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CONFERENZA DEL PROFESSOR FRANCO FERRO

Post n°19 pubblicato il 01 Aprile 2011 da ninolutec
 

TEATRO. LA RAGIONE DEGLI ALTRI
Di Luigi Pirandello
(Prima parte)

 

 

Ieri, 31 marzo 2011, si è svolta la prima parte della conferenza del professor Franco Ferro, che, dopo una chiara ed esauriente introduzione, ci ha proposto una selezione di scene del primo e del secondo atto dell'intenso dramma in tre atti di Luigi Pirandello, "La ragione degli altri".

L'interesse di Pirandello per il teatro ha radici lontane, che risalgono ancora agli anni Novanta (del '96 è già il dramma in tre atti Il nibbio), ma i testi scritti in questo periodo non trovano ancora la via della scena. Solo nel 1910, a Roma, furono rappresentati dalla compagnia di Nino Martoglio due atti unici, La morsa e Lumìe di Sicilia. Dal 1915 inizia una continuativa attività teatrale dello scrittore, con la rappresentazione del vecchio testo Il nibbio, ribattezzato Se non così, messo in scena dalla  Compagnia Stabile milanese di Marco Praga al Teatro Manzoni di Milano il 19 aprile 1915, appunto,  con protagonista Irma Gramatica. La commedia è stata poi inserita nella raccolta Maschere nude con il titolo La ragione degli altri (1921). La vicenda è quella di un giornalista, Leonardo Arciani, che, a causa della sterilità della moglie Livia, intreccia una relazione con una vecchia fiamma, Elena, dalla quale ha una figlia. Livia reagisce decisamente per riavere il marito. Ritrovandolo però padre di una bambina, sostiene di dover portare via, ad Elena, non solo l'amante, ma anche la piccola, come vedremo nel terzo atto, durante la seconda parte di questa interessante lezione.

La protagonista de “La Ragione degli altri” spalanca le porte alla tematica dell’annullamento del proprio essere per la felicità degli altri, una felicità che poi si dimostra sterile e vuota. L’unico sentimento che Livia è capace di provare è il ribrezzo, quello di una moglie nei confronti del marito verso cui attua una vendetta feroce: l’accoglienza dell’uomo traditore e di sua figlia. Un perdono carico di odio, tangibile nel passaggio in cui Livia afferma che “la ragione per cui sono venuta senz’astio, senz’odio, è più crudele, certo, dell’odio stesso. Ma non l’ho voluta io, non l’ho imposta io, questa ragione”. Un dramma che è lo specchio della filosofia pirandelliana, nel quadro di una sfiducia nei valori borghesi, che il premio nobel vede naufragare nello stato unitario. E, inoltre, più in generale, la visione di un mondo dominato da relazioni e leggi formali, convenzionali e illusorie, che Pirandello scardinerà con la sua logica paradossale e acutamente demistificatoria. Lina Sastri e Maddalena Crippa (le due donne, le due rivali) nei loro dialoghi riescono a trasmettere, facendo vibrare ogni passaggio e ogni battuta, il tagliente pathos del testo pirandelliano, che gira intorno non tanto al tradimento in sé e alla nascita di una figlia illegittima, ma alla reazione di Livia e alla sua frustrazione nata dal silenzio, lei che ha “troppo taciuto, e nel silenzio troppo ascoltato la ragione degli altri”. Un silenzio roboante che preme sull’incomunicabilità dell’uomo, che scardina ogni sicurezza, e squarcia il velo di Maya.

Tutti conoscono Andrea Camilleri come creatore del Commissario Montalbano. Pochi, al contrario, conoscono il Camilleri uomo di spettacolo e i suoi quarant’anni passati, a mettere in scena i testi di Beckett, Pirandello, Adamov e Eduardo, in qualità di regista, insegnante,sceneggiatore, produttore, nell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica e nei teatri di mezza Italia ed ancora in televisione e in radio. La regia di questa messa in scena è la sua.

Considerazioni finali

Su un foglietto di diario Pirandello espresse una volta il suo rifiuto del mondo, il disprezzo dell'ordine burocratico, della società che costruisce i suoi castelli di carta, della stessa famiglia, fino a dichiarare la sua volontà di restar solo, quasi senza più coscienza d'essere, come una pietra, come una pianta: fino a «non ricordarsi neanche più del proprio nome».

