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150° ANNIVERSARIO DELL'UNITÀ D'ITALIA

Post n°33 pubblicato il 11 Aprile 2011 da ninolutec
 
Tag: Storia



Una ricostruzione a grandi linee del processo di unificazione e di «Risorgimento» della nazione italiana con una particolare attenzione alla dimensione strutturale.

 

Giuseppe Brienza


Ombre e luci del processo risorgimentale italiano
(Parte Prima)

 

[Relazione tenuta al convegno di studi La nascita dello Stato italiano, in occasione del 145° anniversario della proclamazione del Regno d’Italia, organizzato dalla Associazione Europea Scuola e Professionalità Insegnante (Aespi) di Milano, il 17 marzo 2006 a Palazzo Valentini di Roma, con il  patrocinio della Regione Lazio, della Provincia di  Roma e della Fondazione Ugo Spirito di Roma]

 

 

1. Rivoluzione francese e Risorgimento

 

Che l’Italia possa finalmente condividere una memoria comune è auspicio risalente nel tempo, purtroppo ben lontano dal realizzarsi, come dimostrano non solo le accese contrapposizioni cui ancora si assiste sui temi del fascismo e dell’antifascismo, ma anche quelle che si scatenano non appena si tocchi in maniera non conforme alla vulgata ufficiale una di quelle pagine di storia che, a distanza di quasi un secolo e mezzo, i «vincitori» pensavano ormai di aver archiviato, in quanto definitivamente imposta — tramite un uso propagandistico della memorialistica e la reiterazione di racconti di comodo in migliaia di pubblicazioni e manuali scolastici — ai «vinti».

Mi riferisco ovviamente a quello che, per comodità terminologica, chiamerò il «Risorgimento» ma che, più propriamente, andrebbe denominato «Rivoluzione italiana», vale a dire la versione nostrana ottocentesca della sovversione dell’ancien régime, avvenuta in conformità «principi del 1789», affermatisi manu militari nella Francia rivoluzionaria.

Con la Rivoluzione francese termini come «nazione», «nazionalità» e «nazionalismo» si affermano nel pensiero politico con il significato — pur sempre fluttuante e ambiguo — in cui se ne discorre oggi e agiscono sempre più incisivamente come idee-forza, cariche di implicazioni teoriche e pratiche: «Il termine “nazione”, fino ad allora di uso generico, perché riferito alle più diverse realtà di gruppo e a qualunque forma di comunità politica, trova un preciso punto di riferimento nello Stato nazionale, lo Stato che si avvale del suo potere per imporre su tutti i territori posti sotto la sua amministrazione l’uniformità di lingua e di costumi, per imporre, e in parte produrre, l’unità nazionale […]. La nascita dello Stato moderno, burocratico e accentrato; l’esigenza di sostenere con una struttura giuridico-politica la formazione dei mercati unici nazionali, perseguita da élite economiche e sociali che in condizioni non unitarie avrebbero stentato a emergere; l’irruzione di nuove ideologie, che postulavano la necessità della fusione dello Stato con la nazione, creano una combinazione esplosiva, che distrugge all’interno dei singoli Stati le nazionalità spontanee solo parzialmente nella realtà ma del tutto nella coscienza politica e altera i rapporti fra gli Stati stessi, subordinando ai valori nazionali i valori universali della res publica christiana, cioè quella sorta di supernazionalità spontanea che legava le persone oltre le frontiere statali».

 

 

2. «Triennio giacobino» e Insorgenza italiana

 

Volendo impostare comunque un discorso in termini moderni» sulla nazionalità italiana, occorre dire che fin dal Triennio Giacobino 1796-1799, che vide l’invasione e l’occupazione di numerose regioni dell’Italia da parte delle truppe napoleoniche al servizio della Rivoluzione francese, le insorgenze popolari — o, più correttamente l’«Insorgenza», poiché si trattò di un fenomeno omogeneo e «unitario» — segnarono la prima manifestazione di un idem sentire degl’italiani. Essi reagirono allora in armi a tale invasione, dando origine a qualcosa di molto vicino a una guerra civile e il fatto che gli insorti parteggiassero per la difesa della loro bi-millenaria identità religiosa e a sostegno del Papa e delle autorità legittime, non vuol dire che fossero meno italiani dei successivi artefici dei vari moti e spedizioni patriottiche, i quali, non fondandosi sulla «nazionalità spontanea» — ovvero su un senso di appartenenza nazionale creatosi «dal basso» — e non in virtù di un agente esterno, come una monarchia, non potevano certo fondare «naturalmente» alcuna forma di unità fra gli italiani.

