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Roberto Zavaglia‏

Post n°74 pubblicato il 29 Marzo 2008 da Fratus

 

Il prossimo otto Maggio Giorgio Napolitano inaugurerà la Fiera del libro di Torino. Mai, prima d’ora, il capo dello Stato aveva impegnato la sua autorità, dando il via a quella manifestazione. Il presidente ha deciso di intervenire, rispondendo a un appello di giornalisti e intellettuali –fra i quali spiccano persone non certo note per equilibrio verso la causa palestinese, come Magdi Allam, Giorgio Israel e Fiamma Nirenstein- che invocava la sua presenza in risposta al boicottaggio della Fiera proposto da quanti contestano che Israele ne sia l’ospite d’onore.

Su sito internet della Fiera si possono leggere queste frasi: “ Sarà Israele il Paese ospite d’onore alla Fiera 2.008. In occasione della ricorrenza del 60° anniversario della sua fondazione, Israele ha scelto Torino come la vetrina più adatta per far conoscere e discutere la propria identità culturale”. Non c’è proprio possibilità di equivoci. A Torino si intende celebrare lo Stato di Israele, offrendogli l’opportunità di esibire la vivacità della sua vita culturale. Napolitano ha dunque scelto di onorare Israele -nell’anniversario della sua fondazione che i palestinesi ricordano come la Nakba, la catastrofe- proprio quando quello Stato ha dato l’ennesima dimostrazione di forza non certo culturale. Nel corso dei sei giorni di raid contro Gaza sono stati uccisi, secondo Btselem, un’organizzazione umanitaria israeliana, 111 palestinesi, di cui 56 civili comprendenti 25 minorenni. Amnesty International ha parlato di un attacco sferrato “con sconsiderato disprezzo per la vita dei civili”.

Gli israeliani hanno bombardato con gli F-16, l’artiglieria pesante aeronavale e i missili, mentre i palestinesi si sono difesi a colpi di kalashnikov e razzi anticarro. Sarebbe come se un pugile professionista si mettesse a fare a pugni con un bambino delle elementari. Anche diversi bambini, per l’appunto, sono stati uccisi dal fuoco dell’esercito dell’ “unica democrazia del Medio Oriente”. Mentre giocavano a calcio nel campo profughi di Jabalyia, quattro ragazzini sono stati dilaniati da un missile. E’uno degli episodi su cui la stampa internazionale non ha ritenuto interessante soffermarsi. In televisione non sono comparsi i corpi straziati, forse perché, come si dice dopo ogni strage israeliana, la cosa più importante è “scongiurare la rinascita dell’antisemitismo”. Mentre il circuito mediatico internazionale è gravato da simili preoccupazioni, i palestinesi uccisi a Gaza, solo negli ultimi due mesi, sono stati circa 200, di cui un terzo civili.

La “Striscia” è serrata dal blocco israeliano che lesina benzina ed elettricità, impedendo perfino agli ospedali di funzionare, con la conseguente morte dei pazienti più gravi. Sul piano alimentare le cose non vanno meglio: le calorie a disposizione per ogni cittadino sono scese al 61° della quantità che l’Onu indica come il fabbisogno minimo giornaliero. Napolitano, però, non ritiene che questi misfatti gli impediscano di rendere ossequio allo Stato che, quotidianamente, ne è autore. Del resto, il capo dello Stato, qualche tempo fa, dichiarò che l’antisionismo equivale all’antisemitismo, confondendo l’opposizione a un progetto politico con l’odio razziale. Mentre i giornali di destra si lamentano che, in Italia, vi sia un’avversione pregiudiziale ad Israele, tutta la stampa ha condannato il boicottaggio della Fiera del libro. L’unico intellettuale noto ad essersi espresso contro l’invito ad Israele è stato Gianni Vattimo, il quale è stato sommerso dalla fiera indignazione dei tanti che hanno additato il pericolo di “nuovi roghi di libri”.

Ben poca eco ha avuto la precisazione dei comitati per il boicottaggio i quali hanno spiegato che la loro iniziativa non è diretta contro gli scrittori israeliani –alcuni dei quali, da anni, denunciano le ingiustizie subite dai palestinesi- ma contro il fatto che lo Stato israeliano, in forma ufficiale, esibisca, con un’operazione di marketing, il proprio lato migliore, cercando di fare dimenticare i crimini di cui si macchia. Il boicottaggio, del resto, è un’operazione che non ha nulla di scandaloso. E’uno strumento pacifico per fare sentire ai Paesi trasgressori del diritto internazionale il peso delle loro colpe, mettendoli in difficoltà sul piano diplomatico. Con il Sudafrica dell’apartheid la cosa funzionò e la popolazione nera ottenne i propri diritti senza sanguinose guerre per l’esportazione della democrazia. Gli intellettuali occidentali, però, sono campioni nello sfondamento di porte aperte. Quando intravedono una “nobile causa”, che non comporti rischi, contro un nemico screditato, si mobilitano come un sol uomo, ma se c’è di mezzo Israele, con la sua potenza politica, militare e mediatica, la situazione cambia.

Se Israele non rispetta il diritto internazionale, dicono alcuni, non si può nemmeno stare dalla parte di chi governa Gaza perché lì è stato messo in atto un colpo di stato contro l’Autorità nazionale palestinese. L’ultimo numero della rivista statunitense Vanity Fair ospita, però, una lunga inchiesta con nuove rivelazioni sul fatto che a progettare il golpe fossero stati gli Usa, concedendo finanziamenti e armi ai miliziani di Fatah per sbarazzarsi di Hamas che aveva vinto le elezioni. Non è certo una novità -è stato già scritto anche su questo giornale- che statunitensi ed israeliani avessero assecondato il desiderio di rivalsa militare del partito sconfitto. E’ significativo, comunque, che la ricostruzione di Vanity Fair non sia stata smentita dal segretario di Stato, Condoleezza Rice, che fu tra i protagonisti di quel tentativo. L’uomo forte di Fatah a Gaza, Mohammed Dahlan, era il personaggio scelto da Washington per guidare il colpo di mano. A lui arrivarono ingenti finanziamenti, mentre 500 miliziani, armati e addestrati dagli Usa, vennero inviati a Gaza, con la probabile complicità dell’Egitto, per dare man forte agli uomini di Fatah. Il piano, però, venne scoperto e i militanti di Hamas passarono alla controffensiva e, con un armamento inferiore ma forti del sostegno della popolazione, sgominarono facilmente i rivali.

Dal quel giorno, la situazione a Gaza si è fatta sempre più disperata e, all’orizzonte, non si scorgono possibili miglioramenti. Il lancio dei razzi artigianali contro le più vicine città israeliane, pur causando poche vittime, offre un pretesto alle pesantissime rappresaglie di Tsahal e sarebbe davvero il caso che i capi palestinesi lo facessero cessare. Hamas, comunque, ha più volte offerto una tregua a tempo indeterminato, ma gli è stato risposto che lo Stato ebraico non tratta con i terroristi. Non si può essere certi che l’interruzione unilaterale di ogni attività militare palestinese ridurrebbe la sofferenza di quel popolo. I dirigenti politici israeliani, infatti, sono prigionieri della loro logica di sopraffazione e, finché i capi di Stato stranieri continueranno a porgergli omaggio, non si vede come possano ravvedersi.

Articolo di Roberto Zavaglia‏

 
 
 
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