.

L’ombra che avvolge il versante occidentale della montagna, fa della “Dulfer” una via fredda anche nelle giornate più calde, ma non per questo, l’ambiente che mi accoglie è cupo o minaccioso. Corro con lo sguardo lungo il profilo del bastione: in alto, ai confini con l’azzurro del cielo, la cima splende nel sole.

Prima di noi, però, arriva un’altra cordata, che ci precede di poco. Accidenti, anche in montagna bisogna fare la fila!

Pazienza. Risaliti dei facili gradoni, ci leghiamo. Che freddo! La temperatura è proprio precipitata.

Mi infilo il pesante maglione di pile.  Sistemo il berretto sotto il casco: siamo veramente passati dal forno al frigo… La roccia è gelida come marmo e subito impegnativa.

 Quasi immediatamente le estremità delle dita diventano insensibili ai piccoli appigli. Mi sembra di avere le falangi di “legno”!

 Salgo. Lo sguardo spazia giù, sui ghiaioni lontani, che tanto più in basso, quasi splendono, bianchi, nel sole caldo.

Dalla vicina Cima Ovest riecheggiano, di tanto in tanto, nel silenzio, i richiami “di manovra” di un paio di cordate.

L’eco delle voci scivola, impersonale, tra le rocce. Sembra, per un attimo, che quelle cattedrali di pietra si siano animate.

Raggiungo un ampio terrazzino. La via si presenta ora in tutta la sua straordinaria logicità e bellezza: una lunga fessura – diedro si alza verticale e scura per oltre cento metri perdendosi nel cielo grigio e giallo di rocce strapiombanti.

Dulfer, che genio e che coraggio!

I due nostri compagni sono di nazionalità canadese, ma di origini tedesche: uno è notevolmente più “maturo” dell’altro e salgono alternandosi a capocordata. Un assortimento veramente insolito: parlano poco, con frasi brevi, indifferentemente nelle due lingue.

Hanno però un difetto: sono molto lenti, e ci costringono, così, a delle soste fredde, lunghe e sfibranti.

L’arrampicata non è banale: per salire è necessario infilare le mani nella fessura bagnata e gelida e puntare i piedi sulle pareti laterali. La progressione è a tratti faticosa, anche perché le rugosità della roccia dove puntare le scarpette, esercitando la necessaria pressione sono, alle volte, veramente minime.

Onestamente, devo anche dire che non sono allenato a quel tipo di arrampicata, dove la fisica dell’equilibrio si basa su di un delicato spostamento di forze: sul movimento successivo di carico e scarico della tensione delle gambe sulla parete.

Equilibrio, armonia… concetti di cui amo tanto parlare nelle mie conversazioni “pseudo intellettuali” – ma con i piedi ben piantati a terra - e che ora mi rimbalzano nella mente.

Soffro con le mani incastrate nelle pieghe del monte, anche perchè percepisco una sensazione di grande precarietà.  Il modo di procedere, poi, mi pare innaturale, e a maggior ragione, trovo assurda la situazione che vivo: così pericolosamente lontana dal “normale” mondo orizzontale, così distante da quel banalissimo sentiero disegnato sui ghiaioni là sotto, per non parlare dei morbidi getti dell’idromassaggio della piscina dell’albergo.

“Quanto sei imbecille !”- mi dico - “quando ti infili in condizioni al limite… dove respiri sempre dopo, una volta che hai portato la pellaccia a casa, mentre il presente è solo un momento di confronto, un esame su quanto vali o quanto coraggio hai”.

Ora, però, man mano che la corda si muove, tendendosi sopra di me, chiodo dopo chiodo, prendo “confidenza” con le tacchette di roccia, e con gli appigli su cui far forza con le estremità delle dita.  La paurosa sensazione di vuoto totale in cui mi muovo, si diluisce allora un po’ alla volta, lasciando spazio alla gioia dell’arrampicata.

Sono pienamente conquistato dall’entusiasmo di vivere in uno scenario grandioso.

Pareti strapiombanti e guglie altissime dalle forme bizzarre mi schiudono le porte di una dimensione particolare, dove percepisco  l’equilibrio, l’armonia e l’irresistibile fascino della Natura.  E’come se un delicato arcobaleno mi trascinasse in un mondo diverso, filtrato dalla magia di tutti i colori dell’iride, e me lo offrisse, per il breve tempo della sua esistenza.

Adesso la fessura si allarga di molto e per proseguire mi metto in spaccata in uno scuro, profondo camino, che, per pavimento e…soffitto, ha due grossi massi sospesi e bloccati nella loro caduta dalle strette pareti verticali del monte.

…Il che sarebbe stato divertente, ma… la pietra è completamente bagnata da un rigagnolo d’acqua alimentato dalle piogge dei giorni precedenti.

 Aggrappato ad appigli e sospeso su appoggi viscidi e insicuri, non mi diverto per niente a tentare di ripetere (malamente) le posizioni plastiche che hanno reso famosissima l’immagine in bianco e nero del nostro grande Emilio Comici,

Fuori dal camino, però, ad accogliermi, c’è il meraviglioso e soffice tepore del sole che risplende nel cielo “profondo blu”, senza una nuvola.

 La lunga fessura diedro è finita. Mi alzo su un’ampia cengia che fa da splendida terrazza aperta sullo splendore delle Dolomiti, con accanto i due tedesco-canadesi a cui passiamo finalmente avanti perché non ne possiamo proprio più.

