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IN ATTESA DEGLI EVENTI

Post n°115 pubblicato il 30 Novembre 2017 da giulio.stilla

IN ATTESA DEGLI EVENTI

Nel paese in cui sono nato, vissuto fino ad ora e in cui, molto probabilmente, finirò i miei giorni, il tempo, a me sembra, si è fermato da sempre. Non così per Platone quando scrive nel “Timeo” che il tempo è “la immagine mobile dell’eternità”, la quale scandisce il tempo attraverso gli eventi di cui fanno parte le nostre esistenze. Così, è stato ed è anche per me. Noi tutti apparteniamo all’Eternità, cioè alla Realtà Eterna, cioè all’Essere, direbbe Martin Heidegger. Mi è capitato più volte di porre ascolto al rumore degli eventi con la speranza di capire non tanto il significato storico di essi quanto piuttosto di carpire la melodia recondita dell’Eternità, perché anche questa avrà un senso e un significato, difficilmente interpretabili sul piano razionale, ma coglibili percorrendo altre vie, come, per esempio, quelle del sentimento e della fede in un ordine non più platonico e filosofico ma in un ordine religioso e provvidenziale. Sentimento e fede, per loro natura, travalicano i limiti imposti alla ragione dalla nostra condizione ontologica ed esistenziale. Era facilmente scontato, quindi, che non riuscissi a dare una spiegazione razionale, perché non ci sono spiegazioni razionali dell’Eternità. Il frastuono degli eventi e del tempo sopravanza di molto il silente e dolce scorrere dell’Eternità. I rumori dei grandi eventi della Storia degli uomini, delle tragiche guerre dei popoli e delle loro trasmigrazioni da un Continente all’altro, da una terra all’altra, i rumori delle grandi Rivoluzioni del passato, in perenne ricerca del significato del proprio tempo, hanno quasi sempre distolto gli uomini dall’impegno di investigare nella propria interiorità  -  (In interiore homine habitat veritas) -  per trovare il capo iniziale della matassa, che, svolta per intera, rivela i passaggi segreti, come in un labirinto, che conducono all’Eternità.

Quanto più scaviamo, infatti, nel profondo della nostra anima tanto più scopriamo un’isoletta sconosciuta, che ci seduce e ci invita alla sua esplorazione, al termine della quale ci sentiamo più ricchi di conoscenze e in grado di programmare altri percorsi. Ma l’uomo vive ed esiste nel tempo, che, come pensa Martin Heidegger, non è una variabile indipendente dalla nostra esistenza. E’ parte fondamentale della nostra esistenza. E’ l’alveo del tempo nel quale è deposto l’uomo con la sua nascita   -  Heidegger direbbe è “gettato” -   e dentro il quale ci rimane fino alla morte, che molto probabilmente deporrà l’uomo nell’oceano dell’eternità. Nell’alveo del tempo non possiamo fare a meno di dominare la corrente e di progettare la nostra esistenza, perché l’esistenza è innanzi tutto progettazione, la quale, come ci ricorda la sua origine latina, “exsistere”, ha un preciso significato, che mette in primo rilievo il concetto di “venire fuori”, “emergere”, “programmare” cioè, “esistere”. Tutti gli enti di questo mondo vivono: vivono gli animali irrazionali, vivono la piante, vivono gli astri, vivono le tenebre e vive la luce, vivono perfino i sassi, ma soltanto un “ente” esiste ed è l’ente “uomo”, perché soltanto l’uomo progetta e si prende cura di sé e degli altri. Vive l’Universo nella sua sterminata incommensurabilità, ma l’Universo non sa di vivere. Soltanto l’uomo, micro-atomo dell’Universo, sa di vivere. E in questa consapevolezza, per quanto gli riesca possibile, programma la sua esistenza, rapportandosi  -  come sua prima e peculiare capacità di cercare e di interrogarsi  -   all’Essere, per trovarne il senso. Che cosa è l’Essere? Qual è il suo significato? Il suo senso?  Martin Heidegger si accorge presto che non è facile rispondere a questi interrogativi. Anche perché l’interrogante e l’interrogato sono la stessa persona, che ha limiti già nello scegliere le sue modalità d’essere. Programma la sua esistenza, dovendo scegliere fra le infinite possibilità d’essere. L’uomo, infatti, è l’unico ente che non è dato a se stesso come una realtà compiuta e predeterminata. E’ l’ente che si realizza nel suo divenire. E’ possibilità d’essere. E’ scelta di esistenza e in questa scelta corre sempre il rischio di non “esserci”.  

