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UNIONI CIVILI, FAMIGLIE "ARCOBALENO" E DIRITTI NATURALI (2)

Post n°71 pubblicato il 10 Maggio 2016 da giulio.stilla

 

UNIONI CIVILI, FAMIGLIE “ARCOBALENO” E DIRITTI NATURALI     (2)

 

E’ stata riporta, in precedenza, l’accorata Preghiera al Dio di tutti i tempi, che anticipa, per tanti aspetti, l’avvento del Cristianesimo e che come il Cristianesimo esprime il dramma dolente dell’uomo sub specie aeternitatis.

…….né per gli uomini è più grande privilegio
né per gli déi, di cantare per sempre, nella giustizia, la legge universale.”

E’ l’accorata Preghiera che confessa l’urgenza, oggi più che mai straziante, di implorare la Pietas, la Misericordia del Signore della Croce, per varcare i confini del Male ed affermare la legge universale della Giustizia e la Libertà dalla ignoranza, radice di tutte le ignominie e le malvagità della condizione umana.  

Anche Cleante ricorre al notissimo concetto socratico della ignoranza come causa di tutti i mali e di tutte le nefande  ingiustizie.

 “Salva -  o Padre - gli uomini dalla loro funesta ignoranza;”

E’ l’accorato grido, orante e gemente, di chi ricorre al Dio della Caritas per non soccombere sotto il giogo della non speranza.

Fra i discepoli di Cleante la Storia della Filosofia annovera la singolare figura di Crisippo di Soli, città della Turchia mediterranea.

Filosofo e matematico, fu autore di una vasta produzione letteraria, andata quasi tutta perduta. Si distinse, in particolare, per i suoi studi di logica. Alla sua meditazione è legata la “metafora del cane”, costretto a correre dietro il carro, al quale è legato da un destino ineluttabile.

L’uomo, come il cane, è costretto a seguire la volontà del fato, o assecondando la sua andatura per vivere più agevolmente la propria esistenza o resistendole senza per questo migliorare la sua sorte, perché sarebbe trascinato comunque fra mille sevizie e tormenti. Non resta, quindi, che lasciarsi condurre dal carro, cioè, fuor di metafora, dall’Amor Fati, dal Logos, che governa saggiamente l’armonia del Cosmo, piuttosto che opporgli una inutile resistenza, manifestazione di impotenza, rivelazione di stupidità, esercizio di ignoranza sulla sorte degli uomini.

Sarebbe questa la scelta prospettata dallo stoico Crisippo per conciliare la inevitabilità del fato con la libertà dell’uomo.

A questa preghiera si ispira con maggiore maturità stoica Lucio Anneo Seneca, che, dopo l’uscita dalla vita politica, si ritira a vita privata, consegnandosi all”0tium”, alla riflessione filosofica su tematiche di natura etico-esistenziale e alla composizione delle sue opere, fra cui  Epistulae morales ad Lucilium”, 124 Lettere morali a Lucilio, discepolo e grande amico.

Dopo essere stato coinvolto nella Congiura dei Pisoni, ordita contro Nerone, Seneca muore suicida nel 65 d.C., in fedele coerenza con i dettami della sua filosofia, che gli suggerivano la “razionalità” imperturbabile di togliersi la vita, quando questa fosse riuscita insopportabile per se stesso e per gli altri, in particolare, per Nerone, a cui, come racconta Tacito, “non gli rimaneva ormai più, dopo aver ucciso madre e fratello, che aggiungere l’assassinio del suo educatore e maestro.” (Tacito, Annales, 62).

Il suo “Stoicismo” vuole essere, però, più mite, meno rigoroso di quello adombrato nella “metafora del cane” di Crisippo di Soli. Non più una passiva accettazione dell’Amor Fati, ma una sorta di conciliazione tra il fatalismo assoluto dell’antica “Stoà” greca e la libertà dell’uomo, tanto che per amore di questa, come Catone Uticense – uomo politico al tempo del Primo Triumvirato tra Pompeo, Crasso e Cesare e seguace intransigente delle virtù stoiche -  non esiterà a darsi la morte nello stesso anno della Congiura dei pisoniani.

Molto è stato scritto ed investigato sui possibili rapporti tra Seneca e il Cristianesimo. Ma, in conclusione, sia da parte degli Storici latini, come Tacito e Svetonio, sia da parte dei Padri apologisti della Chiesa, non è stato mai rinvenuta alcuna circostanza o testimonianza, che possa far pensare ad una interrelazione o  influenza della religione di Cristo sulla vita e sul pensiero del filosofo di Cordova. Fu per molto tempo desiderio del Medioevo voler trovare connessioni probabili ma non provate tra la dottrina stoica di Seneca e la chiesa del I secolo d. C.

In particolare, si può riportare, insieme ad altre citazioni, il convincimento di Lattanzio, che ebbe modo di esprimere una lusinghiera vicinanza tra la concezione di Dio di Seneca e quella Cristiana. (Cfr.: Divinae  Institutiones(II,8,23;VI,24,13)., tra il Logos di Seneca e la “Razionalità” del Dio cristiano.  Ma nulla di più.

Come pure, da parte degli scrittori latini nulla fu mai concesso per avvicinare la filosofia di Seneca alla Religione di Cristo. Tacito negli Annales XV, 44, quando vuole alludere alla religione dei Cristiani, parla di una “exitialis  superstitio”.

Non è stata mai provata, inoltre, una ipotizzata e sempre vagheggiata amicizia tra San Paolo e Seneca, che, dotato di una cultura vastissima, avrà, di certo, sentito parlare di questa nuova religione, il cui Vangelo predicava, con altre finalità, molti temi dalla dottrina etico-esistenziale del filosofo.