Il più anziano è lungo disteso per terra, esausto, per la faticaccia appena finita. Il giovane vedendoci perplessi mi chiede: “Quanti anni hai ?” Cinquantadue” – gli ho rispondo. Ribatte: “il mio compagno di cordata ne ha 20 più di te”… Accidenti!!! Enrico ed io rimaniamo senza parole. L’interessato, allora, incomincia a elargire “gocce di sapienza”, sulla filosofia del“Carpe diem “, per cui “bisogna vivere con pienezza ogni giorno ed apprezzare la vita sempre, vincendo le difficoltà, anche quelle legate all’età che avanza…”

… Un lampo di speranza guizza nei miei pensieri: forse la “terza età” non esiste! “Sono ancora in tempo per la Comici, allora” – dico ad Enrico – che, di risposta, mi lancia un’eloquente occhiataccia.

Per raggiungere la vasta e “vera” cengia circolare della Cima Grande ci sono ancora due tiri di corda. Là incontriamo quattro polacchi che avevano terminato (appunto) la “Comici”: sono vestiti di tutto punto, griffati, e uno porta degli occhialini avvolgenti da corso di Cortina… eeh , come cambiano i tempi! In quel momento, a ben vedere il “polacco” sono senz’altro io, con i pantaloni stropicciati e un po’ strappati, la maglietta di cotone blu e le pedule  sformate… Panta rei!

 

 

 
 
 

Fovea maledetta 1978

Post n°7 pubblicato il 25 Gennaio 2010 da fritzwitt

Fovea Maledetta 1978.

 

Premessa. L’altro giorno, approfittando di queste brevi vacanze, riordinando il comodino, ho ritrovato alcuni fogli di carta che avevo scritto con la mitica “Lettera 22” di mio padre. Erano un po’ ingialliti e, quando ho incominciato a sfogliarli e a leggere, la polvere mi si attaccava sui polpastrelli e mi ha fatto starnutire.  D’altra parte, in oltre 30 anni, il tempo fa percepire il suo inarrestabile passaggio su tutte le cose, anche su dei pezzi di carta…

Comunque ecco cos’ho tirato fuori.

 

“La zona orientale del Carso triestino è, indubbiamente, una tra le più ricche di importanti cavità che hanno fatto la storia della speleologia, non solo locale.

Nomi come quelli dell’abisso di “Gabrovizza”, del suggestivo e tragico“Cristalli”, del pericoloso Gianni Cesca - aldilà della famosissima e turistica grotta Gigante - sono ben impressi nella mente di ogni appassionato speleologo,  mentre le vicine grotte dell’”Orso”, “Verde”, “Alce” ed “Ercole” hanno rappresentato il primo contatto con il mondo sotterraneo per generazioni di “grottisti”.

La domenica, pertanto, non è difficile identificare questi caratteristici appassionati, spesso carichi di sacchi ricolmi, da cui spuntano rotoli di scalette, corde e moschettoni, “pronti, - come scriverebbe il “2000 grotte”- ad essere inabissati”.

Allora, fra tanti visi ed espressioni diverse, si può leggere l’entusiasmo misto a preoccupazione dei “principianti”, lo sfoggio di sicurezza del “capogruppo”, la curiosità degli escursionisti di passaggio.

In breve iniziano i tradizionali “riti” della carica della lampada a carburo, dell’”armo” del pozzo e dell’immancabile lancio di qualche sasso nella sua “bocca” quasi a …rassicurarsi della profondità.

L’atmosfera, così, si fa più elettrica: all’eccitazione dei ragazzi, si mescolano gli immancabili racconti di aneddoti, i consigli, le raccomandazioni, distribuiti a piene mani dai “vecchi”, mentre, vicina, scura e silenziosa si apre la cavità, da sempre simbolo di ingresso all’ignoto, momento  di sfida e di avventura .

Una, però, tra tutte quelle grotte mi attraeva in particolare: la più suggestiva, sia per la bellezza del suo ingresso che per il nome che rimandava a periodi passati dove i nomi si tingevano dei colori intensi del Romanticismo: la “Fovea Maledetta”.

L’abisso è costituito da un unico grande pozzo che, dal fianco di una imponente dolina, precipita per 135 metri, esaurendosi in una caverna.

Per questo, forse, è poco frequentato: per la sua struttura tipica da “foiba” carsica ( fovea, significa“cavità” ): l’essere, pertanto, uno di quei tunnel verticali che sprofondano nel terreno per decine e decine di metri e non conducono a nulla… se non a contemplare dal fondo, indistinto, lassù il baluginare di una luce lontana.

“ Perché vado in grotta?”, mi domandavo in quello splendente primo pomeriggio del 17 aprile, quando schiacciato dal peso della lunghissima corda e di tutto il materiale occorrente, camminavo, caracollando, alla ricerca della mia avventura. “Mah?” Effettivamente non so darmene una risposta logica e coerente.

Gli psicologi parlano di “ritorno inconscio al ventre materno”? La teoria è azzardata ? Non lo so. In realtà sono alla ricerca di “sensazioni forti”, “di “sfide” che gratifichino il mio desiderio di avventura.

Ma non è certo solo per questo. So di subire il fascino della natura nelle sue manifestazioni più grandi e misteriose.

Fin dall’antichità l’uomo ha temuto le tenebre, simbolo di morte ed ha amato il sole, simbolo di vita.

La fantasia ha allora popolato le caverne, gli abissi, di mostri, di figure maledette, di spiriti demoniaci: luoghi quindi da temere, sedi nascoste del male dalle quali questi partiva per colpire l’umanità.

