Post n°43 pubblicato il 21 Maggio 2012 da psico_crazia
Ci sono giorni di Maggio in Sardegna in cui il pallore dell’aria ricopre la campagna di una tristezza vaghissima. Quella malinconia sottile che procura il senso di qualcosa di indefinito. Come un nodo alla gola. Che stringe. In quel Maggio, in quel preciso giorno, si può sentire la febbre sottile del mutamento. I vecchi dicono che se ti trovi in campagna in quel momento si può sentire con chiarezza lo stridore del seme che si apre, lacerato come da una lama. Si può sentire il canto della gemma e il lamento della terra, che è timore e sollievo.
In un giorno di Maggio di quelli, una donna non più giovane è in piena campagna, reduce da un sonno agitato, sbalzata fuori dal suo letto prima della luce dai suoi pensieri, condotta all’aperto dal giorno che nasce e da un’inquietudine insanabile. Nella solitudine dell’aroma di timo e del finocchietto selvatico, nella desolazione del rovo e del cardo, nell’attesa tremante del bocciolo di borragine e nella capsula di euforbia. Tutto intorno un sensazione che non ha nome. Qualcosa di indefinito. In quella donna batte un cuore come un uccello in gabbia. Un altro brutto sogno, talmente brutto che svegliarsi improvvisamente è stato sì precipitare, ma in qualche modo al tempo stesso anche salvarsi. Non parla, ma non perché non abbia nulla da dire. Misura con un altro metro tutte le dicerie delle donne al lavatoio. E corre fuori. Corre. Corre come può, tenendosi la franda* in grembo perché non l’intralci. Lasciando che il fazzoletto le scivoli via. Lontano. Lontano, fuori dal paese, in aperta campagna, dove soffia maggio.
*La franda è un grembiule che copre le gonne degli abiti femminili della tradizione sarda
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