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LAPIS - Una recensione amica - di "Stefano"

Post n°22 pubblicato il 16 Maggio 2012 da graphitis

La recensione
di *stefano*
Lapis
Il centro gravitazionale di questo libro è il lago che influenza eventi e personaggi vicini e lontani. La sua atmosfera, i suoi misteri pacati penetrano nei personaggi e raggiungono il lettore attraverso le descrizioni e i dialoghi. Il libro presenta una copertina pertinente e ben fatta anche se realizzata con criteri compositivi classici. L’immagine, una traccia nella sabbia che forma la parola lapis, porta subito indietro nel tempo quando, a differenza di oggi, era una parola di uso comune. E’ proprio il sentore del passato non visibile che pervade la storia attuale narrata dandole un sapore tiepido e piacevole. Citazioni colte, pertinenti e ben innescate compaiono a tratti definendo bene il contesto in cui sono inserite. Angelo e Marco, i due personaggi principali, non hanno volto e contemporaneamente il volto di tutti. I volti delle donne di fiume e di lago, i volti degli uomini delle sponde di acqua dolce, i volti dei pescatori. Gli eventi odierni descritti sono un pretesto per creare uno sfondo, un riferimento storico a quella che è una trattazione di alcuni aspetti importanti della vita. Uno stile fresco, ordinato, asciutto aiuta il lettore a riflettere insieme ai personaggi, a rilassarsi e godere di alcune splendide descrizioni. Letteratura di alto livello che prende subito le distanze da quel mare di parole confuse e aggrovigliate che spesso imbottigliano come libro.  
Grazie, Stefano! Vorrei precisare che "lapis", parola che solo gli insegnanti degli insegnanti usavano, originariamente vuol dire "pietra" e, per la trasformazione in volgare con scelta dell'ablativo, porta a "lapide". Insomma, questo è un dialogo platonico in sedicesimo su amore e morte. Per l'immagine unificante del lago, vi invito a dare uno sguardo al video < Gabriella Zevi, "lago di bolsena, conzone stregata"> 
graphitis

 
 
 

LAPIS - parte seconda.

Post n°21 pubblicato il 06 Maggio 2012 da graphitis

LAPIS -Il dilemma di Antigone

Racconto a puntate  - Cercare nel blog le puntate precedenti
2. Puntata 

ANTIGONE

 

 

 

Angelo – ma il suo nome si perdeva nelle pieghe del tempo – attese ancora un giorno; tornò, ora che il vento era mutato, sulla riva, se mai le onde avessero riportato una tavola, un segno. Poi spinse in acqua la piroga finemente scavata e vi saltò dentro leggera, bilanciandosi sulla falcata a muovere i remi con gesti ellittici, mentre l’acqua s’increspava sulla fiancata a manca come un saluto. Puntò dritto verso l’isola, come la barca del pescatore aveva dovuto fare, in balia della tramontana - e non valeva bordeggiare, combattere: una forza immane la trascinava sulle rocce dove nidificano i cormorani. Il lago appariva innocente, ora, appena solcato da correnti come pennellate trasversali. Angelo aveva superato la linea mediana che mai il suo popolo osava sorpassare; oltre vivevano gli altri: ancora non si conosceva la parola “nemico”. Era l’alba. Non c’era nebbia sul lago, ma l’umidità dava alle forme una dolcezza sonnolenta. Angelo contava di raggiungere l’isola prima che il sole sorgesse dalle colline boscose, dietro il suo villaggio. Non temeva d’esser vista, rimanendo a ridosso dell’isola; eppure, per una certa ansia o prudenza, affrettò la remata. La videro, invece, che era già vicina, e una frotta di maschi mugolò perché aveva notato le sue forme. Ora la barca e l’agile corpo si stagliavano contro il sole nascente, spezzando il barbaglio di luce. I maschi corsero sulla spiaggia per vederla di traverso, prima che l’isola la nascondesse. Angelo non aveva più dubbi, ora che, conficcate tra gli scogli, aveva scorto schegge modellate. Ancorò con un sasso la piroga sotto la roccia ferrigna, perché non c’era spiaggia, e saltò in acqua dove uno stormo di gabbiani più si accaniva. Fu così che vide il cadavere, in alto tra gli scogli, come se fin lì il pescatore si fosse arrampicato per salvarsi o come se lassù l’avesse gettato un ultimo frangente. Si arrampicò – e i maschi sulla spiaggia non lontana uggiolavano – lottò a lungo, perché il peso del corpo era enorme e le membra già si sconnettevano per gli insulti della burrasca. Fu una lotta immane; e qualcuno pensò che la si poteva sorprendere così, se avessero messo in acqua una barca.