Si, forse, facendosi scivolare giù per una corda di 10 millimetri in una  voragine profonda, si può inconsciamente voler emulare il cavaliere che parte per uccidere il drago, la paura nascosta nel nostro intimo… E’ come un calare dentro se stessi per poter, giunti in fondo, superata la “prova del coraggio”, urlare trionfanti “ il mostro è sconfitto, hai vinto tu …  sei stato più forte delle tue debolezze!” E, se poi si va da soli, come andavo io, la parte calza alla perfezione, rivelando apertamente quel  lato romantico – gotico del mio carattere.

Vi è, inoltre, una sensazione di autocompiacimento, un pensare di compiere qualcosa di “eccezionale”che esuli, quindi, dal monotono grigiore della vita di ogni giorno, la ricerca del cui senso è, alle volte, difficile.

Allora la marcia solitaria di avvicinamento alla grotta diventa un momento di forte tensione interiore.

 

 

Si è soli con se stessi: l’indomabile spirito di sopravvivenza  ( … dai più detto semplicemente “buonsenso” ) attacca con decisione e scatena, subdolo, tutti i timori per battere l’orgoglio e l’innato senso dell’avventura, della curiosità.

Si scontrano così  l’irrazionale e ciò che non lo è… finchè… ecco entro nella dolina. Lo zaino si impiglia nei rami della fitta vegetazione. Con uno strattone mi divincolo e, all’improvviso, mi appare in tutta la sua nera e affascinante bellezza “Lei”: “la Maledetta”! I dubbi, i tentennamenti, si dissolvono come neve al sole: resto incantato dalla maestosa crudezza di questo profondo abisso.

Incomincio, emozionato, a prepararmi: infilo la tuta, i ruvidi calzettoni di lana grossa, gli stivali verdi, provo la funzionalità della lampada.

Poi, sfilo la corda, o meglio la “super corda” nuova di 200 metri che il GSSG ha appena comprato, e scelgo pure un “super albero” per attaccarla.

Controllo più volte i nodi e la solidità di tutto ciò a cui mi affido… per ciò che posso ! D’ora in poi la mia vita sarà letteralmente appesa ad un filo.

Ora impugno la corda e la lancio con decisione nel vuoto. Precipita sibilando mentre il tratto rimasto in superficie si srotola vorticosamente guizzando verso il basso. Attacco il discensore. Prego Dio che me la mandi buona. Mi porto sull’orlo. Ultima spallata alla paura. Guardo giù: il sottile nastro bianco si perde nell’oscurità. Entro nella bocca del pozzo: con un piccolo balzo volo nel nulla .

Prima lentamente, poi sempre più velocemente la corda incomincia a scorrere tra le pulegge del discensore.

Dopo i primi metri a contatto con la parete ricoperta di uno spesso e soffice strato di muschi, scendo perfettamente nel vuoto: allora l’abisso si apre in tutta la sua grande e tenebrosa bellezza: le pareti sfuggono lontane, umide e scure; rare nicchie occhieggiano irraggiungibili e due coni di luce bianca si diffondono spezzati dalla capriata del ponte di roccia che congiunge con un’architettura ardita e slanciata i lati dell’abisso.

Mi fermo con uno strattone: desidero godere con intensità di questi momenti. Penzolo nel baratro: l’elasticità della corda mi fa girare un po’ da una parte e un po’dall’altra finchè la fune si assesta. Alzo gli occhi. La visione è di un raro fascino: il vivido biancore della luce penetra con forza nel pozzo per poi diluirsi nel buio più profondo.

Gli occhi, ormai assuefatti all’oscurità, restano per un istante accecati quando fisso l’imboccatura ormai lontana.

Il silenzio è assoluto, rotto solo dal rumore delle gocce di umidità che di tanto in tanto si staccano, schioccando, dalle pareti, e cadono inghiottite dal vuoto.

Sono felice di vivere questi momenti con grande intensità : mi sento in un’altra dimensione, diversa ed unica rispetto al mondo di lassù.

Mentre come un ragno cammino lungo il mio filo, colgo pienamente la meravigliosa sensazione di essere parte della natura, di costituire una forma di vita tra tante altre, un minuscolo, ma necessario, tassello di quel grandioso mosaico che è l’universo.

Scendo circa 60 metri per appoggiarmi ad un ghiaione pensile che, dopo una fortissima pendenza, si arresta su un ampio balcone su cui si è ammucchiata la corda.

Ora il pozzo si restringe, e scendo vicino alla parete, incontrando due altri terrazzini, lungo un colatoio, che, illuminato dalla fiammella della lampada a carburo, mi da la sensazione  di calarmi lungo le scanalature di un’enorme colonna scura di una cattedrale gotica, fin quando tocco il fondo.

Da qui l’imponente ingresso sembra un punto bianco e distante, unica stella in un cielo nero, da cui, però, si diffonde un raggio che proietta la sua luce tenue fin giù, nell’intima profondità dell’abisso.

Sono arrivato”.

 
 
 

Lassù in cima al Monte Nero

Post n°6 pubblicato il 16 Ottobre 2009 da fritzwitt
Foto di fritzwitt

 tracciato della ferrata … Lassù in cima al Monte Nero…

 

La sveglia suona alle 6.30. Fuori è ancora buio. Mi alzo con difficoltà: sono proprio assonnato. Un caffè, poi fuori, in macchina. Certo che incominciare la Domenica così – mi dico… Il termometro a Gorizia mostra 12 gradi, mentre la nebbia ovatta tutto, ma lascia intravedere, a malapena, la chiesa del monte Santo. Lungo la valle dell’Isonzo il cielo si fa più sereno, e,  nell’acqua verde smeraldo, colorata dal riflesso dei boschi,  annego nei ricordi dei “vecchi” tempi della canoa, dei  miei amici del Gruppo Kayak , del divertimento per la spensierata leggerezza di momenti trascorsi insieme … gocce di malinconia nel mare della vita …

A Tolmino ripiombo nella nebbia…, poi ne riesco, con la piramide del monte Nero, e il suo caratteristico “piano inclinato” che si staglia nel blu.

