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COME SI E' FATTA L'ITALIA

Post n°268 pubblicato il 01 Marzo 2011 da marialberta2004.1
 
Foto di marialberta2004.1

Maria Alberta Faggioli Saletti

Onorata Grossi Mercanti, Come si è fatta l’Italia. Storia del Risorgimento Italiano, narrata ai fanciulli. Brevi racconti per la terza classe elementare, Libro di testo per molte scuole del Regno, sesta edizione riveduta, con illustrazioni originali di Enrico Mazzanti, Bemporad, Firenze 1897, rist. Arnaldo Forni Ed., Bologna 2010, Introduzione di  Pietro De Leo.

L’inizio della storia nazionale italiana-Radici comuni-Cultura di base collettiva-Fonti autentiche del Risorgimento

L’autrice raccoglie, in successione cronologica, dal 1815 al 1870, 70 brevi racconti per la terza classe elementare, scritti  secondo le indicazioni ministeriali. Ella cioè presenta la storia del Risorgimento così come la si spiegava ai ragazzi, alla fine dell'Ottocento.

E’ l’inizio della nostra storia nazionale che l’insegnante ripercorre per consegnarlo ai “fanciulli”, evidenziando quei meriti eroici che hanno segnato i valori della nostra tradizione risorgimentale. Ed è un racconto celebrativo ma non acritico. Ne è un esempio il giudizio sulla Prima guerra per l’indipendenza: “gloriosa ma non fortunata”, e la citazione dei tanti bambini e giovinetti, donne e vecchi che hanno partecipato alla sanguinosa difesa di Venezia nel 1849. Anche donne, bambini, ragazzi e vecchi hanno lottato nel Risorgimento, sacrificando la propria vita (p. 61).

Forse è per questo che non vengono risparmiati i particolari crudi come il racconto contenuto nelle Prigioni del Pellico, del tumore ad un ginocchio di Pietro Maroncelli curato con l’amputazione della gamba (p. 16), e l’immagine delle donne e dei bambini di Milano infilati sulle baionette dei soldati imperiali nel ’48 (p. 39).

Ai “fanciulli”, la maestra segnala che i luoghi della memoria capaci di contenere radici comuni, non sono solo località geografiche care, bensì, e in aggiunta, proverbi e sentenze giudiziose, detti, motti, il fiume dell’aneddotica, inni patriottici, componimenti in versi e in prosa mandati a mente in ogni parte della penisola, che in brevissimo tempo hanno composto la tradizione orale del Risorgimento con varianti locali. Una tradizione eroica sostanziata da eroici valori, da passione civile (amor di Patria e voglia di libertà).

Vale la pena di soffermarsi su questi aspetti. Come detto, sono citati, proverbi ed espressioni giudiziose (“morto un Papa se ne fa un altro”, “non era riuscito a farsi amare da alcuno e si era invece acquistato l’odio di molti”, p. 35”), motti (ad esempio quello della Giovane Italia “Dio e Popolo, Pensiero e Azione”, p. 25), un grido, come quello di Garibaldi, O Roma o morte, p. 88, gli inni patriottici, eseguiti dalle fanfare militari e cantati dai soldati (Inno di Carlo Alberto, di Giovanni Prati, ma con musica trovata “dal popolo” per cantarlo “in ogni parte d’Italia”, p. 34; Inno del Re, Delle spade il fiero lampo”, scritto dal deputato Brofferio, e messo in musica dal Maestro Brizzi, p. 90, Inno di Garibaldi, “Si scopron le tombe”, di Luigi Mercantini, musicato da Alessandro Olivieri, Capobanda della Brigata Savoia, pp. 74-75). Concorrono a formare una cultura di base collettiva i versi dei poeti, di Manzoni, Giusti, Berchet, Mameli (c’è l’inno nazionale Fratelli d’Italia), di Arnaldo Fusinato per la caduta di Venezia nel 1849, Venezia, l’ultima ora è venuta, gli scritti di Cesare Balbo, Vincenzo Gioberti, Massimo D’Azeglio, Mazzini. A loro sono da aggiungere le creazioni di pittori, scultori, musicisti (Rossini, Verdi, Donizetti, Bellini) conosciute e ammirate in tutta l’Europa. Insomma, viene raccomandata l’attenzione anche a quelle che gli storici definiscono fonti iconografiche e musicali.

Interessante, perché ricondotta alle radici novellistiche italiane, è anche l’analisi della nascita di un personaggio mitico ed esemplare come Garibaldi chiamato “Eroe dei due mondi” e “Cavaliere dell’umanità”. Il racconto, sostiene l’autrice, fa pensare a “quelle strane novelle in cui i cavalieri fatati abbattono fortezze, atterrano maghi, uccidono giganti”, nelle quali essi sono di esempio per il loro valore e la capacità di trascinare dietro di sé i giovani migliori, tanto che le loro “mirabili gesta” vengono raccontate “dal popolo” (p. 28).