Date queste premesse, egli avrebbe potuto riversare nell'opera, da pessimista introverso che aveva già dato molte prove della sua asocialità, per metà nervoso, per metà bilioso, il suo atto d'accusa contro quella borghesia di cui Roma dava la rappresentazione tenace. Cosa aveva fatto, prima di lui, uno scrittore di teatro pur tanto lontano: Enrico Ibsen? Aveva portato alcuni problemi sociali sulla scena, aveva cercato di abbattere le false colonne della società, costruite sulla menzogna, sulle apparenze, sulle ipocrisie convenzionali. Aveva affrontato la situazione della donna, e le malattie dei padri che i figli scontano e tutto il peso di un passato che incombe sul nostro presente.

 Ma se, ponendosi su questa strada, Pirandello avesse descritto la corruzione e i vizi della Roma bizantina e umbertina, osservata da un personaggio senza nome, totalmente fuori da quell'ambiente, egli avrebbe scritto il romanzo di un epigono, l'epigono del naturalismo francese e del verismo italiano. Ma, fuori di ogni naturalismo, il personaggio contemporaneo più vicino a Mattia Pascal, Fedja del Cadavere vivente di Tolstoj, non aveva chiuso la sua miserevole esistenza tirandosi un colpo di pistola? Pirandello con Il fu Mattia Pascal non volle scrivere né un dramma né una tragedia, ma una farsa nel senso che Schlegel aveva dato al termine: una farsa trascendentale. Una farsa in cui già venisse formulata per un caso eccezionale l'idea della vita come teatro. E quel romanzo s'inizia non con un suicidio ma con un finto suicidio, il suicidio di un nome. Quell'uomo diventa un altro perché prende un altro nome. Diventa cioè un attore. Ed è il passato, quella vita che non vuol più vivere, a costringerlo a diventarlo.
Questa invenzione straordinaria aprì a Pirandello la strada del suo futuro. Egli capì che bisognava spezzare ogni legame diretto con l'autobiografia. La letteratura non doveva essere un modo per dare un'illusoria soluzione ai drammi familiari. Nessuna trasposizione di personaggi dal buio della propria vita alla luce del palcoscenico.

 E il pubblico non doveva così essere concepito come una massa inerte, senza volto, che, seguite le alterne vicende del dramma, alla fine emetteva il suo verdetto. Per Pirandello il pubblico esisteva nella realtà e nella coscienza del drammaturgo. Costituiva un fattore dinamico e decisivo nello svolgimento della rappresentazione. E nei momenti più alti della sua produzione, assai prima dei rappresentanti del «teatro epico», e partendo da ben altre posizioni, finì col convincersi che ormai il pubblico non doveva essere lasciato in pace. Fu una delle ragioni del suo successo. Oltre la quarta parete ormai sfondata, lo spettatore, del tutto sveglio, pensava.
Il teatro era dunque un tribunale, ma un tribunale cui lo spettatore era ammesso a partecipare, così che alcuni registi, recentemente, nelle pièces più problematiche, hanno preso l'estrema decisione di trasportare come in un dibattimento il pubblico tra gli attori, parte di tutto l'insieme. E proprio sulla platea, immersa per il teatro classico nella sua sacra intangibilità, l'autore sfogava senza mezzi termini la sua passione, ch'era quella di discutere, di argomentare, di confondere, d'irritare, di provocare. Rousseau, preconizzando le future feste rivoluzionarie, diceva: «Piantate in mezzo a una piazza un pennone inghirlandato di fiori e chiamate a raccolta il pubblico. Fate di meglio ancora. Date gli spettatori in spettacolo. Trasformateli in attori».

Pirandello non giunse a questo. Ma nelle sue famose «prime», in cui sarebbe potuto accadere un po' di tutto, quando l'autore s'identificava ora con un personaggio deputato a rappresentarlo ora con il capocomico, in quelle prime rumorose, agitate, violente, egli tentò un teatro a suo modo rivoluzionario, ove gli spettatori venissero dati in spettacolo.