Entro in una  Dresnica ancora addormentata alle 8.25. Parcheggio nella piazzetta senza incontrare anima viva, proprio accanto ad un monumento, dove sono assemblati, in modo ingenuamente “kitsch”, una spoletta sberciata, paletti di ferro e filo spinato, mentre su una lastra ruggine campeggia una scritta  per la pace .

 Tra le case, accoccolate intorno, si distingue un cartello di legno che indica la direzione verso il “Krn”. Parto con passo deciso, inerpicandomi su per un sentiero con un fondo di pietre malferme e viscide per le recenti piogge. Rovi e arbusti creano una specie di galleria verde che mi costringe a muovermi nella semi oscurità . Evito di calpestare una salamandra. Menomale. Entro in un recinto. Richiudo il cancello. Ma non ci sono dubbi, i bolli bianco rossi confermano che il sentiero è proprio quello. Sulla sinistra c’è una rete: delle capre brucano tranquille. Il viottolo continua a salire in modo irregolare alzandosi verso est. Dopo una curva mi trovo – sorpresa! – la via sbarrata da una dozzina di caproni neri, con delle robustissime corna: sembrano quasi degli stambecchi.

Ho un po’ di paura. E se mi caricassero ?– mi domando -. Nel frattempo non mi fermo e procedo con decisione. Il gruppo di mammiferi si apre. Tiro un sospiro di sollievo.

Un meraviglioso bosco di latifoglie mi accoglie con un soffice tappeto di foglie marrone chiaro. Mi sembra di essere entrato nella favola di “Alice nel Paese delle meraviglie”. Il sentiero, ora più largo, continua a tirare su dritto senza esitazione, sempre ben segnato.

I faggi salgono alti ed eleganti, mentre dal terreno affiorano rocce bianche di diverse forme e dimensioni che contrastano con le sagome nero pece di relitti di tronchi d’albero morti. Ho l’impressione che la foresta si animi di un tocco fantastico e inquietante.

Alle 9.30 incontro una casetta, quasi uno chalet, piccolina e con il tetto spiovente. E’ un rifugio per dare riparo e soccorso a chi si trova in difficoltà. A lato gorgoglia una fonte: un tubo sottile di gomma emette un fiotto d’acqua nell’incavo di un tronco.

La mia via continua impervia, mentre un po’ alla volta esco dal fitto della vegetazione. Sono sempre in ombra, ma, lontano, a occidente intravedo gli aridi fianchi dei monti, nel sole. Finalmente sono sotto la parete, che, bianca e verticale si alza, ancora in ombra, verso il cielo. Attraverso un ghiaione franoso. Ce ne metto un po’ per trovare la direzione giusta. Poi, vicino ai resti di un lumino da cimitero (chissà chi avrà voluto ricordare… ), incontro il cavo della ferrata. Tocco così il calcare alle 10.10. Mi alzo rapidamente. Dopo un po’, però, l’arrampicata è interrotta da un ripido e stretto sentiero che s’inerpica sui balzi della montagna, per poi, riprendere in modo discontinuo.

Quest’alternanza sentiero – roccia caratterizzerà l’intero percorso. Guadagno un grosso pulpito erboso- il famoso “Leone /Lev” alle 11.00. Ora, finalmente, sono nel sole. Che gioia!Lontano le campane del paese scandiscono il passare del tempo: sopra di me urlano degli uccelli rapaci. L’ambiente è imponente e selvaggio. Pareti rocciose e impressionanti per la loro verticalità, interrotte da tetti spioventi, mi hanno fatto da cornice fino al Lev.

Adesso, ormai sufficientemente in alto, riesco a scorgere la pianura dell’Isonzo, con il fiume che serpeggia, lontano, giù, nella valle. Vedo anche Dresinca disegnata intorno alla sua grandiosa chiesa di pietra bianca, che sembra quasi una cattedrale

Seguo un’indicazione per “S.Korena”. Il sentiero continua imperterrito a salire, con tratti molto esposti e pericolosi.

Come in altre ferrate slovene, il cavo è sistemato solo nei punti più difficili: forse non si pensa che la montagna debba essere per forza alla portata di tutti…

Alle 11.30, su di un cucuzzolo, scrivo il mio nome nel libro di vetta - ben custodito nella tipica scatola metallica- e, poco dopo, raggiungo il rifugio incrociando i resti di opere della Prima Guerra Mondiale.

La stanchezza si fa sentire, ma non voglio mancare la cima. E così,  in breve, arrancando su di un terreno ancora sconvolto e disgregato dalle vicende belliche, la raggiungo.

 E’ mezzogiorno. Da lì il mio sguardo spazia a 360 gradi sulle Giulie e sul mare. Il panorama è veramente meraviglioso. Non mi sfugge l’imponente mole del Tricorno, ma, girandomi verso Oriente, mi accorgo di un’ enorme massa nuvolosa nera che sale rapidamente, sospinta dal vento.

Porca miseria! Voglio raggiungere il sentiero per Dresnica prima di sparire nelle nebbie. Così, a malincuore, inizio a scendere, non senza essermi fermato un attimo sulle panche vuote del rifugio a distendere le gambe, provate da 1700 metri di dislivello, e a mangiare una barretta energetica.