“Ragazzacci!” – gridò la donna; ma in verità non era adusa ad alzar la voce - e tutti si dispersero brontolando. Lei aveva visto Angelo; ora i suoi sforzi le erano chiari, perché si trascinava un corpo e cercava d’issarlo sulla piroga. Per un momento la vide accasciarsi nell’acqua e già si moveva a soccorrerla. Angelo si riprese; vide la donna dalla lunga veste, sul petto un amuleto. Portò la mano al suo. L’altra levò un braccio. Angelo rispose; poi volse la prua verso il Gran Carro. (*2)

 

       “È una missione”. Ogni fatica riposava sulla consapevolezza di un compito sacro, e qualcosa di sacrale era nella sua persona. Marco doveva contraddirla.

“Se io dovessi morire in mare, dove i pesci – non solo i pescecani, ma anche i più piccoli – si ciberebbero di me, o in un deserto dove i coyote e gli avvoltoi banchetterebbero una volta tanto, non vorrei che tu mi riportassi in questa giungla di convenzioni. È mio diritto, non solo morire, ma decompormi in armonia con la natura”. Angelo rimase silenziosa; alzava le difese delle convinzioni da cui ricavava la sua forza. “Vedi, da ragazzo salivo spesso sull’Etna e mi sorprendevo a pensare che sarebbe stato bello cadere nel cratere. Quale cremazione sarebbe più grandiosa, quale trasformazione nei primi elementi più rapida? E poi, dicevo, avrò un monumento di tremila metri. Empedocle, forse, con gli stessi sentimenti andò incontro al vulcano”. Angelo taceva; ma Marco era nel gorgo dei pensieri e non poteva interrompersi. “Forse dovresti aiutare anche chi ha il mio punto di vista. La famiglia non è tutto: ogni uomo appartiene a se stesso”.

“In Svizzera ci sono organizzazioni che aiutano a morire”.

“Lo so.” Pensava a Lucio, il bel Lucio. Rideva un po’ del suo fascino; seguiva, ma critico, i suoi percorsi. Poi apprese della sua scelta, del commiato. Gli parve un po’ borghese, ma non osò parlarne. Come i viaggi organizzati, le crociere: “Una vacanza di sogno ad un prezzo eccezionale!”  Come macabra la pubblicità che nessuno aveva il buon gusto di ritirare, le rutilanti navi che inesorabilmente rimandavano al relitto spiaggiato davanti all’isola esclusiva! “Non a queste fasulle uscite di scena, pensavo. Mi chiedo se invece tu, come angelo, non potresti essere la guida di un viaggio oltre ogni umana avventura”.

“E che senso avrebbe la mia presenza? Quel viaggio si affronta da soli”.

“Sai il mito di Persefone? Tu conosci le vie dell’Ade. Vai a strapparne le vittime fin sulla soglia, perché i vivi abbiano pace. E se indicassi il percorso a chi definitivamente cerca la pace? Vedi, non è l’assenza di dolore o il conforto che nell’ultimo viaggio si cerca, ma la verità”.

“Non è il mio compito” – disse Angelo dopo un lungo silenzio.

“Non può essere un compito” – rispose Marco. “Potrebbe essere una ricerca, un’esplorazione. Tu non sai ancora fin dove le tue ali ti portano”.

 

Marco da un po’ aveva strani pensieri; strani, se si pensa alla sua reazione quando vedeva giovani appena usciti dall’adolescenza scherzare con la morte. Scherzare? Era un gioco ben tragico, come si potrebbe dire della roulette russa. Anzi, quello, un gioco sconsiderato, questa, un’ipoteca, un patto – come piacciono ai ragazzi i patti di sangue! Rosa, ad esempio, che portava al collo un piccolo Buddha d’argento.

“Che bell’amuleto! Che cos’è?”

“È… Si apre, vedi? E dentro c’è un’ampolla”. E, poiché gli occhi di Marco l’interrogavano preoccupati: “La porto sempre con me: c’è un potente veleno”.

“Chi te l’ha dato?” – avrebbe voluto gridare Marco. Chiese, invece: “Non ti fa triste?”

