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Ieri, giovedì 7 aprile 2011, si è svolta, alla presenza di un uditorio numeroso e attento, la conferenza del professor Giovanni Dejosso, che ha trattato l’argomento “Il cibo. Memoria, cultura e metafora della vita”. La relazione è iniziata con la presentazione di un volumetto di Francesca Rigotti, dal titolo "La filosofia in cucina. Piccola critica della ragion culinaria“. Le ricette, dice la Rigotti, sono, in cucina, ciò che per Platone, in filosofia, erano le idee, ossia modelli intellettuali, dotati di una loro forma e di una loro conoscibilità specifica. Mediante le ricette i piatti acquistano l'universalità dell'originale: sono, cioè, identificabili e riproducibili. Guardando alle ricette così come il demiurgo guarda alle idee, il cuoco può sfornare un'illimitata teoria di copie alimentari, assicurando una stabilità e una riconoscibilità dei piatti e delle portate.Il professor Dejosso si è poi soffermato brevemente sul peccato di gola e sui golosi. Benché Dante li sprofondi nel terzo cerchio dell'Inferno, prostrati nel fango e sferzati da una pioggia fetida mista d'acqua, grandine e neve, i golosi non paiono, agli occhi della sensibilità moderna, imputabili di una così grave mancanza. La golosità, da peccato capitale meritevole di eterna pena è divenuta, per gli uomini dell'inizio del terzo millennio, il condimento veniale di tutte le età della vita. Semmai, la "dannosa colpa della gola", come la chiamava l'Alighieri nella "Divina Commedia" non è più, al giorno d'oggi, un errore morale, quanto un'infrazione dell'ordine estetico. Agli imperativi etici delle società della fame e della penuria, la moderna civiltà dei consumi e dell’abbondanza ha sostituito, da tempo, le prescrizioni della dietetica. Il pensiero medievale, invece, giudica la gola una forma particolare di intemperanza dei sensi. Se la lussuria è il peccato della carne inerente all'eccesso nella sfera sessuale, la golosità è il peccato della carne che riguarda l'eccesso nell'ambito alimentare.Si tratta di una colpa che avvilisce l'uomo alla condizione bestiale, appiattendolo a livello della semplice materia. A differenza del lussurioso, che ha bisogno del prossimo almeno come oggetto di piacere, il goloso sembra ignorare ogni altra umanità, concentrandosi egoisticamente sul referto di quei sensi - il tatto, l'odorato e, ovviamente, soprattutto il gusto - che lo mettono in relazione con il cibo.Come scriveva Tommaso d'Aquino nella "Summa Teologica", "poiché al mangiare è connesso necessariamente il piacere, non si riesce a distinguere ciò che è richiesto dalla necessità da ciò che vi aggiunge il piacere”.È, tuttavia, necessario stare molto attenti, perchè, con la gola,è facilissimo cadere in peccato mortale, come affermaSan Giovanni Crisostomo, che all'intemperanza del mangiare riconduce lo stesso peccato originale. La relazione è poi passata a discutere del rapporto fra cibo e arte, facendo riferimento al pittore fiammingo Pieter Bruegel. Un tema classico rivisitato da Pieter Bruegel è quello del“Paese di Cuccagna”. Il Paese di Cuccagna è stato per molto tempo, quando in Europa imperversava lo spettro della fame e della miseria, il sogno ricorrente dei contadini e non solo. Il Paese di Cuccagna inizialmente era considerato una terra nella quale il cibo era inesauribile e a portata di mano, oltre che un luogo dove si potessero assecondare tutti gli altri piaceri del corpo. Pieter Bruegel il Vecchio (1525-1569), perspicace osservatore dell’uomo suo contemporaneo, nel quadro il Paese di Cuccagna (1567, 52x 78 cm, olio su tavola, Alte Pinakothek, Monaco, Germania) Bruegel propone tre figure che rappresentano tre strati della società. C’è un soldato con un braccio amputato e ai piedi una lancia. È un rappresentante dell’esercito al quale sta cadendo in bocca un arrosto. C’è un contadino distrutto da una giornata di lavoro, con accanto un correggiato. Contadino che rappresenta la classe dei lavoratori. E, infine, c’è un giovane ricco, che dorme poggiato su una pelliccia che ricopre dei libri.