Accarezzato da fredde e vaporose volute sparisco, inghiottito dalla semi oscurità, nell’immenso piano inclinato roccioso, desolatamente spoglio , che caratterizza la parte meridionale del monte Nero. La fretta – dovuta al cambiamento di tempo- non mi fa trovare il sentiero giusto. Così scendo un po’ a caso in un ambiente duro, irreale ed ovattato. Nel saltare giù da un masso mi accorgo di aver urtato un oggetto metallico. Trovo così, per caso,  un proietto vuoto ed una spoletta di una granata della Grande Guerra. Quanta fatica, paura, dolore e morte hanno visto quelle rocce… Mi ficco la vecchia bomba arrugginita nello zaino … un altro ricordo, come quello della Tofana di Rozes, e proseguo. Per fortuna incontro, subito dopo, le righe rosse del tracciato canonico. Ora la nebbia si dirada: c’è quasi il sole.

Su, in alto, riappare la sagoma del rifugio, ormai lontana.

Mi riporto sul ciglio che separa il versante sud da quello occidentale e imbocco decisamente delle ripide serpentine che si snodano verso il basso e l’ancora lontana Dresnica.

La discesa è lunga e, specialmente all’inizio, scivolosa e disagevole, fin quando non incontro la faggeta.

Riaffronto i caproni. Questa volta c’è uno solo a presidiare la strada guardandomi fisso con ostinazione. Non ho la minima intenzione di affrontare una prova di orgoglio con quel poderoso cornuto: faccio uno scarto di un metro e gli passo accanto.

Giungo al paese dopo 2 ore e 40 minuti. Alcuni ragazzi si divertono a giocare a calcio nel campo di fronte alla piazza, qualche voce esce da una casa, non si sentono altri rumori. Il monte Nero, avvolto dalle nebbie, sembra lontano.

 

 

 
 
 

Durance Durance ( appunti di una vacanza transalpina)

Post n°5 pubblicato il 27 Agosto 2009 da fritzwitt

 

Premessa. Tempo fa ho ritrovato questi fogli di appunti (…sì sempre nel famoso comodino…) che avevo buttato giù, posso ipotizzare, nel 1986, periodo in cui ero contagiato da una passione sfrenata per le “acque selvagge” che scorrono furiose nelle gole dei monti. “Acqua selvaggia” è il termine tecnico, tradotto dall’inglese “wild water”, con cui si definiscono sia le rapide dei torrenti, sia la misura di difficoltà con cui si valutano (dal I al VI grado).

Era il periodo in cui alla TV c’era la trasmissione “Johnatan”, programma di avventura e di avventure intorno al mondo, condotto da Ambrogio Fogar. La sigla musicale (che mi ero fatto registrare dalla mia amica Laura, su di una cassetta - immediatamente diventata il tormentone per tutti quelli che si azzardavano a chiedermi un passaggio in macchina -) veniva accompagnata da immagini di persone  in situazioni “estreme”, tra le quali scorreva anche qualche fotogramma di uno in kayak che si lanciava da un roccione nel torrente sottostante… Insomma ero così “contagiato” da non perdermi un inizio trasmissione…

Una fase della mia vita, quindi, piena di emozioni forti e di spensieratezza, da cane randagio, tutta tesa a bere “della sete di avventura”, della gioia profonda della scoperta di nuove sfide e di un mondo naturale grandioso e selvaggio… e le emozioni e l’avventura erano il torrente, le sue rapide, il superare difficoltà sempre più alte.

Erano anche gli anni in cui imperversava la musica del gruppo pop rock britannico dei Duran Duran - da cui il titolo di queste pagine - ma soprattutto era il momento “epico” del Gruppo Kayak xxx ottobre. Il “Gruppo” non aveva quasi nulla di formale, o di “standardizzato” era, in realtà un insieme di”umanità varia”, che si incontrava il giovedì sera presso la “xxx”, per realizzare sogni o semplici escursioni, tutti però rigorosamente in “acqua selvaggia”. E le avventure, sempre a lieto fine, sono state tante, tantissime… di tutti i tipi…

 

 

Testo. “La cinghia del casco è ben stretta sotto il mento, il paraspruzzi è teso e ben aderente ai bordi del pozzetto, faccio leva con la pagaia e mi spingo in acqua. La tensione è alta. Assesto in veloce sequenza pochi colpi di pagaia contro la corrente. La prua del kayak viene immediatamente catturata dal filone principale , mentre la “barca” si inclina, ruota di 180 gradi, e,  con l’appoggio della faccia della pagaia, si inserisce nel centro del fiume.

 Le onde mi accolgono con abbondanti spruzzi mentre la canoa inizia a beccheggiare vistosamente, sprofondando, per riaffiorare subito, dopo dall’acqua. Ora sono solo, la riva sembra lontana, so che tutto dipenderà dalle mie capacità. Guardo in avanti, il più lontano possibile, per mettermi nella direzione giusta evitando le pietre e tronchi affioranti. Ma non è facile. Sembra un mare in tempesta: il rumore della rapida è assordante. Di fronte a me solo il bianco della schiuma. Urto con violenza contro un masso radente, non visto. La barca rimbalza e in un attimo mi scaraventa in giù.  Per un istante lo scafo si inclina di 90-100 gradi. Scatto. Di riflesso mi allungo buttando il busto sulla pagaia, sulla superficie dell’acqua a tentare un appoggio estremo per evitare il completo ribaltamento. L’adrenalina è al massimo. Ce la faccio. Come una molla mi ritiro su. L’acqua mi è entrata nel naso e…nella giacca della muta, ma vado avanti, soddisfatto di non esser finito a”bagno”… “.

