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ISLAMOFOBIA

Post n°20 pubblicato il 13 Settembre 2014 da giulio.stilla

ISLAMOFOBIA

L’altro giorno, 11 settembre, è stata celebrata la commemorazione dell’abbattimento delle Torri Gemelle, avvenuto 13 anni orsono, e si è temuto in tutti i Paesi Occidentali, non esclusa l’Italia, che il terrorismo di Satana potesse festeggiare l’anniversario con qualche altra immane tragedia.

Nel nostro Paese, però, a ridosso della tragedia non è mai mancata la farsa. Mi riferisco esplicitamente al fatto che, da talune settimane, circolano in Italia stravaganti accuse di “islamofobia”.

Avete mai sentito parlare di “islamofobia”? Rivolgo questo interrogativo ad alcuni miei eventuali  interlocutori, perché amerei farmi illuminare da loro sul significato di vilipendio all’Islam che il Consiglio di Disciplina Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti ha ravvisato in alcuni articoli del 2011 dello scrittore MAGDI CRISTIANO ALLAM.

Il giornalista, in altri termini, viene accusato “di aver violato l’obbligo di esercitare la professione con dignità e decoro”, di aver offeso la religione dell’Islam con espressioni di questo tipo: “L’Occidente impari dall’Egitto: con l’Islam non c’è democrazia”.

 Alla faccia della “democrazia” italiana! Se per l’Ordine dei giornalisti in Italia non si può scrivere che “con l’Islam non c’è democrazia”, rovesciando questo costrutto logico, bisognerebbe scrivere che in Italia c’è democrazia, perché è possibile sottoporre a giudizio e sospendere un giornalista dalla sua attività per aver osato scrivere che con l’Islam non c’è libertà democratica; ovvero in Italia, dove la Democrazia è vissuta come Anarchia, si viene incriminato per reato di opinione, cioè per “islamofobia”.

Strano ragionamento, reso ancora più complicato dalla richiesta non molto remota dell’Imam vattelappesca di rimuovere il crocifisso dalle aule scolastiche e dai  Tribunali, perché, se non lo si facesse, verrebbe offeso la sensibilità degli scolari musulmani o degli operatori sempre musulmani dell’Amministrazione della Giustizia. Alla divulgazione di queste richieste, nessuno ha mai parlato di “cristianesimo-fobia”. Non c’è stato nessun Ordine professionale, dei giornalisti o di altri, che abbia fatto risaltare l’abnormità della pretesa dell’Imam, in un Paese dove il Cristianesimo non è solo una religione da professare o non professare liberamente, ma è una cultura, un modo di essere, è la nostra educazione, è la nostra tradizione, è la nostra identità. Senza scomodare Benedetto Croce, che da laico integerrimo e da filosofo immanentista, scriveva, nel 1942, il Saggio [Perché non possiamo non dirci “cristiani”], in cui argomenta tutte la ragioni della inevitabilità degli effetti della rivoluzione cristiana, che ha operato una singolare, irreversibile mutazione “nella coscienza morale” di ognuno.

Fatto salvo, quindi, il diritto di reciprocità, quanti Imam e quanti musulmani dovrebbero essere accusati  di vilipendio e di mancanza di rispetto alla religione cristiana e al crocifisso? Provata l’accusa di cristianesimo-fobia, dovrebbero essere cacciati a pedate dal territorio nazionale molti musulmani e, in particolare, quelli che trasformano le loro Moschee in centri di propaganda jihadistica. Ma si sa, in Italia sono garantite tutte le libertà, anche quella di coniare un nuovo vocabolo, “islamofobia”, per mandare sotto processo un giornalista che della libertà ha fatto una precisa ragion di vita tanto che da musulmano si è convertito  al cristianesimo, ricevendo il battesimo in una recente notte di Natale, in San Pietro, dalle dirette mani di Sua Santità Benedetto XVI.

 Già, “islamofobia”, paura, avversione all’Islam. Un termine, infatti, che viene adoperato nel lessico psicoanalitico per indicare tutte quelle paure irrazionali per qualche circostanza, per qualche cosa: Così, abbiamo i termini di “agorafobia” (paura degli spazi aperti), “claustrofobia” (paura degli spazi chiusi). “idrofobia”, ecc. ecc.

Per analogia, quindi, “islamofobia” dovrebbe essere adoperata per indicare una patologia della mente ed essere curata da un terapeuta della psicanalisi e non per sospendere dalla sua attività di giornalista uno dei più bravi scrittori italiani, nel Paese, con la più bella Costituzione, per denuncia di un avvocato, rappresentante legale degli interessi della più tollerante Religione del Mondo: la religione di Maometto.