 

 

3. Il «piccolo regno di second’ordine» di Dostoevskij

 

La parola «unità» ha infatti in sé un qualcosa che smussa le differenze: si è uniti quando si trova un obiettivo comune che fa vincere il naturale — cioè prodottosi storicamente — e legittimo particolarismo. L’unità d’Italia ebbe, come dice la parola, l’obiettivo comune di formare una entità che legasse insieme le diverse anime e componenti politiche della «nazione» italiana. A questa unificazione del Paese nel secolo XIX si giunse però in modo tutt’altro che «naturale» e l’imposizione di un «abito politico» rivelatosi inadeguato causò al corpo sociale dell’Italia i gravi disagi di cui soffre tuttora e disperse una parte rilevante delle inestimabili ricchezze culturali della nazione. Noterà lo scrittore russo Fëdor Michajlovic’ Dostoevskij (1821-1881) che «[...] per duemila anni l’Italia ha portato in sé un’idea universale capace di riunire il mondo, non una qualunque idea astratta, non la speculazione di una mente di gabinetto, ma un’idea reale, organica, frutto della vita della nazione, frutto della vita del mondo: l’idea dell’unione di tutto il mondo, da principio quella romana antica, poi la papale. I popoli cresciuti e scomparsi in questi due millenni e mezzo in Italia comprendevano che erano i portatori di un’idea universale, e quando non lo comprendevano, lo sentivano e lo presentivano. La scienza, l’arte, tutto si rivestiva e penetrava di questo significato mondiale. Ammettiamo pure che questa idea mondiale, alla fine, si era logorata, stremata ed esaurita (ma è stato proprio così?) ma che cosa è venuto al suo posto, per che cosa possiamo congratularci con l’Italia, che cosa ha ottenuto di meglio dopo la diplomazia del conte di Cavour? È sorto un piccolo regno di second’ordine, che ha perduto qualsiasi pretesa di valore mondiale, [...] un regno soddisfatto della sua unità, che non significa letteralmente nulla, un’unità meccanica e non spirituale (cioè non l’unità mondiale di una volta) e per di più pieno di debiti non pagati e soprattutto soddisfatto del suo essere un regno di second’ordine. Ecco quel che ne è derivato, ecco la creazione del conte di Cavour!».

 

 

4. Necessità di una nuova analisi del Risorgimento che non delegittimi lo Stato unitario

 

Quello che, con poche eccezioni, ci è stato tramandato come il mito fondante della nazione italiana, cioè l’unificazione della Penisola sotto la dinastia dei Savoia, ci è stato così abbondantemente descritto come impresa gloriosa che nessuno doveva osare mettere in discussione, che al Risorgimento hanno voluto ispirarsi sia i partigiani del 1943-1945 — che con i loro drappi rossi rivendicavano una continuità ideale con i garibaldini —, sia le forze armate della Repubblica Sociale Italiana, che usarono l’inno di Goffredo Mameli (1827-1849) e tutta l’iconografia risorgimentale per incitare la popolazione a resistere contro l’invasore straniero.

Da qualche anno, però, gli studi sulla storia del processo unitario italiano hanno avuto una vera rinascita di interesse e alcuni storici, soprattutto cattolici, ma non solo — penso per esempio a Ernesto Galli della Loggia o a Emilio Gentile —, hanno iniziato a riscuotere una consistente eco nel dibattito culturale italiano rimettendo in discussione con i loro studi e interpretazioni la vulgata risorgimentalista. Dall’attuale rinascita storiografica è scaturita quindi una rivisitazione intelligente e veritiera dell’intero quarantennio risorgimentale (1830-1870) e delle sue conseguenze — in pratica dell’intera storia italiana degli ultimi due secoli.

Si è quindi finalmente aperto uno spiraglio per una storiografia che vuole prendere in seria considerazione anche il punto di vista dei vinti, in primo luogo quello della Santa Sede e della parte cattolica del Paese, che hanno subìto profondi contraccolpi dall’unità d’Italia, cui è seguito da parte dei nuovi arrivati al potere una delegittimazione culturale e civile di cui ancora oggi si paga lo scotto.

Di recente Galli della Loggia ha riconosciuto come «[…] doveroso riaprire una nuova analisi del Risorgimento a condizione però che non si delegittimi lo Stato unitario». In verità le critiche che al processo unitario italiano sono state avanzate negli ultimi anni da parte della maggior parte degli storici, cattolici e non, non sono affatto finalizzate a delegittimare l’odierno Stato italiano, che, al di là delle preferenze politiche, anche di quelle relative alla forma dello Stato, oggi nessuno di essi pensa di mettere in discussione, altrimenti si dovrebbe parlare di una storiografia con finalità propriamente politica e, in un certo senso, eversiva. Altro discorso è però l’essere ideologicamente tacciati di lesa maestà istituzionale se, documenti alla mano, si descrive come, dopo il 1861, i Savoia e i governi auto-proclamatisi liberali hanno dato vita a uno Stato semi-tirannico, che ha governato nel più assoluto spregio dei dettami dello Statuto albertino  e, aiutati da gruppi protestanti e massonici, hanno cercato d’imporre anche in Italia le stesse forme religiose e civili derivate dalla Riforma, innanzitutto attraverso la soppressione degli ordini religiosi e delle organizzazioni assistenziali cattoliche, le benemerite opere pie.