Il cibo e il vino sono stati rappresentati nel corso dei secoli grazie a numerose opere d’arte, e osservando un dipinto o un affresco che testimoniano un momento convivialesi scavalcano le porte del tempo.
Durante il Rinascimento i dipinti e gli affreschi che accentuano il significato del cibo e lo raffigurano comesoggetto sono tantissimi. Molti i banchetti dove i commensali godono del vino, del buon mangiare e della musica. La pittura diventa cronaca reale ed efficace, quasi una sorta di scatto fotografico d’antan, che testimonia l'opulenza culinaria e il compulsivo desiderio di conseguirla. Il Ghirlandaio con i suoi imponenti affreschi appone un sigillo senza tempo al binomio arte - cibo. Altri artisti, quali il Carracci e Bruegel, offrono eccellenti rappresentazioni dove il cibo convive pienamente con il piacere e il peccato di gola. Il Veronese nelle Nozze di Cana del 1562 dà libero sfogo alla sua passione di instancabile narratore manierista e trasforma quell’episodio del Vangelo in un trionfo di colori e della Venezia del suo tempo, con il concorso di oltre cento figure, fra cui trovano posto anche i ritratti di Eleonora d'Austria, Carlo V, Alfonso d'Avalos, di Tiziano, di Tintoretto e dello stesso autore del quadro.
I banchetti e le feste non sono mai stati nel tempo esclusiva dei gruppi sociali più abbienti. Gli stessi contadini organizzavano questi momenti conviviali, e la rappresentazione di uno di questi eventi la fornisce Pieter Brueghel il Vecchio (1525-1569). Molto interessato alla vita quotidiana dei contadini. Frutto di questo interesse è l’opera il Banchetto nuziale o Nozze Contadine. Questa dipinto appartiene al corpus di lavori pittorici che caratterizzano l’ultimo periodo dell’attività di questo artista, che si era affermato come incisore. L’opera in questione ci riporta un momento di festa contadina, un banchetto nuziale che si svolge nelle Fiandre del 1500, un momento di svago dalla crudezza della vita quotidiana. La scena si svolge in una sala, allestita, in modo rustico e alla buona, per la festa. Ad esempio sulla parete, alla destra della panca, c’è un palio verde: un simbolo elegante, sostenuto, però da due forconi. Sempre sulla parete trova posto un fascio di grano, inforcato ad un rastrello. Seduta in corrispondenza del palio siede la sposa e accanto a lei ci sono i genitori. Lo sposo è probabilmente l’uomo, col copricapo rosso, che sta dispensando le vivande ai commensali. Il resto della tavolata presenta vari abitanti del villaggio, ci sono anche due ospiti di rango, all’estrema destra: un frate e un uomo elegante con spada. Quest’ultimo però, nonostante il livello sociale, si adatta comunque a sedersi su un tino. In primo piano ci sono due garzoni, che su un vassoio in legno, in realtà una porta scardinata, servono le vivande. Il menù del pranzo prevede un’unica portata posta in alcune ciotole sul vassoio: una focaccia fatta di farina di mais, uova acqua. Questa tipo di focaccia era cotta al forno, indorata, e servita calda ai commensali che vi spalmavano della crema di formaggio, visibile nei piatti con il contenuto bianco. La bevanda distribuita durante il banchetto probabilmente è sidro di mele, bevanda fermentata, a base di mele molto in voga nelle Fiandre dell’epoca. Questa ipotesi si basa sull’osservazione del colore della bevanda che un garzone, alla sinistra della tavola, sta travasando da un orcio ad una caraffa. Ricordiamo che all’epoca il sidro era bevuto direttamente in caraffe, non in bicchieri. Inoltre i commensali quando la caraffa era svuotata lasciavano cadere l’ultimo goccio di sidro a terra, per restituire a quest’ultima qualcosa di quello che aveva dato. A completare il gruppo dei partecipanti al banchetto ci sono due musici nomadi, che suonano la cornamusa