Basti considerare come Seneca non potesse sopportare la realtà dei suoi tempi che davano per naturale e legale la pratica della schiavitù, avendo modo di affermare ogni qual volta la circostanza lo richiedesse che tutti gli uomini sono stati creati da un unico Dio, senza differenza di razza, di condizione sociale, di nazionalità, ecc.

La condizione del “servus” era esecrabile per il filosofo, perché violava la dignità dell’uomo ed offendeva la creazione: tutti gli uomini sono fratelli, figli dell’unico Padre Celeste.

Ma al di là di questa particolare sensibilità di Seneca per gli ultimi, per gli emarginati, per gli schiavi, nel contesto della Roma imperiale del I° secolo d.C., non è assolutamente proponibile un accostamento ulteriore della filosofia di Seneca alla Religione di Cristo.

La filosofia di Seneca è una filosofia, una riflessione, cioè, sulla esistenza, alla luce del logos, che esclude dalle sue analisi l’assurdo, il mistero, la fede, implicando la consequenzialità del conoscere e dell’agire, dell’attività teoretica e di quella pratica.

La religione di Cristo, invece, prima di essere Logos, Verbum, è soprattutto Amore, Caritas, Misericordia, che supera la logica degli uomini e si rivela come Mistero, Assurdità, Sacrificio del Divino, Perdono e Fede.   

Il tema del suicidio, extrema ratio per Seneca e gli Stoici, è un gravissimo atto contro la Creazione per il Cristianesimo.

Assurdità è la crocifissione di Dio per gli Stoici, per il Cristiano è l’estremo sacrificio del Figlio di Dio per la redenzione dell’Umanità.

Visione ciclica del tempo, all’interno del quale, per lo stoico Seneca, si succedono e si ripetono gli eventi della storia; concezione rettilinea e finalistica per il Cristianesimo, per il quale l’uomo, in particolare, è destinato ad un fine ultimo secondo i piani provvidenziali del Dio dell’Amore.

In verità, anche per Seneca la storia è dominata e governata dal Logos, dal Destino, che non è il Caso, ma un ordine prestabilito e provvidenziale. Bisogna condurre la propria esistenza in modo conforme alle leggi di natura, che sono emanazioni, come scrive Diogene Laerzio, in “Vite e dottrine dei filosofi”, VII, 88, della “retta ragione diffusa per tutto l’l’universo ed identica anche a Zeus, guida e capo dell’universo”.

Ma al di là di questi parallelismi e differenze di fondo tra una filosofia ed una religione, Seneca rivendica per sé il diritto fondamentale alla propria libertà personale, in un gesto di rivolta prometeica come il suicidio contro l’imponderabile, soprattutto quando non puoi cambiare il corso degli eventi.

Sembrerebbe che la libertà di darsi spontaneamente la morte stride in contraddizione con quello che il filosofo afferma nei Libri XVII-XVIII delle sue Epistole a Lucilio, in linea con lo stoicismo greco di Cleante:

“La miglior cosa è sopportare ciò che non puoi correggere ed adattarti alla volontà divina, da cui tutto procede, senza mormorare: è un cattivo soldato chi segue il generale lamentandosi…… e rivolgiamoci a Giove, dal cui governo dipende l’andamento dell’universo, come il nostro Cleante gli si rivolge in versi eloquentissimi, che io mi permetto di volgere nella nostra lingua, seguendo l’esempio di Cicerone, uomo eloquentissimo….

Duc, o parens celsique dominator poli.

Quocumque placuit: nulla parendi mora est;

adsum inpinger. Fac nolle ,comitabor gemens

malusque patiar facere quod licuit bono.

Ducunt volentem fata, nolentem trahunt”

 

“Conducimi, o padre e signore dell’alto cielo,

dovunque vuoi: sono pronto ad obbedire;

eccomi pieno di slancio. Supponi che io sia contrario,

seguirò la tua volontà lagnandomi

e con l’animo avverso subirò ciò che avrei potuto fare di buon animo.

Chi segue i fati lo conducono, chi recalcitra lo trascinano”.

(Seneca, Epistulae morales ad Lucilium, Libri XVII / XVIII, pp. 850, 851, 852, 853, trad. a cura di Umberto Boella, UTET, Torino.).

E’ la professione di fede di tutti i Saggi dello Stoicismo nel “Logos”, nella Razionalità del Tutto, nell’Amor Fati, che non è una passiva accettazione degli eventi e non è in contraddizione con la libertà personale che il Filosofo rivendica per sé con l’estremo gesto del suicidio, quando questa è messa in pericolo dal tiranno Nerone, così come il nobile ed incorruttibile Catone si toglie la vita in Utica, nel 46 a.C., per non cadere nella prigionia di Cesare.

Dante celebra l’estremo sacrificio di Catone per amore della libertà nel Primo Canto del Purgatorio, con le famose due terzine che di seguito amo ricordare, allorquando Virgilio, allegoricamente inteso come la Saggezza, la Ragione umana, prega il vegliardo, dalla “lunga barba e di pelo bianco mista”, che sta a guardia  del secondo regno oltremondano, di lasciar passare il sommo poeta , perché anche questi cerca la libertà da una vita traviata:

 

“Or ti piaccia gradir la sua venuta:

libertà va cercando, ch’è sì cara,

come sa chi per lei vita rifiuta.

Tu ’l sai, ché non ti fu per lei amara

in Utica la morte, ove lasciasti

la vesta ch’al gran dì sarà sì chiara.” (Purgatorio, Canto I°,vv.70-75).

(Continua)

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