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“Laboratorio di scrittura” di fine Ottocento-Esaltazioni e ansie dello scrittore

Post n°227 pubblicato il 02 Maggio 2010 da marialberta2004.1
 
Foto di marialberta2004.1

di Maria Alberta Faggioli Saletti da spigolature.net

Edmondo De Amicis, Scrivendo un libro, da Capo d’Anno, Pagine parlate, Fratelli Treves, Milano 1920. 

Un grande scrittore ha voluto comunicare “pagine parlate”, nel lontano 1897. E’ Edmondo De Amicis, ben conosciuto dai ragazzi di varie generazioni novecentesche, perché ha scritto il famoso Libro Cuore.

Ebbene, De Amicis ci conduce nel suo “laboratorio di scrittura”, con pensieri e parole appassionate, talora trascinanti, che vale la pena di ripercorrere, per comprendere le esaltazioni e le ansie di chi assume l’impegno di scrivere, e per aprire una piccola discussione su questo delicato e sempre attuale argomento.

Per uno scrittore conta anzitutto l’IDEA. Fra le tante idee che passano per la “piazza” dei pensieri, l’idea cattura come un innamoramento istantaneo.

Solo l’idea assicura uno stato piacevole di libertà e di allegrezza che fa godere la gioia pura del lavoro intellettuale “non rotta ancora dalla fatica né turbata da alcuna diffidenza e da delusione”. L’idea è come un tesoro che si vorrebbe tener segreto e invece lo si racconta al primo amico che s’incontra per la strada.

C’è poi il lavoro della PREPARAZIONE, quando si dà ordine al materiale sparso nei quaderni, sui margini di libri e in foglietti volanti.

Se si tratta di un romanzo o di un racconto, i personaggi danzano intorno all’autore, “s’accozzano, si parlano ed operano e gli risuonano dentro come le note sparse di una sinfonia vasta, ancora confusa e dolcissima”, che sembra la voce stessa della propria gioventù incantata.

Quando si passa al LAVORO sulla propria idea allettatrice, si pensa di dedicarle solo il tempo che non si saprebbe impiegare altrimenti, con libertà di spirito e di piaceri mondani. L’idea è una bella signora, un’amica cara a cui affidare l’anima.

In capo ad un mese l’amica si rivela una sirena bugiarda. L’idea afferra lo scrittore per i capelli e gli “fa curvare la fronte sul tavolino a ogni ora del giorno, e poi della notte, quando ella voglia e per quanto tempo le piaccia”.

Per fare che? Per esprimere l’ultimo pensiero nato, riscrivere una frase che stride, correggere una “virgolatura che rompe l’onda del pensiero”, cancellare un monosillabo ingombrante, cambiare una parola che stona.

L’idea è diventata la febbre che cessa se ci si svaga e che abbandona se non riceve tutta l’anima.

Quando nascono i dubbi (“a che pro” faticare così duramente?), l’autocritica (ripeto concetti antichi e pensieri comuni, forme e artifici che sono ormai un ritornello), gli interrogativi sul potente stimolo dell’ambizione o sulle grandi speranze che l’alimentavano, il ricordo delle delusioni patite, tutto risulta freddo e vuoto, i personaggi sembrano falsi, i fatti narrati risultano volgari, i legami grossolani e il linguaggio retorico.

Anche il pensiero del tempo e del mondo turba lo scrittore, chiuso nella produzione artistica  della sua idea, ma consapevole di essere estraneo al mondo che cammina, pensa, parla, legge e opera, e convinto del rischio di ritrovarsi povero e lasciato addietro, alla fine del suo libro: lo scrittore non compie servigi insigni, non fa scoperte né grandi opere di beneficenza.

Per non parlar dello sgomento per il lavoro altrui, per le lodi date a capacità che gli mancano, a intenzioni da cui dissente…Suonano presagio sinistro e “destano nel cuore il serpe dell’invidia creduto morto, che guizza fuori, s’avvolge attorno alla penna e la ferma anche a mezzo delle ispirazioni più fortunate”.

Ai fantasmi della scrittura si mescolano altri fantasmi, quelli dei critici che aspettano con le armi affilate nel pugno. Lo scrittore li conosce tutti, perché gli si presentano attorno al tavolo di scrittura: nemici antichi che assalgono a viso aperto, furiosi; amici maligni che con una mano piantano una lama corta nel fianco e con l’altra carezzano la fronte; emuli inveleniti, vecchi pedanti che lo perseguitano da anni con fredda ferocia; giovani audaci, bollenti d’ambizione, insofferenti d’indugi, che vogliono passare sul corpo dello scrittore il quale sente le trafitture, gli scherni, le percosse di tutti. Da questi critici sarà condannato, con un tratto di penna o con l’indifferenza, il frutto di tante fatiche e insonnie, di “torture dei nervi, del cuore e del cervello”.

“Che miseria e che vergogna!”

Lo scrittore che teme di aver compiuto solo errori, prova dapprima odio per il lavoro e sdegno di se stesso, poi cerca libertà nelle fatiche del corpo o in un viaggio, si dà agli amici e ai parenti: si ribella all’idea.

Ma improvvisamente l’idea lo riafferra ed egli cede ancora una volta, nella speranza di soffrire meno, obbedendo. Ed ecco il miracolo: “appena ripreso il lavoro, l’opera si riabbellisce, la fede rinasce, le forze risorgono, tutte le speranze spente si rinfiammano in un incendio di entusiasmo e di gioia”.

L’idea, anche nel cuore della notte, presenta a chi scrive l’importanza di ogni sacrificio: non resta al mondo nessuna gioia più forte e più sicura della sua idea, e in tutto fuor che in lei troverebbe delusioni e amarezze, perché lo scrittore ha in sé le “facoltà intellettuali dell’età bella” fortificate dall’esperienza e dallo “studio assiduo delle facoltà altrui”.

L’idea lascierà libero per sempre lo scrittore solo quando la scaccerà dal suo capezzale la morte.

 
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