fiamminga. Il suonatore più giovane porta dietro la schiena un coltello. Non è l’unico, perchè anche l’uomo, seduto di spalle vicino a lui ha legato in vita il fodero, vuoto, di un coltello. A quei tempi il coltello era usato per la difesa ma serviva anche per mangiare, ecco perchè era portato anche a tavola. Questa scena altamente realistica presenta un tocco di poesia che si estrinseca nel bambino, che con un grosso cappello rosso sormontato da una penna di pavone, pulisce con il dito un piatto di minestra. Molto interessante anche la discussione incentrata su William Hogarth, un artista inglese settecentesco fuori da ogni schema. Iniziò la sua carriera come incisore, ma ciò che caratterizzò tutta la sua produzione, compresa quella pittorica intrapresa a ventotto anni, fu la sua vena satirica eccezionale. Già in passato vi erano stati uomini coraggiosi in grado di sfidare con sberleffi le autorità politiche del loro tempo, ma egli fu il primo ad attaccare i costumi più corrotti della società a lui contemporanea. Ad Hogarth (1697 - 1764) si devono anche le prime vignette satirico-politiche. Nella serie dei quattro quadri intitolati "Campagna elettorale“ ( Il banchetto-L'opera di convinzione-La votazione-Il trionfo dell'eletto), i gesti e le espressioni dei personaggi sono accentuati al punto da essere quasi caricaturali, in modo da poter mettere maggiormente alla berlina i politici inglesi del suo tempo. Il primo di questi lavori è “II banchetto" dove Hogarth più di duecentocinquanta anni fa, dipinge una campagna elettorale, ambientata nella cittadina di Guzzledown. I partiti in lotta sono due, il "Nuovo interesse" (i liberali) e il "Vecchio interesse" (i conservatori). Ci sono i candidati ed i galoppini del "Nuovo interesse" che stanno banchettando in una locanda. Attorno a due tavoli, uno rettangolare ed uno rotondo, tredici commensali che in qualche modo richiamano il Cenacolo di Leonardo da Vinci.
Argomento successivo, il Futurismo, una corrente artistica nata nel 1909, anno della pubblicazione dei suoi principi in quello che era il Manifesto del Futurismo, redatto da Filippo Tommaso Marinetti (1876, Alessandria d’Egitto- 1922, Bellagio, Como). Nato sull’onda del progresso tecnologico di inizio secolo scorso, il Futurismo esaltava il progresso, la modernità, la velocità contro le vecchie ideologie. I Futuristi non rivoluzionarono soltanto le varie correnti artistiche, ma si occuparono anche di gastronomia. Marinetti stesso, nel 1930, scrisse, su la Gazzetta del Popolo di Torino, il Manifesto della cucina futurista. Secondo tali linee guida in cucina doveva essere esaltato l’uso della tecnologia, dunque via libera all’uso di variadditivi, una realtà nuova per la cucina dell’epoca, ancora artigianale. Un esempio di ricetta futurista è per esempio il Tuttoriso, un risotto condito con vino caldo, fecola e birra calda, tuorlo e parmigiano. Un concentrato di energia visto che i Futuristi esaltavano il dinamismo. I Futuristi non si limitarono solo a creare nuovi piatti, ma portarono anche avanti una "lotta" contro alimenti che appesantivano, quindi che erano in antitesi con l’idea di velocità esaltata dal gruppo. L’alimento più osteggiato da Marinetti, perché appartenente a questo gruppo, fu la pasta. La sua presa di posizione scatenò un grande scandalo in Italia, innescando un dibattito fra letterati. Infine, tra le iniziative futuriste in campo gastronomico, bisogna sottolineare il tentivo di italianizzare i termini stranieri. Ecco dunque che i Futuristi andavano al “quisibeve” e non al bar. Oppure a fine pasto ordinavano un “peralzarsi” e non il dessert. Un tentativo per ridurre l’influsso della lingua straniera sull’italiano, visto che già all’epoca gli italiani facevano ricorso a parole in altre lingue.
