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CONFERENZA DEL SIGNOR LUCIANO BIANCIARDI

Post n°80 pubblicato il 24 Maggio 2011 da ninolutec
 

 

CINEMA
-Parte Seconda-

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL CIRCO -Trama.

Charlot, assunto come inserviente in un circo, suscita, con i suoi gesti maldestri, l'ilarità del pubblico che, richiamato dalla sua presenza, accorre sempre più numeroso.
Pur senza saperlo, egli diventa ben presto l'attrazione numero uno dello spettacolo, ma, mentre il circo prospera,la sua posizione e la sua paga restano uguali. Finalmente, una giovane trapezista sua amica, Myrna, gli rivela la verità, riuscendo a fargli ottenere un aumento di stipendio.
Segretamente innamorato di lei, Charlot si illude, in seguito alla predizione di una chiromante, di essere l'uomo destinato a sposarla. Il fortunato, invece, è Rex, l'equilibrista. Divenuto incapace di far ridere e, per questo, minacciato di licenziamento, Charlot si allena segretamente sulla corda per diventare come Rex e una sera, in sua assenza, viene chiamato a sostituirlo. La sua esibizione scontenta il proprietario ed viene licenziato.
Per stargli accanto, Myrna abbandona il circo, ma Charlot, generosamente, fa in modo che Rex la raggiunga e la sposi.

 FILMATI

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL GRANDE DITTATORE- Trama.

Un barbiere ebreo che in seguito a ferite riportate nella guerra mondiale del 1915-18 aveva perso la memoria, dopo molti anni di degenza in un ospedale ritorna nella sua città in Germania dove riapre il suo negozio. Egli capita però in un periodo in cui il dittatore che governa il Paese, ha iniziato una feroce lotta contro gli ebrei ed il malcapitato deve subire una marea di soprusi. Aiutato da una povera fanciulla sua correligionaria per la quale nutre dei sentimenti di affetto, egli fa subire spesso ai ridicoli ed inumani sgherri del dittatore - il quale viene tratteggiato con sapida caricatura - dei gustosi smacchi. (ComingSoon.it)

Sogna mai ad occhi aperti? Io sì.
Non solo Hanna, ma tutti quanti, dal barbiere-Charlot al dittatore, e più di tutti il regista, sognano. Chaplin dà forma a questo sogno rappresentando il ‘grande sonno’ europeo, il periodo di messa al bando della libertà e non solo di quella (ma siamo nel 1940, e l’abominio nazista non è ancora palese).
Attraverso il sogno del dittatore tomanico – la conquista del mondo – Chaplin chiede la parola: ha deciso di parlare di schiavitù e libertà, di disperazione e speranza. Lo fa con tutta la maestria di quasi trent’anni di comicità, servendosi del suo sognatore: uno Charlot estraneo (come al solito) al suo tempo, anche se si parla di un tempo al quale non è possibile sottrarsi e c’è bisogno, per giustificarlo, di ricorrere a un’amnesia. Ma la sua ‘voce’, udita una sola volta nel finale di Tempi Moderni, non può che essere in linea col personaggio: nel momento in cui il barbiere ebreo inizia il suo accorato appello, scompare (per sempre) Charlot.
Un uscita di scena in grande stile, davanti a milioni di spettatori: la sua ultima caduta dalla sedia, l’ultima indefinibile camminata arrivano al termine di un parallelo ardito e memorabile. Chaplin-Charlot e Hitler-Hynkel, con una condanna a priori (la didascalia iniziale) ed una a posteriori (quasi un pentimento, stando alle parole del regista), ma lungo la strada una miriade di trovate più o meno geniali e sempre divertenti. L’enorme proiettile che gira su se stesso è una dichiarazione d’intenti, cui seguono giochi di citazioni storpiate e gag in vecchio stile, con la divisa di Herring privata delle medaglie e dei bottoni o intermezzi non-sense quali i test delle invenzioni.
Il culmine del comico è raggiunto con la visita del dittatore di Batalia Napaloni, due caricature a confronto col povero ‘Fui’ che ne subisce di tutti i colori prima di sbarazzarsi dell’alleato-rivale grazie al consiglio di Garbitsch, ministro della propaganda (la rappresentazione dei due scudieri di Hynkel meriterebbe un discorso a parte, ma tra i personaggi di contorno sono i più azzeccati).
Non solo risate, comunque, nel continuo riflettersi di barbiere e dittatore; tra le scene più forti, sia a livello di immagine che di significato, Hynkel che danza (con Wagner in sottofondo, scelta ponderata) giocando con la Terra, per l’occasione un enorme pallone: non appena esplode, il cambio di scena è istantaneo e, al ritmo della Danza ungherese n° 5 di Brahms, tocca al barbiere compiere le proprie evoluzioni.
Fin qui l’immagine, il gioco, l’allusione: dove non arrivano queste, o la musica, Chaplin si arma della parola: Hanna, guarda in alto. Ascoltate. Il finale non è cinema, è amore. (Glauco Almonte, cinemadelsilenzio.it).