Sensazioni forti, dal gusto “selvaggio”, sono la quotidianità alla Scuola Canoa della Val Sesia, frequentata per sviluppare la tecnica e fare un’esperienza “qualificata”da noi, i “meio” del Gruppo Kayak xxx Ottobre di Trieste (Stefano, Caio, Erik e il sottoscritto). Così, poi, “inevitabilmente”, non abbiamo potuto che metterci alla prova e verificare i progressi fatti, trasferendoci oltre il confine transalpino, a Briancon, zona particolarmente interessante per gli appassionati di questo sport.

Durante il viaggio in macchina, sepolto in una montagna di pacchi, attrezzature da campeggio e da kayak, mezzo appisolato, con il sottofondo di “America” e altre cassette di Simon e Garfunkel, mi scorrono nella memoria le immagini di un’ avventura fresca fresca, che per poco, non aveva compromesso la mia partecipazione a questo viaggio.

“Il fiume spinge violentemente giù per dei gradini di roccia, in una rapida lunga, continua e stretta. Con le gambe incastrate spasmodicamente nello scafo, tento di mantenere la direzione, mentre vado a zig zag velocemente tra i massi, in uno slalom ai limiti delle mie possibilità. O, meglio, oltre.

Ho, per dirla tutta, paura di fermarmi, perché temo di non riuscire a tenere, poi, più la canoa, venendo così, risucchiato dalla forza dell’acqua  per la coda del kayak, con il rischio “thriller” di fare la rapida di schiena, e di sperimentare un “bagno” micidiale. Ma sono stanco e provato.

Col senno di poi, probabilmente, non posso fare uno sbaglio più grosso…

Errori di inesperienza.

Affronto, così, la parte più difficile della rapida con il fiato corto e senza gestire la forza della corrente, ma, al contrario, subendola.

Ricordo bene che agli inizi mi era stato detto: “andare in kayak è come sciare. Non ti puoi dire un buon sciatore fino a quando sono gli sci a portarti”.

Ed ora eccomi, a fare i conti con “i muscoli”del fiume.

 Sbatacchiato tra grossi sassi, bagnato da onde e schizzi, mi  ritrovo in una pozza di pochi metri prima che il torrente si restringa ancora. L’acqua imprigionata dalle sponde scatena tutta la propria violenza contro una roccia, sulla quale forma un gigantesco fungo bianco, per poi precipitare ringhiando in un imbuto ribollente di schiuma. Che visione orrenda! Gli occhi cercano disperatamente una via d’uscita. Nulla. Tento, allora, il tutto per tutto, affrontando il salto. Affondo con la forza della disperazione la pagaia nell’acqua. La corrente, però, mi afferra e butta contro il fungo mettendo di traverso la canoa. Sbilanciato, finisco sott’acqua in un attimo, per sgusciare immediatamente fuori dal kayak. Con sgomento percepisco di essere sul punto di venire inghiottito dal “mostro”, vivendo degli angosciosi fotogrammi di vita al rallentatore, mentre sparisco nella colonna d’acqua e, subito dopo,  nella schiuma di fondo della breve cascata. Fortunosamente riemergo più avanti, dopo aver viaggiato per un po’ su e giù come una bottiglia vuota nella corrente.

Trovo il mio amato “Taifun”dopo qualche centinaio di metri, tratto a riva da qualche mano pietosa. Sembra un insolito animale marino spiaggiato e inerte. La violenta esperienza lo ha segnato: la plastica è vistosamente incisa e piegata sul lato sinistro del pozzetto, non c’è più il sacco da lancio e l’assetto è sconquassato... Da parte mia, non berrò  più acqua per alcuni giorni… non solo di fiume…”

 

Giungiamo a destinazione in un’ampia e soleggiata vallata: l’ottimismo e l’entusiasmo sono alle stelle! Nei giorni successivi, ci tuffiamo, così, felici nelle acque selvagge della Onde, Gyronde, Guisane, e Durance. Proprio quest’ultimo fiume ci piace di più, tant’è che ne percorriamo tre tratti diversi, da sopra Briancon ad Embrun. Per evitare brutte sorprese, Caio ed Erik, si offrono di esplorare a piedi, palmo a palmo gli otto chilometri di gole tra Prelles e Argentiere. La loro “gita” si rivela molto utile: individuano, infatti, un “trappolone impraticabile”, che, per essere evitato, costringe ad un micidiale trasbordo lungo una traccia di sentiero che taglia per più di 500 metri un franosissimo ghiaione. E l’indomani, puntualmente, ci troviamo tutti e quattro lì (i “Durance – Durance – così ormai ci siamo soprannominati ), in fila indiana, con 4 metri di canoa e i suoi buoni 20 chili in spalla, rossi in viso e sbuffanti per lo sforzo, come vecchie vaporiere,  intenti a procedere lentamente, tra maledizioni e imprecazioni, con un equilibrio precario  per i cedimenti del terreno e i ciottoli che si staccano e finiscono giù, nel rombo del fiume che  precipita di sotto.

La discesa è coinvolgente. La cornice naturale, maestosa, tra torri di roccia e anse strette, illumina un quadro suggestivo dove l’acqua scorre veloce in rapide divertenti . Le pareti del canon si alzano, a tratti, così verticali da perdersi nel cielo azzurro zaffiro, mentre il torrente, a volte in penombra, spinge deciso in tortuosi labirinti di massi.

Le difficoltà, sono comunque accessibili alle nostre capacità.

Poi, fatta una brusca curva, dove la gola si stringe quasi in una morsa, e il sole sparisce oscurato da un ponte (che purtroppo si rivela essere un orrendo e gigantesco condotto), il fiume si distende , addolcendosi in una vallata sempre più ampia. Ciò, ci fa intuire che siamo ormai alla fine: un chilometro dopo, infatti, alla confluenza con la Gyronde, spunta la sagoma amica della Simca “Horizon” di Caio.