Anche per alleggerire il tono della conferenza è stato a questo punto proposto il video del film “Vatel”. Siamo in Francia, nel 1671, e il Maestro di cerimonie François Vatel deve preparare festeggiamenti e pranzi meravigliosi e incredibili per i tre giorni di permanenza del Re Sole alla corte del Principe Condé, con cui deve riappacificarsi perché una probabile guerra contro gli olandesi è alle porte e lui gli è necessario. Vatel Si innamora però della dama di compagnia della Regina, Anne de Montausier ,con cui Vatel passerà una sola notte d'amore, ma che è contesa come amante dal laido marchese di Lauzun, che cercherà di neutralizzarlo, e dal Re Luigi XIV. I festeggiamenti saranno meravigliosi e grazie al suo talento e alla sua incredibile cucina salverà il suo Principe, che comanderà l'esercito francese, e lo farà desiderare alla corte di Versailles. Ma proprio per il festeggiamento conclusivo dei tre giorni, il giardino di ghiaccio giocato sui temi della mitologia marina e a base di pesce, i fornitori non riusciranno a portare il pesce in tempo. Vatel, ormai disilluso su come potrà andare il suo amore con Anne e disgustato dal suo stesso lavoro, si toglierà la vita dopo un pasto a base dei pochi crostacei arrivati, dopo aver scritto una lettera ad Anne (in cui spiega che non si suicida per il mancato ricevimento) e dopo aver liberato il pappagallo superstite. Alla fine, la fornitura agognata arriva dopo il suicidio del maestro. Il pranzo viene terminato dagli aiutanti di Vatel e si rivelerà un successo. A questo punto il professor Dejosso è passatoa tematiche più vicine a noi, parlando del rapporto fra il cinema e gli spaghetti, che rappresentano in assoluto lo status symbol della genuinità e dell’animo buono dell’Italia postbellica. La commedia neorealistica di quegli anni ce ne offre un’abbuffata. Da quelli di Ave Ninchi in Domenica d’agosto (1950) di Luciano Emmer, alla spaghettata collettiva di Anna Magnani (li ha appena sottratti alla borsa nera) ne L’onorevole Angelina (1947) di Antonio Pietrangeli. I formaggi nostrani fanno frequenti apparizioni. Ci sono le caciottelle portate da Sordi al capufficio in Totò e i re di Roma (1952) di Steno. E i fratelli Capone (Totò e Peppino De Filippo), appena giunti a Milano, estraggono dalla valigia i mezzi minimi di sopravvivenza: spaghetti e caciocavallo, in Totò Peppino e la…Malafemmena (1956) di Camillo Mastrocinque. E Nino Manfredi chiude sottochiave il gorgonzola nell’armadio di cucina perché al collega Andrea Checchi, che perennemente mangia a casa sua, sono riservati i bocconi migliori in L’impiegato (1959) di Gianni Puccini. La mozzarella, poi, è quasi un feticcio per la comicità napoletana. In Miseria e nobiltà (1954) di Mario Mattioli, troviamo queste parole:” Ti fai dare mezzo chilo di mozzarella di Aversa, freschissima. Assicurati che sia buona. Prendi queste dita (police e indice), premi la mozzarella, se cola il latte te la pigli, se no desisti”. La ricotta è invece la merenda dei bambini, spalmata sul pane da Giulietta Masina in Europa ‘51(1952) di Roberto Rossellini. Ma un vero e proprio inno al formaggio – sulle note di Faccetta nera – lo troviamo in Sotto il sole di Roma (1948) di Renato Castellani: ”Borsetta nera / colla farina co li fagioli e la caciotta pecorina quella caciotta che piace a me / con un quartino e tanto vino”.