“No, perché?” Marco non seppe mai se l’amuleto fosse vuoto; non volle scoprire i suoi dubbi. Pensò che quella ragazza sul ciglio del vento credeva di avere ali per spiccare il volo quando voleva.

O quando parlavano di droghe con leggerezza: “Mi piace provare”. Provare che cosa? Provare a demolire un pezzo di te per vedere se funziona ancora? Strapperesti un’ala ad un uccello per provare se vola ancora?

I ragazzi parlano di morte come per gioco, e più ne sognano quanto più sono abbagliati dalla vita; ma il suicidio è stanchezza mortale, non torpore di primavera. Alda Merini ne rimase atterrita. Quando quasi stavo per morire, mi si aprì davanti una visione terrificante: vidi l’Inferno e fu talmente orribile che mi vestii in fretta e dissi a mio marito: “Sono pronta per il manicomio, qualunque cosa mi succeda non tenterò più di suicidarmi” (*3).

 

“La mia amica Lavinia ha sognato che eravamo sulla nave a prendere il sole. Ad un tratto mi ha visto correre, l’accappatoio svolazzante, verso il parapetto e scavalcarlo d’un balzo. Non ho osato dirle che proprio questo, qualche volta, immagino”.

“Eppure sembri un uomo che gusta la vita”.

“Gusto anche il vino, ma so quando fermarmi”. 

 

“Da ragazzo sono stato in collegio. Una volta al mese ci facevano fare “l’esercizio di buona morte”. Si fermava la scuola, il chiasso del cortile; due e tre volte in chiesa a sentire prediche orripilanti. Poi le invocazioni: Quando i miei piedi immobili mi avvertiranno che il mio cammino in questo mondo sta per finire, misericordioso Gesù abbiate pietà di me! E così di seguito in un elenco di sintomi del lento spegnersi di un vegliardo circondato da figli e nipoti. Allora non si conoscevano pallottole vaganti o motociclette che abbattono urlando il guardrail. Per questi casi si usava il termine subitanea ed improvvisa morte, considerata come la cosa più orrenda. Perché non lasciava il tempo di confessarsi, salvarsi per una lacrimetta (*4) mentre si andava in giro rotolandosi nei peccati. Ma tu di una morte così che ne pensi?”

“Direi: Sorpresa! E sono in mezzo al party”.

“Vedi? È quello che penso anch’io”.

“Ma di metter prima le cose in ordine non mi dispiacerebbe”.

“Sai, a volte mi sorprendo a chiedermi: come sto per l’ultimo incontro?”

“Quando succede, non hai tempo per pensarci. Gli altri, sì, ci pensano: Gli metta la maglietta della Roma, era un tifoso!”

 

“Tu li riporti in patria”.

“Sì”.

“Sto pensando ad Arafat. Lui non è potuto tornare. Ma è sepolto nella sua terra: qualche quintale di terra. È questo che voleva?”

“Anche questo ha un senso. Simbolico. Tutte le tombe sono un simbolo”.

“Certo: la colonna spezzata, la donna piangente, l’angelo…”

“Non solo. Pensa alle tombe preistoriche, ai tumuli. A me ricordano un ventre gravido. A volte penso che io li metto a dimora come alberi, li riporto nel ventre materno, dal quale rinasceranno”.

“Vorrei capire se è l’idea dell’aldilà che produce il culto dei morti o l’amore oltre la morte che immagina l’aldilà”.

“L’aldilà non è immaginario: esiste”.

“Come puoi asserirlo?”

“Asserirlo, hai detto bene. Non dimostrarlo, ma affermarlo. Tutta l’umanità ne è convinta, in ogni tempo”.

“Ti pare un argomento? Non sarà una proiezione collettiva?”

“A questi livelli, ci sono forze sufficienti per creare una realtà”.

“Interessante!”

“Perché non l’hai considerato abbastanza. Forse ora, se saranno numerosi quelli come te, che non credono più alla continuità della specie, alla vita oltre la morte, anche l’Aldilà potrà scomparire nelle nebbie d’Averno. Ma se tutti o i più, molti o solo alcuni, credono ad un mondo oltre questo mondo, allora questo mondo c’è”.

“Soggettivismo, ontologizzazione”.

“Scendi nelle tombe – qui camminiamo sulle tombe, ignote o violate e depredate; qui non c’è adulto che non sia stato tombarolo: si favoleggia di chiocce e pulcini d’oro – scendi nelle tombe e te ne convincerai”.