Ma voi, miei probabili interlocutori, credete veramente che Magdi Cristiano Allam sia stato sottoposto a procedimento disciplinare dall’Ordine Nazionale dei giornalisti per aver scritto, nel 2011, che “l’Islam ci assedia: abbiamo il dovere di difendere la nostra cultura. Subiamo ogni giorno gli abusi dei predicatori d’odio che si annidano in quasi le 900 moschee italiane”.

Io credo di no. Io credo che lo scrittore Allam sia stato denunciato alla magistratura, perché scrive in maniera mirabile sulla stampa non di sinistra. Scrive su giornali che non possono essere annoverati come giornali dottrinali di sinistra. Scrive da grande spirito libero nella scia tradizionale dei grandi Scrittori che - da Giuseppe Prezzolini e da Piero Gobetti, passando per Curzio Malaparte, Leo Longanesi, Ennio Flaiano, Mario Pannuzio Indro Montanelli, Gianna Preda, fino ai nostri più attuali Oriana Fallaci, Gianpaolo Pansa, Angelo Panebianco, Vittorio Feltri ecc. (non posso ricordarli tutti, ma ce ne sono molti altri)  -   non hanno mai asservito la loro libertà di attenti osservatori della realtà politica e sociale dell’Italia agli interessi e agli egoismi di qualche Padrone o di qualche Ideologia.

Io credo che questa sia la vera ragione della sospensione dalla sua attività di giornalista di Cristiano Allam. Tanto è vero che sulla stampa di sinistra o per televisione non si è sollevata nessuna voce che gridasse allo scandalo di soffocare la libertà di pensiero e di espressione, nel Paese più bello del mondo, dalla Costituzione più bella del mondo,  nelle contrade più libere del mondo, dove regna sovrana la corruzione politica più brava del mondo,  dove la Mafia è la linfa metastatica dell’Economia e dove i concorsi per lavorare si vincono per raccomandazione politica e scambio di voti, dove le carriere professionali progrediscono per la intensità di militanza nei Partiti, oggi nei Comitati d’Affari,  dove il terzo potere dello Stato, la Magistratura,  che dovrebbe garantire una giustizia libera ed imparziale, è divisa per correnti politiche e le Corporazioni di matrice medievale impediscono ai giovani laureati di accedere alle professioni. Esistono gli Ordini Professionali, come quello dei giornalisti,  attraverso i quali bisogna passare, come sotto le Forche Caudine, per aspirare a guadagnarsi un tozzo di pane da parte di giovani preparati, che, dopo venti, trent’ anni  di studio e di ricerca occupazionale, sopravvivono grazie ai salari, miseri salari, o alle pensioni dei propri genitori.

Io mi auguro con tutta l’anima mia che l’ex-Sindaco di Firenze, Matteo Renzi, originario di Rignano sull’Arno, faccia veramente quanto va predicando, a cominciare dalle cosiddette “liberalizzazioni”, anche dagli Ordini professionali, come quello dei giornalisti.

La storia della nostra Italia non è la storia di un paese democratico.

Non è la storia dell’Inghilterra o meglio degli Stati Uniti d’America. Se solo consideriamo che, nel 1831, uno dei più grandi pensatori politici del XIX secolo, ALXIS de TOCQUEVILLE, nato a Parigi, nel 1805, e morto a Cannes, nel 1859, partiva dalla Francia, paese della rivoluzione democratica, per andare a studiare la realtà sociale e politica degli Stati Uniti, dove non c’era stata nessuna rivoluzione violenta, come quella che in Francia iniziò con la presa della Bastiglia e in nome della Liberté, Egalité, Fraternité, fece rotolare, sotto la mannaia della ghigliottina, migliaia di teste, compresa quella del suo maggiore esponente Maximilien de Robespierre.

 “Nessuna libertà per i nemici della libertà”, fu il grido di questa cruenta Rivoluzione.

Di ritorno dagli Stati Uniti, de Tocqueville scrisse, tra il 1835 e il 1840,  un libro in due tomi, diventato ormai un classico della filosofia politica, dal titolo “La Democrazia in America”. In questa opera l’autore analizza la realtà sociale e politica americana, illustrandola come una società in cui, già nell’800, non c’erano privilegi di classi o di ceti né diseguaglianze che impedissero a tutti di competere nella organizzazione sociale con il proprio merito e i propri talenti. Non c’erano in America,  fin d’allora, barriere presociali che impedissero ai cittadini americani di sentirsi  liberi nella società degli eguali.

 Si, perché il problema è proprio questo: essere liberi di affermarsi, di studiare, di lavorare, di fare ricerca scientifica, di associarsi per grandi iniziative politiche o per imprese economiche, commerciali, culturali , religiose, partendo da uno status sociale uguale per tutti.