Il desiderio implicito è sempre quello della grande scorpacciata. I personaggi, poi, sono sempre potenzialmente affamati. Ogni momento sembra quello buono per mettersi a tavola. In Alberto Sordi, che nel film Un americano a Roma (1954) di Steno, si butta letteralmente sul piatto di spaghetti con il quale ha intessuto un vero e proprio dialogo, è concentrata tutta la fame dell’Italia che usciva dalla guerra. Un ultimo elemento gastronomico degno di nota presente in questi film è poi la tazzina di caffè. Essa appare, tra tutti i cibi, l’elemento più malioso e affascinante. Un vero lusso a portata di mano in quanto non rigorosamente necessario alla sussistenza minima, ma in grado di elargire inenarrabili sensazioni al gusto e all’olfatto. Il maresciallo Carotenuto, indimenticabile personaggio di Vittorio De Sica in Pane, amore e fantasia (1953), si dichiara un fanatico del caffè:” Quando sono partito ho messo nella valigia la macchina napoletana”. Viceversa se viene male esso è quasi un sacrilegio:”Una ciofeca…una schifezza”, secondo la mitica definizione di Totò in Totò a colori (1952)di Steno. E niente di meglio di una battuta di Eduardo De Filippo potrebbe esprimere l’amore e la venerazione quasi religiosa per il caffè:”Quando io morirò, tu portami il caffè e vedrai che io resuscito come Lazzaro”, in Fantasmi a Roma (1961) di Antonio Pietrangeli. La relazione è proseguita con alcuni film dei quali ci sono state proposte interessanti e piacevoli sequenze: “La grande abbuffta” di M. Ferreri, “Il pranzo di Babette”, “Miseria e nobiltà”, “Mangiare bere uomo donna”, “Il profumo del mosto selvatico” , “Come l’acqua per il cioccolato”, “Sapori e dissapori” e “Julie & Julia”.La conferenza è proseguita con una dettagliata dissertazione a proposito di un frutto molto particolare, probabilmente endemico della Sardegna, “Sa Pompia Intrea” , che è il dolce tipico per eccellenza di Siniscola. Solo a Siniscola si è tramandata la tradizione della produzione di dolci con questo particolare agrume. “Sa pompia” è un agrume molto particolare, e molto strano.Ha la forma rotonda un po' schiacciata, assomiglia a un pompelmo, con la buccia molto bitorzoluta e rugosa.Il frutto raggiunge a volte anche il peso di 700 o 800 grammi. Le sue origini sono misteriose. Si pensa sia un ibrido naturale sviluppatosi negli agrumeti locali. La lavorazione è molto lunga. Infatti,prima viene asportata molto finemente con un coltellino la buccia gialla, dalla quale si ottiene un buon digestivo molto aromatico (licore de pompia), poi viene praticato un foro nelle parte superiore, dal quale viene estratta la polpa interna, immangiabile perchè molto amara e agra, ottima per lucidare il rame o l'argento. Si deve fare attenzione a tenerla intera in quanto va cucinata così (ecco perchè “pompia intrea”), Una volta svuotata va prima bollita nell'acqua, lasciata un po' ad asciugare e quindiin un tegame, possibilmente in rame, si fa scioglere il miele nel quale poi si immergono le “pompie”, che vanno cotte a fuoco lento rigirandole continuamente in modo che assumano un colore uniforme. E tutto questo per 4 o 5 ore. Una volta che hanno assunto un bel colore dorato, come dicevano le nostre nonne, quando ha il colore del marengo (moneta d'oro) la pompia e pronta (a cando esta in colore de marengu er fatta). La “pompia” ha un sapore particolare in quanto il frutto è amaro,ed èpoi il miele che gli dà questo retrogusto fra il dolce e l'amaro. La “pompia” va servita possibilmente su foglia d'arancio o di limone. Tagliata a spicchi e abbinata a pecorino sardo e vino rosso è un'ottima specialità. Un bel video su questa lavorazione ha concluso la piacevole conferenza.
Inviato da: Manuela
il 10/02/2015 alle 23:06
Inviato da: giramondo595
il 30/11/2013 alle 10:19
Inviato da: giramondo595
il 18/05/2013 alle 23:30
Inviato da: giramondo595
il 14/04/2013 alle 19:55
Inviato da: giramondo595
il 01/04/2013 alle 23:46