“Non oserò disturbare i fantasmi. Del resto anch’io da ragazzo sognavo con Orazio un monumento più duraturo del bronzo. La poesia, sì. Supposto che ci sia qualcuno capace di gustarla”.

“Io dico una tomba reale. Ti sei chiesto perché la gente è disposta ad impiegare tutti i suoi risparmi in una tomba di famiglia?”

“Un amico mi raccontava di una povera donna che viveva di stenti e alla fine, per suo interessamento, ha ricevuto una pensione; con gli arretrati: un mucchio di soldi. ‘Pensare che se ne poteva veder bene, poverina, per i giorni che le rimanevano’. E che ne ha fatto? Glielo chiese, e lei, tutta raggiante: ‘Mi sono comprata la tomba!”

“Vedi? Allora?”

“Che sarebbe pensier non troppo accorto – perder due vivi per salvare un morto”.

“Che cos’è?”

“L’arguzia di Ludovico Ariosto, la sua versione della vicenda di Eurialo e Niso”.

Se non sbaglio, i due amici volevano recuperare il cadavere di un cavaliere”.

“È così: Cloridano e Medoro si gettano nella mischia, affrontando la morte, ma per salvare un morto, per dargli onorata sepoltura”.

“Potrebbe essere il mio modello”.

Oh gran bontà dei cavalieri antiqui!”

“Ancora?”

“Sì, credo che i tuoi criteri appartengano ad un mondo scomparso”.

 

 

(Continua)

 

 
 
 

IL LAPIS HA COLPITO ANCORA

Post n°20 pubblicato il 30 Aprile 2012 da graphitis

Care Amiche e Amici,

la "grafite", frenesia dello scrivere, mi ha colpito ancora, portandomi a trascurare questo blog. Riprendo ora a farne spazio di diffusione informale dei miei ultimi scritti, per chi non ha modo di leggerli altrimenti.

Qui il mio ultimo, appena dato alle stampe: LAPIS, un dialogo "platonico" in sedicesimo.

Buona lettura!

graphitis

 

LAPIS - Il dilemma di Antigone

Oddiu, s’avissi un labbisu,
sapissi la scrittura…

ANGELO

  

 Camminava a piedi nudi sul sentiero parallelo alla spiaggia, dalla sabbia fine e dura, più compatta dell’asfalto della stradina che lo prolungava, frantumata in cento crepe e fossette che le prime acque scavavano e il sole implacabile slabbrava. Sarebbe stato meglio abbandonare la strada al suo destino, dando alle buche il compito dei cordoli artificiali, di rallentare la corsa delle automobili per la tranquillità di campeggiatori e bagnanti, non fosse per la polvere lavica che, appena più distanti dal lago, si levava pesante e corrosiva.  Ai bordi del sentiero, da un lato i canneti e la breve spiaggia, dall’altra, recinzioni in rete metallica e cancelli, ognuno con la sua età e colore. Appena più in là il lago sciabordava pigro, contagiando d’indolenza i pochi bagnanti.

Angelo andava elastica e voluttuosa; accanto a lei un bell’uomo come scolpito nell’ulivo, le fattezze di un pescatore senza tempo. Si fermarono a salutare il nuovo venuto, perché erano amici.

“Mi accompagni?” – chiese Angelo quando furono soli. Lui era sceso a riprovare il tramonto, rubare al lago vibrazioni di luce, gorgheggi agli usignoli; ma far due passi con lei fino al cancello di legno, fino alla capanna era tutto questo insieme. 

“Da quando sei qui?” – chiese mentre percorrevano la striscia di prato inselvatichito – una volta era il padre a badarci o uno zio, un amico; ora qualcuno aveva frettolosamente sfrondato le erbacce, perché Angelo sarebbe venuta e amava la capanna a due passi dal lago. Certamente era quella semplicità selvaggia, agli antipodi della città dove viveva, che l’attirava, insieme ai sogni di ragazza e alle speranze di donna. Non si capiva se Angelo vivesse meglio nella città iperattiva o in quell’angolo silente; forse poteva lavorare freneticamente perché di tanto in tanto, non appena possibile, si scioglieva nell’immobilità senza tempo, in riva al lago d’acciaio.

Il sole era tramontato, gli usignoli cantavano ad uso esclusivo dei loro simili e lei ripercorreva, sorseggiando il tè, un disegno a due mani, un dialogo di segni e chimere.