Uno stato sociale di uguaglianze, cioè, garantito dalla certezza del diritto e dalle leggi, che non inficiano le capacità individuali e le libere iniziative, in nome di quel principio che noi, soltanto oggi, incominciamo a chiamare “principio di sussidiarietà”, per significare che abbiamo bisogno di organizzare la nostra società in una struttura federalista, in cui sia permesso al cittadino, a tutti i cittadini,  nel rispetto dei diritti degli altri, di fare e costruire senza aspettare il permesso dal Comune, e al Comune di operare liberamente senza aspettare il permesso  della Regione, e alla Regione di realizzare le grandi opere senza aspettare il nullaosta del Potere Centrale.

In altri termini, per Alexis de Tocqueville la praxis politica della autentica “democrazia” è molto difficile, perché bisogna garantire sempre e dovunque l’armonia di due principi fondamentali: il principio della libertà individuale e quello dell’uguaglianza fra i cittadini. Nella società delle formiche o dei castori tutti quanti sono uguali, perché tutti quanti sono servi. Nella società degli uomini è necessario coniugare libertà ed uguaglianza senza mai scadere nel fatto che l’una possa essere soffocata dall’altra. Nella società degli esseri pensanti la persona è il fulcro, il fondamento da cui partire, riconoscendole  libertà di iniziativa e facoltà di associarsi nelle imprese economiche, nei consorzi sociali, nei partiti politici, nei sodalizi religiosi e culturali, che sono tutti i corpi intermedi, capaci di contenere il paternalismo autoritario della maggioranza. Nella società degli uomini liberi e razionali, infatti,  non può, non deve esserci una “maggioranza” che legifera, governa ed amministra la giustizia, privando la “minoranza” della funzione di controllo e, quindi, rendendola vana, inutile, superflua.

Nelle società liberal-democratiche non è concepibile uno Stato massimo che occupa tutti gli spazi sociali, espandendosi con paterno autoritarismo nella distribuzione di cure e di benefici non in base al diritto o al merito dei cittadini, che, perdendo il rischio delle proprie libertà, finiscono anche per smarrire le proprie responsabilità. All’interno di una società dominata da un eccessivo statalismo, tutti i cittadini sono quasi omologati a compiere gli stessi percorsi, con le stesse abitudini, con le stesse aspettative, con le stesse erronee convinzioni di essere liberi dai bisogni. In verità, non sono liberi di niente, perché le scelte politiche, sociali, economiche, appartengono ad oligarchie che dicono di rappresentare la “Sovranità” del popolo.

Sotto molti aspetti, è lo Stato democratico, teorizzato  da Jean Jacques Rousseau nel suo “Contratto Sociale” del 1762, nel quale, pur affermando, da grande pensatore giusnaturalista, la tutela dei diritti naturali dei cittadini, finisce per consacrare la Sovranità del popolo come “esercizio della volontà generale”.

Questa è concepita dal filosofo svizzero come “la somma delle volontà particolari”, le quali si dissolvono nella “Volontà generale”, che, una volta costituitasi, si rivela “inalienabile”, “indivisibile” e “infallibile”.  Si capisce subito che  in uno Stato cosi fatto non esiste più la minoranza ma la tirannia della maggioranza che falsa alle radici l’esercizio della democrazia liberale.

Circa un secolo più tardi, Alexis de Tocqueville compiva una viaggio in America, che illustra nella sua opera “LA DEMOCRAZIA IN AMERICA”, parlando dei pregi della democrazia americana, riconducibili tutti al concetto di “persona”,  fulcro, dicevo più sopra, della organizzazione sociale in distretti federali, in autonomie amministrative, in associazioni politiche, economiche, culturali, forti della potestà di inficiare le leggi non costituzionali e di amministrare la giustizia tramite le libere elezioni dei giudici e la presenza dei cittadini nelle giurie dei processi penali e civili.

Alexis de Tocqueville era un grande spirito laico e già prima di Cavour aveva argomentato la necessità della separazione tra la Chiesa e lo Stato. Il Conte di Cavour, sul letto di morte, il 5 giugno 1861, al frate francescano, che gli somministrava la estrema unzione,  ricordava il suo convincimento liberale: “Padre, libera Chiesa in libero Stato”.

de Tocqueville, pur manifestando la necessità storica di questo assunto, era convinto altresì del ruolo fortemente rivoluzionario esercitato dalla religione cristiana, fortificando la libertà dell’uomo da tutti i mali e, in particolare, da quello dell’ignoranza, inducendolo a coltivare le radici profonde della coscienza morale e a scoprire l’unica relazione autentica fra gli uomini: la relazione dell’Amore.