E’la fine della nostra ennesima avventura, ma siamo già pronti per una successiva.

L’alpinista friulano Giusto Gervasutti diceva :”osa, osa sempre e sarai simile ad un dio”. Noi l’abbiamo fatto, con gioia.

 

 
 
 

Impressioni di Val Rosandra

Post n°2 pubblicato il 09 Aprile 2009 da fritzwitt

La Val Rosandra è stata amata come lo è, tuttora, da molti. C’è chi l’ha “cantata” in modo appassionato, chi l’ha frequentata in modo silenzioso, chi vi è stato portato da neonato – quasi per consacrare di generazione in generazione un rapporto di amore -, chi, poi, ha voluto chiudere tragicamente la propria esistenza nel freddo abbraccio delle sue rocce.

Anch’io ho un rapporto “intenso” con la Valle.

L’ho conosciuta da bambino, da boy scout a metà anni sessanta, sotto il peso dello zaino verde stinto ex militare, mentre arrancavo su per il monte Carso, o zampettavo come un lupacchiotto da una parte all’altra del torrente.

Poi, la mia prima passione, la speleologia. Con gli amici bardati con caschetti da cantiere edile, stivali e lampadine elettriche – Piero aveva addirittura un elmetto cimelio della “Grande Guerra”, con un portacandela saldato, ereditato dal padre – ci siamo addentrati in molte delle sue cavità   spulciate dal “2000 Grotte” o individuate in pomeriggi spesi al Catasto dell’Alpina : da quella dalle “Gallerie” alla “Grotta degli altari”... Poi la domenica, spinti da un entusiasmo e una passione per l’avventura incontenibili, ci dedicavamo alla loro caccia, utilizzando, per “l’esplorazione” tutto quello che le nostre modeste finanze potevano permetterci, e  anche di più : corde lunghe alla bisogna, grazie alla giunzione di più cordini , materiale imprestato e raccogliticcio costituivano il nostro “parco attrezzi”.

Così, con Guido, in una giornata ormai “non più in memoria” d’inverno degli anni 70, parcheggiata la “Primavera” vicino al casello, siamo entrati nella bellissima “Fessura del Vento” con l’ambizione di “esplorare” il “ramo dei laghi”. Calati giù per lo stretto cunicolo, oltre al solito materiale, ci trascinavamo un grosso pacco: il canottino “Explorer”(che Piero utilizzava per giochi acquatici nelle crociere in Dalmazia con i genitori ). Gli angusti ambienti coperti ovunque da uno strato di fanghiglia e l’alta umidità ci erano già  familiari perché nel tempo avevamo  visitato altri rami. Con sicurezza, quindi, avanzavamo nella direzione voluta nel dedalo di gallerie.

Fatto il “passaggio a pressione”, superato il pozzo “elicoidale”, con gioia siamo arrivati sulla sponda del primo laghetto e in breve, sotto gli energici colpi di “gonfietto”, il mezzo nautico ha preso forma.

  Poi, non senza emozione, ci siamo “imbarcati”. Scivolare nella scura liquidità, nel silenzio più assoluto, rotto solo dallo sciacquio, provocato dal lento avanzare dell’”Explorer”, che rimbombava nelle strette caverne, manteneva alta la sensazioni di avventura mista  a timore, ma… c’era, infatti, un grosso “ma”. Il canotto era per un solo passeggero, e, pertanto, il tragitto massimo poteva essere lungo solo quanto l’estensione delle corde che avevamo attaccato alle estremità per il suo recupero. Inoltre, i tratti da percorrere erano tortuosi e causavano frequenti incastri del “natante” specialmente quando a turno lo tiravamo a noi. Ad un certo punto, così, accadde quello che non avevamo assolutamente previsto: l’ “Explorer”, imprigionato tra le concrezioni affioranti decise di non muoversi più , a dispetto di ogni robusto e…disperato tentativo. Eravamo bloccati! Avendo percorso già un tratto allagato, ci trovavamo separati non solo dall’acqua ma anche da un angolo secco della parete che non consentiva né di vederci né di individuare la “maledetta barca”.

Che fare? Dopo esserci urlati a distanza idee ed imprecazioni che riecheggiavano nell’oscurità, abbiamo deciso di tentare  l’impossibile: arrampicare  in traversata sopra i laghetti!

 Mi sentivo tanto Gatto Silvestro, quando ho piantato, con scarsissima convinzione, le unghie e le punte degli stivali sulle micro protuberanze di quelle super lisce e viscidissime pareti sotterranee. E, infatti, in un batter d’occhio, proprio come nel cartone animato, due sordi tonfi in rapida successione, hanno salutato letteralmente il “naufragio” sul nascere dell’impresa: in un istante ci siamo trovati entrambi prima sott’acqua e poi a nuotare!

 Ripensando a quei momenti, sarebbe stato atto di dovuta riconoscenza, poi, far immortalare la scena in un quadretto naif, da aggiungere come offerta ai tanti ex voto di un qualche santuario perchè nessuna delle due torce elettriche, sistemate “artigianalmente”con una striscia elastica sul casco, si spense né in quel momento né poi!