“Credi che avremo un futuro?”

 

Quel giorno, della presenza di lei aveva avuto una premonizione fugace, non così intensa come nei giorni passati quando aveva sostato ad osservare il cancello in legno sbilenco, la porta della capanna chiusa. Si era chiesto, allora, se ancora non sentiva nostalgia, e si era meravigliato dell’intensità dei suoi pensieri. Da troppi mesi era mancata. L’ultima volta l’aveva vista contro i canneti, nell’insenatura dopo il ruscello, i lineamenti un po’ induriti dalla tramontana, dal sole basso sull’orizzonte. Taceva e suggeva il mistero dell’ora. Angelo, pensava, aveva fame di silenzi, di pensieri prima che di parole: quelle che ogni giorno spendeva, al telefono, per internet, erano di lucido metallo, denti d’ingranaggi vorticanti in ogni angolo del mondo perché tutto funzionasse, a partire dall’impossibile, a concludersi nel compianto. Angelo era la formula risolutiva di un problema, il collante di mille imponderabili lontani tra loro. Raccogliere, collegare, organizzare. Certamente occorreva denaro: senza il denaro, tutto sarebbe rimasto nel limbo del desiderio, nel grembo del destino; tanto denaro, eppure non più del necessario, rapportato ad ogni situazione e necessità. Che un ragazzo cadesse in un crepaccio durante una scalata sull’Himalaia o affogasse in una grotta cubana, per Angelo valeva il desiderio della famiglia di averne il corpo e la capacità economica di soddisfarlo. Se questi due elementi coincidevano, iniziava il suo compito organizzativo. Non che Angelo si occupasse solo di cadaveri, anche il recupero di feriti rientrava nelle sue competenze: solo che i feriti spesso possono aiutarsi da soli e raccolgono la solidarietà delle istituzioni. Così i defunti rientravano nella sua competenza specifica: per la loro sopravvivenza emotiva, anche dopo la morte. L’ultimo incontro, il quietarsi del dolore in seno alla famiglia, era per Angelo come per l’artista lo sguardo ad occhi socchiusi sulla sua Pietà, l’appagamento che trascende il guadagno.

 

Colse la vibrazione del telefonino nella tasca. Lesse il messaggio, una notizia insolita, perché mai dall’ufficio l’avrebbero disturbata in vacanza. Richiuse l’apparecchio, ma rimaneva pensierosa. “Scusami” – disse. “Deve essere urgente”. Chiamò.

“Angelo, non volevo disturbarla. La disturbo?”

“No, mi dica”. Era il principale.

“In casi normali non avrei turbato le sue vacanze; ma mi son detto che forse le circostanze potrebbero essere propizie, mentre in futuro non sappiamo”. Angelo taceva. Il capo continuò un po’ a disagio. “Sa, l’Armonia?”

“La nave?” – chiese Angelo.

“Sì. Se non sbaglio, è ancora arenata, non lontano da lei. C’è la richiesta di un cliente. La figlia dovrebbe essere su quella nave, e di lei si sono perse le tracce”.

“Non hanno fatto ricerche tramite la capitaneria?” – si meravigliò Angelo che da quando era a Volsinia aveva seguito le notizie del disastro, avvenuto la notte precedente al suo arrivo.

“Non vogliono rendere pubblica la notizia”. Dunque si temeva uno scandalo.

“Così dovremo agire in segretezza. Ma vuol dire interessarsi ad ogni superstite o vittima del naufragio”.

“Inizialmente, sì. Potrebbe far qualcosa?”

“Lei sa che di questa vacanza ho bisogno” – rispose Angelo dopo un lungo silenzio. L’ultimo impegno l’aveva portata ai limiti della resistenza.

“Lo so. Ma non le chiedo d’interessarsene a tempo pieno. Basta che segua la cosa senza trascurare le vacanze, per il tempo che le sarà necessario”.  Angelo ponderò le sue energie. Poi rispose di sì. “Le manderò le informazioni per e-mail” – concluse frettolosamente l’imprenditore. “Grazie!” – aggiunse poi come se le firmasse un assegno in bianco.

 

 

Angelo era riuscita a circoscrivere l’inatteso impegno, relegandolo al giorno seguente. Ora voleva godersi la sera. Ma appena rincasata, quando le pareti di casa - una casa abitata di rado, intrisa di solitudine – non le diedero più l’usata serenità, aprì di malavoglia il laptop. Meglio ora che più tardi, meglio subito che stanotte! E ritrovò l’elasticità abituale.