Della religione del Corano e di Maometto, invece, aveva una visione molto nitida e molto antitetica a questa della religione cristiana.  Nella “Lettera a Arthur de Gobineau”, il 22 ottobre del 1843,  così scriveva:  “Dopo aver studiato moltissimo il Corano, la convinzione a cui sono pervenuto è che nel complesso vi siano state nel mondo poche religioni altrettanto letali per l’uomo di quella di Maometto. A quanto vedo, l’Islam è la causa principale della decadenza oggi così evidente nel mondo musulmano, e, benché sia meno assurdo del politeismo degli antichi, le sue tendenze sociali e politiche sono secondo me più pericolose………considero l’Islam una forma di decadenza anziché una forma di progresso.”

Se vivesse, oggi, de Tocqueville, alle notizie che ci arrivano dal cosiddetto Stato Islamico  -  dove alle scene sanguinarie delle teste mozzate dei giornalisti occidentali si sommano in migliaia bambini seviziati e sepolti vivi, donne stuprate e abbandonate a morte violenta o, fatto scempio delle loro membra, vendute come schiave, uomini trucidati ed ammassati in fosse comuni  -   cosa scriverebbe uno dei più grandi filosofi della democrazia e della libertà.

Scriverebbe quello che in migliaia  di pagine dei suoi articoli e dei suoi libri ha denunciato la scrittrice ORIANA FALLACI. Scriverebbe quello che ha scritto in “La rabbia e l’Orgoglio” o in “La forza della Ragione” e che io non oso ripetere testualmente, perché temo di essere accusato anch’io di vilipendio all’Islam o di razzismo-religioso o xenofobia o di blasfemia, così come venne accusata lei, grande alfiere della libertà e della democrazia, pochi anni prima di morire, in Francia, Svizzera e Italia.

Scriverebbe, in altri termini, che nessuna religione può dettare regole e leggi allo Stato, che nessuna religione in nome di Dio può mandare a morte gli infedeli, lapidare le donne perché adultere, mascherarle con il burqa, per nascondere agli sguardi lubrici le loro rotondità, impedire loro di prendere la patente di guida o di emanciparsi dalla schiavitù, infibulare le bambine o esercitare la paterna potestà di vita o di morte sulla prole di famiglia, ecc. ecc.

Scriverebbe che non si possono trasformare le moschee in centri di reclutamento per terroristi, che non si può pretendere di strappare il crocifisso dalle aule delle scuole o dalle aule dei tribunali o dalle stanze degli infermi negli ospedali, che non si può esercitare l’arroganza di chiedere di abolire il Presepe o la fantasiosa immagine di Babbo Natale.

 Scriverebbe che non si possono distruggere in un immane, titanico falò due, tre, quattro millenni di storia civile e 2500 anni di filosofia, con tutte le conquiste dei diritti naturali, della libertà, della democrazia, del libero pensiero e dei suoi concetti fondamentali: persona, fratellanza, amore,  pace, certezza del diritto, rispetto del prossimo, dignità del lavoro, progresso morale, tecnico-scientifico, e crescita della intelligenza umana.

Conquiste di Civiltà, queste, che hanno richiesto il sacrificio di miliardi di persone, immolando le proprie esistenze attraverso spietati e disumani conflitti bellici e insanguinando tutte le zolle della vecchia Europa, dell’Africa, dell’Asia, delle Americhe.

Dovremmo permettere che tutto questo inestimabile patrimonio umano e divino venga distrutto dalla furia demenziale e belluina dell’estremismo islamico, che, fino adesso, ha avuto buon gioco in mezzo alla complicata galassia araba anche grazie ad alcune sbagliate politiche occidentali.

Ma paura e terrorismo non passeranno, anche se in alcune aree dell’Occidente non mancano significative attività di proselitismo a sostegno del fanatismo stragista e dei carnefici jihadisti e, in Italia, in particolare, non tace la voce irresponsabile dell’Ordine dei Giornalisti, sollecito a sospendere dal suo Albo il libero scrittore Magdi Cristiano Allam, per reato di opinione, configuratosi secondo loro nei suoi articoli di giornale del 2011.

Accusato di islamofobia, per cui verrà sottoposto a giudizio della magistratura, alla stessa stregua della perseguitata ORIANA FALLACI, il giornalista ALLAM, che si pone come illustre epigono della pleiade di scrittori, che hanno fatto della libertà di pensiero il vessillo della propria esistenza, riceva la piena solidarietà e la emozionante simpatia di tutte quelle persone come me, che non disdegnano la ricerca della verità e il coraggio di vivere con la Libertà.

 
 
 
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