Che cosa potevano avere in comune Charlie Chaplin e Adolf Hitler? Il primo dava la vita a Charlot, magnifico grande ometto con i pantaloni sformati e la bombetta. Quello che così metteva in scena era un io multiplo, un io in continuo movimento, come se nessuna identità potesse contenere tutta la sua umanità. Proprio in questo inarrestabile transitare da un io all’altro Dolf Sternberger ( Ombre del mito, il Mulino) indica il cuore della sua comicità. E a noi pare che qui stiano anche il suo amore per la ricchezza della vita e la sua capacità di suscitare quello stesso amore in milioni di altri piccoli uomini e piccole donne.
Hitler, invece, era refrattario al comico. I suoi collaboratori - tra le testimonianze c’è anche quella di Albert Speer - non ricordavano d’averlo mai visto ridere. E infatti non amava dare la vita, ma la morte. Quanto a sé, si era imprigionato in un io ipertrofico e di pietra, in un "io in uniforme", come se in ogni momento temesse di perdersi nella ricchezza del mondo, nelle sue belle dissonanze. Qualunque mutamento lo terrorizzava, che si trattasse di visi e di lingue, o anche solo di abitudini e di vestiti.
Come osserva James Hillman ( Il codice dell’anima, Adelphi), il mondo era per Hitler di ghiaccio, morto e rigido al pari del ghiaccio. Infatti, al contrario di quella di Chaplin, la sua "messa in scena" rendeva di ghiaccio e riduceva in uniforme l’anima di milioni di piccoli uomini e di piccole donne, e li immiseriva. Quest’uomo - scrive di lui Gunther Anders nel 1928, attirandosi l’ironia dei molti che lo consideravano niente più che un "imbianchino" folcloristico -, quest’uomo, dunque, parla e scrive "in modo così volgare da diventare irresistibile per chi è volgare e attirerà chi non è volgare, tanto da renderlo volgare".
Durante le riprese di The Great Dictator, poi uscito a New York il 15 ottobre del 1940, anche per studiare e imitare la voce e i gesti di Hitler, Chaplin guardava e riguardava i cinegiornali nazisti. E si infuriava. E imprecava. Più d’ogni altro lo "affascinava" e lo mandava in collera quello famoso che mostra il Fuhrer nel giorno della resa francese, il 22 giugno del 1940 a Compiègne. Appena sceso dal treno, Hitler "pareva accennare a un passo di balletto": così racconta David Robinson ( Chaplin. La vita e l’opera, Marsilio) che però, con singolare leggerezza storiografica, anticipa il fatto di circa otto mesi.
Lo stesso cinegiornale è ricordato da Erich Fromm, in uno studio dedicato alla distruttività e alla necrofilia di Hitler, oltre che, appunto, alla sua totale mancanza di senso del comico (Anatomia della distruttività umana, Mondadori). Il Fuhrer, scrive, aveva una strana espressione da "annusatore", "come se sentisse costantemente dei cattivi odori". La cosa è testimoniata "da parecchie fotografie, sulle quali non mostra mai una risata franca, aperta". E proprio a Compiègne - conclude Fromm, in sintonia implicita con Chaplin e quasi indicando i motivi profondi della sua collera -, appena sceso dal treno e al colmo della felicità, "Hitler eseguì una piccola "danza", battendosi con le mani sulle cosce e sulla pancia con una brutta smorfia, come se avesse appena inghiottito la Francia".
Che cosa avevano in comune, dunque, il comico innamorato della vita e il dittatore innamorato della morte? Niente, a parte la propensione alla messa in scena e la data di nascita quasi identica (il 16 e il 20 aprile 1889). E però, ripensandoci, c’erano anche quei loro baffetti tanto simili: volutamente comici nell’uno, involontariamente grotteschi nell’altro. Per di più, negli anni 30 del secolo scorso qualcuno sospettava che Hitler se li fosse fatti crescere quasi per appropriarsi della notorietà di Chaplin. Fromm direbbe: per inghiottirla, come avrebbe fatto per la Francia e, se mai ci fosse riuscito, per il mondo intero.
In ogni caso, e non solo a ragione di quei baffetti, finisce per manifestarsi una sorprendente "comunanza" proprio fra Adenoid Hynkel - isterico Fuhrer di Tomania, in combutta con il chiassoso Benzino Napaloni (Jack Oakie), vanaglorioso duce di Bacteria - e il piccolo barbiere ebreo (Chaplin non era ebreo ma, di proposito, solo dopo la guerra smentì la voce contraria che s’era diffusa anche a causa del film).
Transitando una volta di più di io in io, dunque, alla fine di Il grande dittatore Charlot entra nell’io di pietra di Hynkel/Hitler. Così, il "grande ometto" con i pantaloni sformati e la bombetta vince il "piccolo ometto" imprigionato nel ghiaccio dell’uniforme. E poi, quasi uscendo dal film, Charlie Chaplin si carica dell’angoscia del suo tempo e pronuncia parole che, 62 anni dopo, ancora invocano la vita contro la morte.
(Roberto Escobar, Il Sole-24 Ore)

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