L’uomo si prende cura di sé e degli altri, perché, per esistere, bisogna aver “cura” di sé e degli altri. Non esiste l’uomo senza relazioni. L’esistenza è sempre coesistenza con gli altri e con le cose, la cui natura, il cui essere risiede nella loro disponibilità ad essere utilizzate. L’uomo, “gettato” nella corrente del tempo, fin dai suoi primi vagiti, ha bisogno di essere “curato”. Senza la “cura” degli altri non vivrebbe e non avrebbe, in seguito, alcuna possibilità di scelta, non avrebbe, cioè, alcuna possibilità di esistere. Sarebbe sbattuto sugli scogli aguzzi delle sponde rocciose, dove, seviziato dal forte imbatto, finirebbe il suo tempo. Esistendo, invece, diventa anche soggetto di “cura”, oltre ad esserne oggetto. L’Esserci deve “curarsi” ed aver “cura” degli altri e delle cose. Deve subito preoccuparsi di avere una dimora, dentro la quale deve assicurarsi di garantire a sé e agli altri tutti i conforti ricevuti fin dalla sua iniziale “gettazione” nello scorrere del tempo. L’Esserci, cioè l’uomo, deve preoccuparsi di esistere insieme con gli altri nel contesto di un agglomerato urbano ovvero di un paese, di una città, all’interno della quale deve garantire il soddisfacimento dei bisogni primari, materiali, spirituali, intellettuali. Deve garantire a sé e agli altri la vivibilità e la capacità di scelta tra le diverse modalità di essere. Deve scegliere di esistere in pace e in progresso con gli altri o in guerra e in regresso di cultura, d’istruzione, di arte, di bellezza, di commercio, di attività economiche e di tutte le opere dell’uomo, che hanno avviato la sua evoluzione e la sua storicità. Sovrana, quindi, della storia dell’uomo è la “Cura” di sé e degli altri. Heidegger, per rafforzare questo concetto della “Cura”, come struttura fondamentale dell’Esserci, richiama alla memoria il poeta latino Igino, che sentì l’intuizione prefilosofica di individuare nella “Cura” l’essere dell’Esserci:

"Cura enim quia prima finxit, teneat quamdiu vixerit”. “Poiché, infatti, fu la cura che per prima diede forma all'uomo, la cura lo possiede finché esso viva". (Abbagnano-Fornero, “Itinerari di filosofia”, vol.3A , pag. 391).                          

 Nella “cura” bisogna individuare il fulcro del nostro fatale andare, che include le tre dimensioni del tempo, ovvero la temporalità del presente, quella del passato e quella del futuro. Attraverso il tempo e nel tempo conduciamo la nostra esistenza, anonima e inautentica. Anonima perché è l’esistenza di tutti. E’ l’esistenza del “si dice” e del “si fa”. E’ l’esistenza connotata da tre modalità generiche: la “chiacchiera”, la “curiosità” e l”equivoco”. La “chiacchiera” non è il linguaggio, che attraverso la parola è lo svelamento dell’essere. La “chiacchiera” appartiene a tutti, a tutti quelli che fondano la propria esistenza nella quotidianità su certi falsi assiomi: è vero, perché “così si dice”, perché così “si fa”. E’ una esistenza condotta dalla “curiosità”, che non è interesse per l’essere del mondo, ma per l’apparenza delle cose. E’ morbosità che non prelude alla verità ma all’equivoco, la terza modalità in cui cade l’esistenza inautentica, perché con la “chiacchiera” e la “curiosità” si finisce di smarrire l’oggetto di cui trattasi. Si perde il senso del linguaggio, precipitando nell’equivoco, per cui non si sa più di che cosa si parla e di chi si parla. Tutte le nostre preoccupazioni quotidiane sono prioritarie rispetto alla possibilità più vicina al nostro modo di esserci, che è la morte. Pensiamo anzi che la morte appartenga esclusivamente agli altri. Godiamo di una certa immunità psicologica, quando crediamo che la morte è per noi la possibilità più remota. Ma non è così. E’ una nostra credenza, che ci spinge a vivere la nostra quotidianità in misura banale, sospinti sempre dai convincimenti generici che appartengono a tutti, mossi dalla curiosità per una vita superficiale ed ingannevole, orientati dall’equivoco nel commercio del mondo e nelle relazioni con gli altri. All’Esserci risulta più agevole rinunciare alla propria singolarità ed esistere come esistono tutti gli altri, conducendo un’esistenza inautentica nella ripetitività delle faccende quotidiane e nelle preoccupazioni comuni a tutti per uscire dal disagio esistenziale, dalla povertà, dalla malattia, dalla inettitudine, dal pressapochismo, dalla mediocrità.