Il materiale fotografico dell’Armonia era pressocché infinito. Forse avrebbe dovuto catalogare le immagini tra quelle dei media ufficiali e quelle della rete. La interessavano le riprese all’interno della nave e quelle da sottobordo anche se amatoriali. Tutti cercavano le vittime, dando alla ricerca priorità assoluta. Ma aveva senso? La nave si era distesa su un fianco e scivolava sulla scogliera, inizialmente di qualche millimetro al giorno, poi più velocemente, perché il mare ingrossava. Nel gran ventre, intanto, marcivano cadaveri e generi alimentari, colavano acidi, oli, detersivi. Confrontando le prime immagini con le più recenti, Angelo aveva le sensazione di un mutamento visibile: il mare lentamente inghiottiva il gigante ferito, anche se il capitano – ma era vero? – diceva d’averla portata ad incagliarsi sugli scogli per limitare il disastro.

Si era stesa sul letto, ma non riusciva a staccarsi da quelle visioni: molto meno si era soffermata sulle scialuppe calate troppo tardi, sul disperato abbandono degli ultimi passeggeri in bilico sulle costole della nave, su quella geometria assurda che faceva delle pareti pavimento e del pavimento insormontabile murata. Stesa sul letto: se fosse stata in una cabina bloccata dall’acqua che inesorabilmente l’invade! Non era stata mai in crociera: non era il genere di vacanze che preferiva; ma per motivi di lavoro, anche se raramente, aveva affrontato viaggi per mare. In navigazione, andava incontro a mille ritardi; ma almeno poteva raccogliere conoscenze ed esperienze, capire la gente di mare come a Volsinia cercava di capire i pescatori del lago.

Silvano, ad esempio, dalla capanna non lontana dalla sua, rabberciata proprio sulla riva, difesa con mille espedienti contro le mareggiate: cucine, frigoriferi interrati, palizzate, inferriate, tronchi e sassi a formare un molo al cui riparo dormiva la barca più bella del lago.  E, ai margini, cespi di mentuccia che danno sapore al pesce.  Silvano, con i gatti dolci e selvaggi che lo amano, che con ogni tempo, non ostante l’età avanzata, getta le reti dove solo lui sa, in pesca solitaria, sulla barca villanoviana dal ventre piatto, i remi sfalsati, eppure con un entro-fuoribordo ormai d’obbligo per ragioni di sicurezza - ma non basterebbe se la tramontana precipitasse dai monti, increspando appena e sospingendo l’acqua a settentrione per scaraventarla urlando a mezzogiorno. Messaggio di morte, la tramontana, se ti sorprende al largo, da non ignorare neanche quando si veste di brezza! Angelo amava la brezza che inganna il sole rovente dell’estate. La sua barca, una tavola da surf: distesa, remigava con le mani fino al largo; poi si rigirava sul dorso, donandosi al sole. Forse passava una barca di pescatori; ma l’avevano vista bambina e poi crescere un po’ selvaggia: nessuno l’avrebbe infastidita e lei non era un avannotto da pescare con reti sottili, piuttosto uno di quei pesci di scoglio che tra le pinne nascondono l’aculeo.


 
 
 

LA BALLATA DI RECULO

Post n°19 pubblicato il 07 Ottobre 2010 da graphitis
 

LA BALLATA DI RECULO

  

 

Mosca giuliva che nei cieli ronzi

cantami il sommo artefice di stronzi

che dal Re Mida trasse ispirazione

e glorioso regge la nazione
perché nel gaudio della plebe sciocca

trasforma in merda tutto quel che tocca.

 

Venga Mercurio dall’alato piede
Giove tonante che sui nembi siede;

Venere venga splendida divina
appena assunta al ruolo di velina.

Vengan gli dei d’Olimpo e dell’Inferno.

Cedano al grande Culo ogni governo!

 

Porti Tarquinio Massima Cloaca
Tevere ingorghi quanto Roma caca
sprizzino vacche e porci merda e guano
sì che sprofondi il suolo italiano.
Io dico il vero, lodo e non adulo:

cos’è mai questo a petto del gran Culo?


Quali dall’Alpi al mare alla Sicilia
gettan le fogne nuove mirabilia!