In questa meravigliosa storia di Pirandello accadde così un evento inatteso. Il pubblico, da lui poco vezzeggiato, anzi maltrattato, messo dinanzi a spettacoli che non indicavano soluzioni, e ove, a differenza dei drammi gialli, alla fine non si riusciva a vedere da che parte fosse il colpevole, e gli enigmi restavano enigmi, spettacoli che procuravano alla fine un malessere vago, quel pubblico, dunque, al contrario di ogni aspettativa, non disertò le sale per assistere a spettacoli più eccitanti o più mansueti, o che almeno elargissero sicurezza e fiducia. Esso si ingrossò a tal punto che non bastarono a contenerlo le platee di tutta la nostra penisola.
Che cosa era accaduto in quel pubblico, fatto anche di gente comune, di brava gente, forse non dotata di molta cultura, e che non amava ascoltare sulla scena i bei versi, in sogni o in misteri, ma parole dimesse, povere, a volte stridule e disaccordate, dette e non recitate da personaggi che quasi non sapevano esprimersi, sostanzialmente afasici? Forse, dietro tante confuse parole che non riusciva bene a capire, concetti, interrogativi, sarcasmi, artifici dialettici, quella gente ritrovava un nuovo modo di far teatro, qualcosa che non aveva mai visto, una vaga idea del mondo, o una concezione buia dell'esistenza, assai simile a quella che essa viveva nelle proprie case, spesso visitate dalla follia, ove la personalità alterata appariva addirittura inafferrabile? Forse quel pubblico aveva provato nella sua vita, senza ben rendersene conto, gli stessi incubi, le stesse ossessioni e infinite crudeltà e dolori? Si riusciva a vedere qualcosa, ma come in uno specchio opaco. Non era la tragedia, l'assassinio o il sangue. L'angoscia era più profonda. Quel teatro certo non sollevava, non purificava l'animo. Eppure l'onestà del drammaturgo nel non progettare alcuna soluzione tragica riusciva a dare stranamente un certo conforto, una certa consolazione. E a poco a poco quel pubblico occupò le platee d'Europa e le occupa ancora.

Questo successo fu tanto più eccezionale in quanto esso si affermò in senso del tutto contrario a quello che aveva visitato gli scrittori maggiori del Novecento. La fama di Joyce, di Proust, di Musil, nel suo svolgimento lento ma irrefrenabile, fu provocata da un pubblico intellettuale, aristocratico. Grazie a esso quei grandi scrittori divennero portatori di una nuova, alta, modernissima e difficile idea di letteratura.
Per Pirandello il discorso è rovesciato. La sua fama, sempre contrastata, si andò affermando al di fuori dei prestigiosi centri della cultura europea, dove era stato pur accolto D'Annunzio, grande poeta, gran maestro della parola, e di poco più vecchio di lui. Sta di fatto che Proust, Joyce, Musil e, prima di loro, James, parlano di D'Annunzio con ammirazione (almeno fino a un certo periodo). Ma Pirandello per essi era come se non esistesse, allo stesso modo di quanto era accaduto in Italia, da parte di scrittori e di critici. Ed egli ha continuato così a essere un'erma in un labirinto, un'erma bifronte. Da una parte c'era lo scrittore di romanzi e novelle, un narratore si disse «tradizionale» (senza badare che proprio nel genere della novella egli affrontò negli ultimi anni esempi di una straordinaria modernità). Dall'altra c'era l'uomo di teatro, autore di alcuni capolavori di cui quelle élites mostrarono o di non accorgersi affatto o di accorgersi solo molto tardi. Ma il teatro sembra che abbia un destino del tutto separato da quello che assiste la grande letteratura. Fino a pochi anni fa esso, secondo Montale, stentava a entrare nel dominio della letteratura. Esisteva forse, continuava Montale scherzando, una congiura mondiale per scacciare il teatro dall'orto della letteratura? Il pubblico era probabilmente un'invenzione moderna. Era il prodotto di un tempo che tutelava i diritti d'autore ma era indifferente al valore degli artefatti.
Per Pirandello è vero il contrario. Fu il pubblico, sostenuto da pochi scrittori e critici illuminati, a non essere indifferente al valore dei suoi artefatti. Quel rumoroso e generoso pubblico, pur tra lotte e contrasti, fu il primo a capire ciò che le raffinatissime élites, gli adoratori dello stile, della prosa d'arte, avevano rifiutato, e finì col decretargli una fama superiore non soltanto a quella di D'Annunzio, ma di tutti gli scrittori italiani del Novecento. Quel pubblico annullò ogni differenza di valore e ogni distinzione tra il narratore e il drammaturgo, perché l'uno era legato all'altro indissolubilmente.

 
 
 
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