Si perseguono le sollecitudini, le più varie, per incrementare le ricchezze, i talenti economici, professionali, socio-politici, in una estenuante competizione con gli altri. Si fa di tutto per nascondere a se stessi il pensiero della morte, e pure questa è la possibilità più prossima, più incondizionata, più vicina all’Esserci, che sceglie di vivere una vita autentica, di cui parla Heidegger. La si esorcizza, perché la morte non appartiene mai a noi, ma appartiene sempre agli altri. In questo travaglio esistenziale ed inautentico si radicalizza la “Cura”, che si svolge e si estende nel “Tempo”. La Cura, quindi, rimanda al tempo, che bisogna interrogare per ricercare il senso dell’Essere in generale. Se nella fase iniziale della sua meditazione, Heidegger aveva scritto “Essere e Tempo”, interrogando l’Esserci in quanto più prossimo a rispondere alla domanda sull’Essere, nella seconda fase della sua ricerca sul senso-significato dell’Essere finisce per interrogare il Tempo, ma il Tempo non risponde. Avrebbe dovuto scrivere una seconda parte della sua Opera con il titolo “Tempo ed Essere”, ma ammette che non può andare avanti per insufficienza del linguaggio. La sua domanda sul senso dell’Essere, dopo una approfondita analitica esistenziale, non sortisce alcun risultato, resta senza una risposta. Dopo aver sempre confessato di non essere un filosofo esistenzialista e di avere un esclusivo interesse per l’Ontologia, si deve ricredere che questo interesse ha bisogno di altri supporti che la sua ricerca non riesce ad individuare.     

La ricerca ontologica, come tutte le ricerche metafisiche, secondo i miei modestissimi convincimenti, non approda mai a risultati significativi. Avrebbe potuto approfondire la sua propensione all’ascolto della “Parola”, della Storia, degli Eventi nella Storia, e avrebbe trovato, secondo me, il senso della nostra vita e il senso dell’Essere in generale. Se avesse approfondito la riflessione sulla “Parola”, da lui già interpretata come “svelamento dell’Essere”, perché carica delle forze dell’anima, avrebbe potuto condurre una ricerca sulla Bibbia, che testimonia come tutta la creazione è il risultato della “Parola” di Dio. Ma Heidegger, pur essendo stato educato alla luce della parola di Dio, nel 1919 dichiara la incompatibilità dei suoi interessi filosofici con la visione cristiana del mondo e della Storia. Avrebbe potuto porre ascolto ai grandi Eventi della storia, approfondendo sempre di più la riflessione sul destino dell’Umanità, a cui si appartiene, perché “esistere” in misura autentica, come rimarca il filosofo di Messkirch, significa “coesistere” non solo fra le cose e gli eventi del presente insieme con gli altri Esserci, ma anche con gli eventi e gli altri uomini del passato in attesa degli eventi e delle responsabilità del futuro.

L’uomo non è una isola deserta, si trova su un’isola insieme con gli altri, la quale, come argomenta Kant nella “Critica della Ragion Pura”, al passo B 294-295, è l’isola della terra ferma e della ricerca scientifica, “è il territorio della verità”, è l’sola della condivisione e della coesistenza, circondata da flutti burrascosi e dall’oceano, cioè la metafisica, dove nessun navigante può permettersi di avventurarsi per la scoperta di nuovi approdi senza correre il rischio o, meglio, la certezza di naufragare.

Bisogna restare, quindi, con i piedi ben saldi sulla terra ferma dell’isola per ancorare la nostra esistenza alla conoscenza scientifica e alla storicità degli abitanti dell’isola, dove si succedono i grandi eventi dell’umanità. Se avesse approfondito la sua riflessione sulla storia dell’uomo, se avesse prestato ascolto alla voce della Storia, il filosofo dell’Esistenza e dell’Ontologia avrebbe certamente scritto la seconda sezione della sua Opera “Tempo ed Essere”, in cui, io ne sono certo, avrebbe trovato, interrogando il tempo, il senso dell’Essere in generale e il senso dell’essere in particolare, cioè il nostro destino, che non può non essere cristianamente il destino di una creatura votata per l’Infinito. Ad Deum creatus.

Il Tempo e la Storia, infatti, gli avrebbero rivelato che l’Essere in generale s’inserisce sempre nella storia degli uomini, svelando loro la verità, orientando il loro cammino, indicandone il senso e la direzione e liberandoli dall’angoscia e dalla disperazione. L’esistenza autentica, che è l’essere per la morte, argomenta Heidegger, conduce gli uomini all’ascolto della “voce della coscienza”, che richiama, senza alcuna pretesa di esprimere una valutazione morale, alla percezione del “nulla”, come fondamento dell’Esserci.

Eh no! Io direi che la “voce della coscienza”, a volerle dar retta, richiama, agostinianamente, alla interiorità nostra più profonda, come sede di ascolto per capire i grandi Eventi e l’inserzione dell’Eterno nel tempo, l’inserimento di Dio nella storia degli uomini, dell’Assoluto nel relativo, dell’Infinito nel finito. Restiamo sempre in attesa degli eventi, perché quello più importane per noi, come preannunciano le Parole e i Profeti, non ci colga impreparati ed addormentati nelle tenebre, ma “vigili e sobri” nella luce.

Questa prima Domenica di Avvento, che ogni anno segna per i Cristiani l’inizio dell’Attesa del Signore, intende essere la ricorrenza solenne della grande svolta del destino dell’uomo, che, da ora in poi, non può più dire:  ”io non c’ero”, “io non ne sapevo niente”. Ma sia il credente sia miscredente non possono rinunziare alla “Speranza”, che è la dimensione più razionale e umana che si dispiega nell’attesa dei grandi e piccoli Eventi.  

 

  

 

 

 

 
 
 
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