 

 

5. L’Italia era solo «un’espressione geografica»?

 

A esser rimesse in discussione sono in primo luogo le trovate propagandistiche dei risorgimentali che, ideate in tempo di guerra, ci sono state fino a oggi acriticamente tramandate, non solo come verità, ma come parole d’ordine e vessilli dell’identità nazionale. Prendiamo per esempio la demonizzazione che è stata fatta dell’Impero asburgico e, funzionalmente alla preparazione dei moti in Italia settentrionale del 1848, del principe Klemens Wenzel Lothar von Metternich Winneburg (1773-1859). «L’Italia è solo un’espressione geografica», avrebbe spregiativamente detto l’odioso Metternich a proposito delle istanze nazionali unitarie avanzate dai risorgimentali. Grazie a uno studio di un diplomatico italiano, Fausto Brunetti viene finalmente documentato che la celebre frase non rappresenta altro che un apocrifo. Non fu pronunciata infatti da Metternich o, se lo fu, non fu espressa in quei termini sprezzanti che fecero infuriare generazioni di patrioti. L’espressione, piuttosto, secondo il diplomatico, fu il prodotto di una manipolazione operata, per la causa patriottica, dalla stampa liberale italiana del 1848, dunque un’operazione di propaganda mirata a suscitare una reazione anti-austriaca. Il Cancelliere asburgico scrisse il celebre aforisma in francese il 2 agosto 1847, in una nota inviata al conte Moritz Dietrichstein-Proskau-Leslie (1775-1854), in questi esatti termini: «L’Italia è un nome geografico». Non solo quindi mancava ogni accento spregiativo — introdotto dall’avverbio limitativo «solo» —, ma il giudizio continuava in senso meramente politologico: «La penisola italica è composta di Stati sovrani, reciprocamente indipendenti». Il giudizio di Metternich — il quale, nel medesimo dispaccio del 1847, aveva applicato un identico appellativo «geografico» anche alla realtà tedesca — venne abilmente sfruttato dal quotidiano Il Nazionale di Napoli, diretto dal liberale Silvio Spaventa (1822-1893) — un anno dopo esser stato formulato, e cioè nel calore dei moti del 1848, i quali nell’Italia settentrionale saranno repressi appunto — guarda caso — dalle truppe del  Cancelliere austriaco. A più riprese in quel marzo e in prima pagina, infatti, il giornale — che peraltro il 10 marzo aveva dato la traduzione corretta del dispaccio asburgico, ma in lettere piccole e in pagina interna — scagliò i suoi editoriali contro la «tenebrosa diplomazia» austriaca, colpevole di umiliare «24 milioni d’intelligenti e forti» italiani che invece l’unità della patria «[…] l’avvertono, la riconoscono, se n’esaltano»: «L’Italia non è che un’espressione geografica, scriveva il Principe di Metternich».

C’era bisogno dunque di un «nemico», all’epoca, di un bersaglio contro cui indirizzare e grazie al quale moltiplicare l’indignazione montante dei patrioti contro l’influenza in Italia e il rigore in Lombardia del governo austriaco; e i giornali liberali italiani l’ottennero replicando all’infinito l’«of­fe­sa» e la presunta alterigia del Cancelliere viennese.

 

 

6. L’istituzionalizzazione della Rivoluzione italiana e Pio IX

 

La nuova storiografia — o storiografia «anti-conformista», come preferisco dire in antitesi all’ambigua dizione di «revisionista» —, come accennato, è prevalentemente originata da studiosi cattolici, liberatisi dalla subalternità culturale che è stato un fenomeno prevalente durante tutta la cosiddetta Prima Repubblica. Se il pensiero cattolico ha infatti avuto nel Novecento alte espressioni nel campo teologico o in quello degli studi filosofici, esso è stato piuttosto debole nel settore storiografico. La storiografia cattolica, a partire almeno dal Concordato del 1929, si rivela infatti quasi del tutto subordinata ideologicamente alla cultura dominante, fosse essa quella fascista o quella gramscista e azionista del dopoguerra. A questo proposito è emblematico l’atteggiamento tenuto nei confronti di Papa Pio IX — Giovanni Maria Mastai Ferretti (1792; 1846-1878) —, un Papa il cui pontificato ha coperto un arco di trent’anni, cioè tutto il Risorgimento, e la cui figura è stata via via rimossa dalla memoria storica, come se fosse la pietra d’inciampo che i cattolici volevano a tutti costi evitare. La figura del beato papa Mastai, rimossa dalla cultura dominante per permettere l’istituziona­liz­za­zione di quel Risorgimento che è stato in realtà, in analogia con l’Ottantanove francese, la Rivoluzione italiana, è oggi però al centro di un rinnovato interesse di studi che costituisce la base per la rinascita della storiografia cattolica del secolo XXI.

 

 
 
 
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