Non più nei templi augusti del denaro
riversa il flusso del lavoro amaro
la torma dei terrun, ma nelle tasche
di chi profitta delle leggi lasche.

 

Sed non olet pecunia, non c’è mosca
che posi sopra il pizzo di una cosca,

perché per vie segrete defluisce
il soldo insanguinato, poi finisce
dove soffuso d’opera e decoro
l’attende il cavaliere del lavoro.

 

Qual rota di molin che mai non posa
e triturando va qualunque cosa,
rimuginando andava il cavaliere
progetti arditi per il suo forziere
ohimè raschiato da precorse imprese
minato da cambiali a fine mese.

 

A quali dei votarsi, a quale banca?

chiede il tapino dalla mente stanca.

E corre, va sul mar da menestrello
buscando qualche magro soldarello.

O sorte amara! Addio sogni di gloria!

Questo riservi all’uomo della storia?

 

Così pensava ed era l’onda fosca.

È cotto! – disse l’uomo della cosca.
Poi l’abbordò e lì, tra cielo e mare,

gli disse: “Amico, prendere o lasciare”.

E per dare all’invito più chiarezza
mimava di rasoio una carezza.

 

“Tu ci hai la stoffa del capobastone;
ma ti serve una buona protezione.
Perciò tu ci organizzi il terminale
e noi ci mettiamo il capitale.
Insomma, il palco è tuo, fa quel che vuoi;

ma ricorda: tu reciti per noi”.

 

Or qui si vede di che pasta è fatto
colui che firma il provvido contratto!

Sorgon dal nulla, a dieci, a mille a cento

palazzi e ville, torri di cemento.

Se mancano i progetti, poco male:

perché lui sa quanto l’unzione vale.

 

Quale moderna torre di Babele
fonda nell’aere un imperio tele
compra giornali, editrici e banche
castelli e ville per le membra stanche

Scortato poi da facili  ragazze
marcia su Roma e vince. Cose ‘e pazze!

In pochi giorni annette la Sicilia
dove mafia e politica concilia
compra il lombardo ed il napoletano
impunità promette a tutto spiano.

Come valanga la masnada ingrossa,
ammainata va bandiera rossa.

 

Italia che piantasti lo stivale
in testa al nero serpe, or che vale?

Ohimè! Ludibrio agli uomini e alle donne
infino all’Alpe levi le tue gonne
intenta all’arte che tacere è bello,

non donna di province, ma bordello.

 

Ma voi che osate, rossi magistrati,
levare in coro inutili latrati
a lui che sorge libero e giocondo,

tornate al vostro tenebroso mondo
d’offa satolli, oppure si convene
che provi il vostro collo le catene.

 

Cosa gli manca ormai? Persin gli dei,

i sacerdoti con i farisei

benedicenti a lui plaudon che torna:

e lui ricambia al segno delle corna.

Roma non più ladrona sia chiamata

ora che il sommo ladro l’ha impalmata.

 

Oh te felice! Quale dei mortali
fin su l’eccelse sfere stese l’ali

dalle stalle dar core al parlamento
mutando in marmo il vile cemento?

Ma tu non sei satollo, punti al colle
cerchi consensi e il bagno delle folle.

 

Nel letto di putan ex comunista
ti giri come un’insalata mista
come un pollo che rosola allo spiedo.

Cosa t’affligge, o sire, io mi chiedo?

Soffri di stitichezza o di colite
di priapismo o di prostatite?


Tutto l’Olimpo corse al capezzale
con Esculapio, re d’ogni speziale.

“’A Culo, che te serve?” – domandaro

“Apriti a noi: è un privilegio raro.

Qualunque cosa chiedi sia concesso:

salute, intelligenza, ogni successo”.

 

Un lungo elenco s’affollò alla mente
del fortunato. Giove immantinente
lo ferma: “Un desiderio, sia ben chiaro,
o ti trasformo subito in somaro”.

Sbianca il tapino, tosto chiede loro:

“Che quel che tocco si trasformi in… “

 

Gli sovviene di Mida di repente
carico d’oro e povero pezzente
morto affamato e solo come un cane
per quelle quattro parolette  insane.

“Merda!”  gli sfugge. Freme il gran consesso.

E Giove di rimando: “Sia concesso”.

 

Volarono gli dei su più sicure
sedi delle terrestri stanze impure
traboccanti di sterco dell’eletto
dalle cantine su, su fino al tetto.