Così guadagnata “la riva” ci siamo spogliati, e ,dopo aver strizzato alla bell’e meglio maglioni e calzettoni di lana, una volta rivestiti, totalmente coperti dentro e fuori di quello strato di limo appiccicoso ben noto agli speleologi , abbiamo incominciato la risalita. Come se non bastasse, la tragicomicità della scena aveva raggiunto il suo apice: nella semi oscurità si vedeva l’ombra di Guido proiettata e ingigantita sulle pareti delle caverne, che avanzava lentamente …zoppicando su di un calzettone !Il mio amico, infatti, aveva perso uno stivale nuotando, preso dalla foga di raggiungere rapidamente la sponda. E’facile immaginare quanto sofferta sia stata la via del ritorno, illuminata ormai solo dagli incerti riverberi diffusi alle sempre più agonizzanti lampade “wonder” e dalla determinazione di essere fuori il prima possibile.

Ad un tratto, però, infilati uno dietro l’altro nel faticoso cunicolo d’uscita, siamo stati colpiti in viso dal soffio gelido dell’inverno, e istintivamente abbiamo alzato la testa, e con profondo sollievo ci si è stagliato nel buio della notte il tremulo luccichio delle stelle che brillavano lontane .

Dalle “stalle”, per così dire, alle “stelle”. Successivamente sono passato a dedicarmi all’arrampicata, e, frequentato nel ‘77  il corso “dell’Apina”, ho incominciato ad impegnarmi in modo sistematico su vie di crescente difficoltà, prima, in “Valle” poi sulle Dolomiti. Confesso che ho provato e provo tuttora una certa emozione nell’affrontare gli itinerari belli e, non trascurabili, dei nostri rocciatori classici: Comici, Cozzolino, Pacifico, Spiro …, e, poi, una volta “in cima”, spaziare con lo sguardo sulla città e sul suo mare.

Mare e montagna… rocce ed acqua, binomio vivo nello spirito di Trieste e nel “DNA” della sua gente. E così anche la rocciosa Valle, scavata dal Rosandra, che, dopo un breve percorso si congiunge al mare, ti dona un qualcosa di più, di diverso, di speciale.

In un pomeriggio degli anni ‘80, dopo delle piogge insistenti, tali da portare il torrente ad un livello di” piena “, dei possibili escursionisti avrebbero assistito ad uno spettacolo assolutamente insolito: alcuni individui vestiti con mute e caschi variopinti stavano procedendo lentamente giù per il sentiero inciso nel  ghiaione che porta al bacino della cascata. La discesa, sdrucciolevole di per sé, era complicata dal fatto che, con una mano trattenevano per la maniglia una canoa, tanto sgargiante e bella quanto – in quei momenti – pesante e d’intralcio, mentre con l’altra impugnavano la pagaia.

Percorrere in kajak il Rosandra era un evento straordinario e con Stefano. Ermanno, Franco e “los Gordos” (i migliori canoisti del mitico “Gruppo Kayak xxx Ottobre), eravamo tra i primi a farlo.

Eccezionale non per le difficoltà in assoluto, ma, soprattutto, per l’ambiente e la rara opportunità di aver trovato il livello di percorribilità “giusto”.

L’acqua era del tipico color cioccolata, proprio delle piene.

Imbarcati sotto la cascata, uno alla volta, siamo entrati nel “gioco”.

 Molti ricordano i massicci e rumorosi flipper (ora “pensionati” per i più moderni videogiochi) che attiravano nei bar molti ragazzi, impegnati tra scossoni, trilli e imprecazioni, a far rimbalzare, tenendo in campo il più possibile, una guizzante sfera metallica, prima che cadesse inesorabilmente in uno spazio tra due porte.

Tutt’uno con le nostre canoe, compressi nello scafo, concentrati sul percorso ed emozionati, abbiamo così provato la sensazione che fosse scattata la molla di un gigantesco flipper, dove noi eravamo le palline  sparate in una velocissima discesa.

La corrente che spingeva senza tregua ci faceva sbattere e rimbalzare, saltare, sprofondare ed emergere dalla schiuma, continuamente, di pozza in pozza. L’avventura non era particolarmente pericolosa perché la forza dell’acqua andava commisurata alle (modeste) dimensioni del torrente.

 Inutile ricordare, però, che il divertimento poteva essere apprezzato dai soli esperti: oltretutto era indispensabile sapersi fermare per tempo prima delle strozzature impraticabili, dove l’incastrarsi in quelle condizioni ti avrebbe fatto sembrare un putto sprizzante acqua in una scrosciante fontana di roccia…

Purtroppo, però, il rodeo non è durato molto ed in breve  ci siamo trovati allo sbarco, poco prima dell’inizio del sentiero all’altezza dello sbarramento di cemento  vicino al “Premuda”.

Bello è anche il giro ad anello della Valle in mountain bike che offre un’interessante alternativa alle solite passeggiate. Partendo dalla Ferrovia e proseguendo in Slovenia per Occisla, il tratto del “Sentiero dell’amicizia” vero e proprio è molto sconnesso e in certi tratti veramente ripido. La zona è decisamente più selvaggia rispetto a quella italiana. Particolare è il tratto delle rovine dei mulini prima di giungere alla ex garitta dei graniciari. Da Botazzo, per riguadagnare il percorso della strada ferrata, ci vogliono gambe e polmoni e, probabilmente gli escursionisti che vedono i ciclisti arrancare faticosamente su quei brevi ma impegnativi tornanti penseranno che i modi per cercare la sofferenza sono infiniti…

Oscar Wilde diceva che “ la felicità non è avere quello che si desidera, ma desiderare quello che si ha”.

Come non riferirlo alla nostra Valle?

Sotto- nelle sue grotte-, sopra - sui suoi magnifici roccioni bianchi -, dentro- il suo torrente che l’ha creata- o intorno -con la bici o a piedi- ti offre delle sensazioni e ti regala delle immagini che generano emozioni e passioni intense. Come si può definire una relazione del genere ? A ognuno la propria risposta.

 
 
 
 
 

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