In grande evidenza l’importanza dei giornali che, oltre a dare informazioni, accolgono scritti dei Carbonari, di Mazzini e dei Mazziniani, tendenti a destare nel “popolo” sentimenti di libertà e d’indipendenza. I giornali che, come gli scritti, vengono stampati di nascosto, che possono essere acquistati e “prestati a leggere” (pp. 14, 24-25).

La tradizione orale (proverbi, detti, motti, aneddoti), con la sua dichiarata fedeltà a testimonianze oculari e al riscontro di persone fidate, i componimenti poetici, le opere letterarie e speculative, i giornali, come in ugual modo pitture, sculture, musiche, targhe, lastre e lapidi, rappresentano per l’autrice  testimonianze indubbie di un cammino compreso ed accompagnato dall’opinione pubblica ampia e popolare, cioè sono autentiche fonti del Risorgimento. Del resto sappiamo che molte carte risorgimentali sono state bruciate da soldati e sbirri, quindi le fonti documentarie risorgimentali sono troppo spesso lacunose, interessate o di parte.

Il dialogo con i “fanciulli” d’Italia, bambini attenti e partecipi che, come in classe, sottolineano le parole dell’insegnante con domande cui ella risponde “state a sentire”, inizia con la presentazione di una cartina e con la descrizione dell’Italia divisa in 7 stati maggiori (Stati Sardi composti da Piemonte, Liguria, Sardegna, Regno Lombardo Veneto, Ducato di Modena e Reggio, Ducato di Parma, Stato Pontificio, Toscana, Regno delle Due Sicilie), e altri principati minori. L’elenco serve a far capire  quanti fossero “i tiranni” della povera Italia, per poi proseguire con la spiegazione che ci sono, nel 1815, “prìncipi cattivi e feroci come il Borbone di Napoli, prìncipi buoni e affettuosi che non hanno grande intelligenza e altri come Carlo Alberto di animo liberale” (pp. 6-10). Una parzialità evidente, ma considerata necessaria.

Il racconto cronologico sottolinea alcune date fondamentali per l’autrice. Eccone un solo esempio, relativo al 1821. Nel 1821, racconta la maestra, i Re potevano persuadersi “ad accordare al popolo maggiore libertà e a sostituire al governo dispotico (tirannico)…un altro governo in cui, insieme col re, trattassero degli affari dello Stato e facessero le leggi alcuni cittadini eletti dal popolo. Queste riforme dovevano essere stabilite con una legge fondamentale chiamata Costituzione che il Re doveva concedere, obbligandosi con giuramento ad essere il primo a osservarla lealmente e scrupolosamente” (p. 11). Così un principe non regnante degli Stati Sardi, Carlo Alberto di Carignano, ramo della Casa Savoia, promette di concedere la Costituzione al suo popolo e di “muovere guerra all’Austria, causa prima di tutti i mali che affliggono l’Italia”. Scoppia dunque la rivoluzione a Torino, con la partecipazione del popolo e dei soldati. Le repressioni comprendono confisca dei beni e anche condanna all’esilio o alla morte, oppure all’impiccagione “in effigie”, cioè si appendono fantocci con nome e cognome dei fuggitivi.

In quegli anni, tutti i rivoluzionari hanno come conforto lo studio, quando sia stato coltivato, l’amicizia, e la fratellanza senza distinzioni di censo nelle situazioni difficili. Tra i primi capi dei cospiratori, i Carbonari piemontesi Santorre di Santarosa, Giacinto di Collegno, Carlo di San Marzano, Guglielmo Moffa di Lisio, e Federico Confalonieri; tra i primi prigionieri, Silvio Pellico e Pietro Maroncelli che trascorsero 10 anni incatenati nella fortezza austriaca dello Spielberg. I patimenti del Pellico sono i più conosciuti perché egli li ha descritti nel libro Le mie prigioni. Tra i giovani Carbonari, don Giuseppe Andreoli, professore “di eloquenza” (arte di saper parlare) che, dopo la condanna a morte da parte del Duca di Modena, urla per comunicare agli altri carcerati l’umiliazione di essere stato spogliato degli Ordini sacri e di venire accusato di confidare solo in Dio, mentre si trova soltanto in un orribile carcere. L’ultimo ricordo di sé, il taglio dei capelli prima dell’esecuzione, don Giuseppe lo dedica alla madre (p. 14).

(continua)

 
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