Gli dei fanno le cose in grande stile.

Anche stavolta: un cosmico porcile.

 

Fin sull’Olimpo salgono i miasmi

Fuggon gli dei nel mondo dei fantasmi

Levando alti lai fugge Giustizia
soffusa di rossore Pudicizia
Ohimè, ci lasci, Atena, madre mia?

Che ne sarà della democrazia?

 

Ludibrio fatta di perverse brame

sprofonda Gaia in gorghi di letame.

Nell’aura di caligine, fuggiti
Aurora e Febo dai celesti liti,

annaspano i mortali. E così sia
per chi s’adatta alla merdocrazia! 

 

Opprime tutto, il globo bipartito
deciso a far porcaio inaudito.

Geme l’Italia sotto il peso immane
e non c’è chi l’aiuti, non c’è un cane.

Italia mia, datti uno scrollone!

Fatti una doccia e tira lo sciacquone!

 
 
 

smemorandum

Post n°18 pubblicato il 11 Aprile 2010 da graphitis
 
Foto di graphitis

vuoto di memoria

Salve! Ti parlo di me. Anche se non sono sicuro se sto parlando di te. O di un altro.
Il fatto è che non mi ricordo o che ricordo solo quello che sto scrivendo. Nel momento in cui lo sto scrivendo o leggendo. Forse questo non è ricordare: è scrivere o leggere. Ma che cosa potrei scrivere o leggere se non ricordassi? Quindi in certo senso ricordo, anche se per un istante. Perché, tu quanto ricordi? Davvero? Allora perché non scrivi? Ah già, tu ricordi. O sono io che ricordo. Ma non ricordo di ricordare.

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Io sono un uomo politicamente utile. Tutto quello che i politici hanno detto, io non lo ricordo. Così loro non hanno bisogno di smentire, di negare. Anzi, è meglio che non lo facciano, perché diversamente mi ricordano. Neanche i politici ricordano. Che cosa dovrebbero? Quello che hanno promesso? Quello che dicono di essere? Ma sono sempre identici? Di sé si ricordano, oh sì! Come potrebbero diversamente: riempiono tutto di sé. Anch’io riempio di me il piccolo spazio che mi sono ritagliato, questa pagina vuota.

*

 

Una mia amica ascolta volentieri le barzellette e tutti le raccontano volentieri barzellette. Nuove o vecchie, non importa. Lei ride sempre. Perché non le ricorda. Non è bello così? Vorrei ricordare anch’io delle barzellette per raccontargliele; ma io ricordo, voglio dire, vedo solo lei che ride.

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Oggi avevo trovato una parola. Tutti mi hanno detto che era una parola terribile. Io non ricordavo che era terribile. Così l’ho detta. Così la scrivo: Shoah. Il mio computer non se la ricorda, perciò la sottolinea in rosso. Ho chiesto che cosa volesse dire e mi hanno risposto che è una parola ebraica, che vuol dire olocausto. Ho cercato la parola olocausto e ho letto che era un sacrificio, dove la vittima veniva bruciata sull’altare, completamente. L’ho chiesto ad un rabbino e mi ha detto che l’altare non c’entra, che Shoah vuol dire “la grande sventura”. Io gli ho detto: Mi dispiace, non ricordo. Lui mi ha risposto: Non sei il solo. E se n’è andato.

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Ho trovato un’altra parola: Gaza. Un palestinese mi ha guardato triste, indignato. Poi mi ha detto: Come? Non ricordi più? Aveva tanto dolore negli occhi, come l’ebreo. Che sia anche quella una Shoah? A chi potrei chiederlo?

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C’è un signore che deve aver capito che sono smemorato; così per me e per tutti quelli come me si sottopone ad una corvée inumana: è sempre presente, sui giornali del mattino e della sera, e a tutte le ore alla radio e alla TV. Questo signore sa come comportarsi con gli smemorati come me, perciò ricorda ogni volta che lui è il miglior governante, il miglior padre di famiglia, il miglior fottitore, il miglior umorista, il miglior clown e insieme il più onesto, paterno, provvido, onnipotente, onnisciente dei governanti. Non sto parlando di dio, ma potrei anche sbagliarmi, perché non ricordo bene. Ebbene, queste sue attenzioni con me funzionano, perché ogni volta è come sentire una barzelletta irrimediabilmente dimenticata. Solo che con lui non c’è molto da ridere.

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