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« Le nuove povertàIl paradosso di S.Agostino »

L'imperativo di Kant

Post n°384 pubblicato il 09 Agosto 2013 da Illywirin

 

Diamo per ipotesi di lavoro che il singolo uomo abbia il libero arbitrio e che possa liberamente scegliere, entro il quadro dei contesti e condizionamenti biologici e sociologici in cui cresce. Come la sua scelta può essere valutata buona o cattiva? Come entra la morale, come si incastra con questo discorso del libero arbitrio?

L’uomo, in qualsiasi cultura viva, sa cos’è il bene e cos’è il male; lo sa in relazione  al  quadro di regole proprie della sua società. Queste regole sono variabili e originano una morale del tutto relativa, in quanto legata a un  contesto e a un modello di vita circoscritto e preciso. Monogamia e poligamia rientrano in questi contesti culturali, così come i riti alimentari e certe costumanze sessuali e tribali. Per un ebreo è sacrilego lavorare il sabato, per un cattolico mangiare carne in tempo di digiuno quaresimale, per un musulmano   non rispettare il Ramadan e così via. Fino al vero e proprio conflitto tra regole e riti di culture diverse.

Ma noi dobbiamo porci la domanda: al di là di questa morale contestuale e relativa, esiste nell’uomo una regola morale inscritta, “naturale” (espressione impropria), universale, che orienta la sua libertà verso il bene o verso il male, con il conseguente peso della responsabilità individuale?   Le religioni storiche dicono di sì, l’introspezione filosofica ne riconosce il fondamento: esiste – dentro l’uomo – un ordine morale.

E qui c'è la soluzione kantiana: semplice e lineare. Fondativa. Senza perplessità.

L’imperativo categorico: “non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto  a te” e “considera l’uomo sempre come fine delle tue azioni, mai come mezzo”. In questo imperativo categorico c’è il principio-fondamento del patto sociale che lega gli uomini fra di loro. La morale è regola delle relazioni; la morale obbliga al rispetto dell’uomo verso l’uomo e soprattutto ne vieta lo sfruttamento e la sopraffazione utilitaristica; la morale è laica, perché presente nell’uomo e senza alcun bisogno di Dio o di fedi religiose che ne legittimino l’esistenza e l’orientamento al bene.

Si osservi bene come da questi due semplici principi scaturisca la vera morale. Fare il bene significa orientarsi alla giustizia sociale e al rispetto altrui. Il male come offesa fatta all’uomo, alla sua dignità.

Ma questo fondamento mirabile e “eterno” svela anche tutta l’ipocrisia morale costruita nei secoli – anche all’interno delle religioni: lo sfruttamento schiavistico; i massacri delle guerre all’ombra di vessilli con la croce; la persecuzione del libero pensiero; la riduzione delle donne in  condizione di inferiorità; la disuguaglianza sociale perseguita quasi come una “volontà divina”.

“Considera l’uomo sempre come fine, mai come mezzo”.

Non è difficile mostrare la sintonia del pensiero laico illuministico kantiano con il Vangelo di Gesù  (checchè ne dica la Chiesa). Gesù ha detto “la verità vi farà liberi” e “ama il prossimo tuo come te stesso”. E ha detto anche “non potestis servire deo et mammonae”. Cioè non potete servire la causa di Dio (bene e giustizia) e la causa del denaro (successo, potere). C’è una profonda antitesi tra il bene e la giustizia e la persecuzione di obiettivi come l’accumulo di denaro, di potere e di successo.

La morale quindi soprattutto come “ordine e giustizia sociale” come rispetto dell’uomo verso l’uomo, come evitamento di ogni forma di sopraffazione e di sfruttamento.


Se ne deduce che il “crimine” vero, ciò che perseguono i malvagi (coloro che agiscono volutamente e pervicacemente il male) è qui: è il disordine sociale, la diversità, la prevaricazione, la violenza sull’uomo, la guerra. E tutto ciò che porta a questi crimini.


E’ il “peccato dell’uomo contro l’uomo”: una morale che si apre e si chiude all’interno della relazione umana. E che dice come – nei secoli – l’umanità sia vissuta per lo più amoralmente o immoralmente. Con buona pace dei simbolismi e delle speculazioni religiose.

 
 
 
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