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Pubblicazione di brevi racconti e poesie

 

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" Se il matto persistesse nella sua Follia andrebbe incontro alla Saggezza " (W. Blake)



" Meglio che sia poeta a caschi morto... Essere pazzo è l'ultimo dei miei crucci " (J. Kerouac)


" Qualunque cosa dicano di me i mortali (so bene che la pazzia gode di pessima reputazione anche tra i folli più folli) ebbene sono io la sola, proprio io in carne ed ossa, grazie ai miei poteri sovrannaturali, a infondere serenità nel cuore degli uomini e degli dèi. La differenza tra un pazzo e un saggio sta nel fatto che il primo obbedisce alle passioni, il secondo alla ragione." (Erasmo da Rotterdam)



 

 

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Veneris vincula nescio

Post n°26 pubblicato il 11 Gennaio 2007 da Erebos
Foto di Erebos

Mi trovai, quasi per caso e quasi per un giocoso scherzo del Destino, nel Palazzo di Venere questa notte.
Quel Destino, che già innumerevoli volte mi aveva fatto cadere nei più elementari suoi tranelli, quel Destino con cui quotidianamente conbatto una battaglia persa solo per il gusto di sfidarlo, solo per il gusto di tenergli testa anche per un secondo, solo per il gusto di non farmi vedere vinto e lottare fino allo stremo delle futili forze umane per poi cadere al suolo sfinito, sudato, battuto, umiliato dalle sue grida miste a risa di giullare divino, ma con un masochistico desiderio di riprovarci il giorno a venire e quello dopo e quello dopo ancora fino a quando non avrò più una sola goccia di vita, con un sorriso che stupisce anche il mio dominatore che non si capacita della folle testardaggine di un essere inferiore...quel Destino che odio eppure è l'unico che mi fa sentire vivo.
Scusate, sto divagando...
La Dea della Luna, con il suo carro tirato da destrieri color d'argento, mi accompagnò benigna fino alla dimora di colei che tutti può incantare: mi disse addio con uno sguardo languido e triste, dopo di ché si voltò e sparì per sempre dalla mia vita. Ancora oggi, alcune notti, mi scopro ramingo cercarla tra i più disparati luoghi: oltre le stesse Colonne d'Ercole, in alto fino a doppiar l'Olimpo stesso, giù nell'oscuro Tartaro...conservo la sua immagine incisa nell'anima e nei momenti più bui la sua luce mi riscalda il cuore.
Il luogo in cui mi trovai è difficile a dirsi: una spiaggia bianca, più simile a nuvola, addormentata su acque di zaffiro, immacolate colline decorate da cedri e olivi sempre verdi che emanavano una fragranza inebriante, il lieve scampanellio di docili mandrie pareva una musica sublime in quella visione di sogno...e poi, eccolo lì, emergere tra una leggera bruma che rifletteva i raggi lunari facedo sembrare tutto assopito, il Palazzo di Venere: colei che lega con i suoi lacci gli innamorati.
Timoroso e con rispetto mi avvicinai all'immenso portone; non ero mai stato in un posto tale. La fattura di quella porta era sublime ed, intarsiate su di essa, vi erano le più delicate scene amorose che mai occhio umano abbia visto. Si aprì senza che nemmeno la sfiorassi. Un immenso corridoio, con imponenti colonnati, si ergevano alti, simili al Titano Atlante che sostiene la volta celeste come punizione per aver sfidato gli déi, per reggere un soffitto completamente in madreperla.
Una figura notai appena entrato nell'alcova divina: un giovinetto imberbe e mezzo nudo che teneva in mano uno strumento che ancora non riuscivo a distinguere nell'accecante luce. Sembrava non essersi accorto di me: quale preoccupazione poteva mai suscitare un essere umano in una creatura divina come quella? La pace dell'ambiente mi diede coraggio e così cominciai ad inoltrarmi nel lungo corridoio che terminava in una seconda porta velata da tende color del corallo. Piano piano che mi avvicinavo, quel curioso essere diventò sempre più distinto, fino a quando, che ingenuo che fui a non conoscerlo prima, mi fu evidente chi fosse: Cupido. Era seduto, quasi sdraiato, su un triclinio di seta turchese con ipnotici arabeschi in argento. Accarazzava il suo arco fatto di corteccia di salice piangente: Cupido possedeva vari archi fatti di diversi materiali e, in base allo scopo prefisso, ne utilizzava uno ben preciso. Quello che ora stava accordando, lo aspergeva continuamente di un liquido trasparente che traeva da una giara che recava la dicitura "lacrimae". Tale arco, unito alla corda specifica, che in tal caso era formata da Sospiri intrecciati a Languore, aveva lo scopo di sortire un preciso effetto. Già provavo compassione per il poveretto che sarebbe stato colpito dalla freccia scoccata con quell'arco. Infatti era atto a scatenare la più dolorosa forma di Amore, quello non corrisposto! Avvicinandomi, potevo avvertire in sottofondo dei bisbigli, simili a voci, ma quello che mi colpì era il loro tono lamentoso: sembrava un avera e propria giaculatoria e con quale intensità venivano profuse quelle suppliche. Mi notò pur senza osservarmi e così, sempre con una maggiore frenesia e curiosità che mi ardeva nel cuore, passai oltre.
Spostai delicatamente le tende di corallo e con una spinta decisa, ma non violenta, aprii il portone. Quale meraviglia, quale ricercato gusto estetico, quale sublime sensazione di calore e conforto!
Nella sofisticata luce azzurra, come se i raggi della luna, quando è al suo massimo fulgore, fossero stati rubati per essere ivi imprigionati, il talamo divino che ogni uomo disia si scorgeva appena: adagiato su un pavimento di marmo rosa, sembrava levitasse da terra ed una bruma soffice emanava da sotto il letto. Abituatomi alla luminosità del posto, cominciai a notare due figure addormantate: una era distesa con abiti discinti ed il suo capo, decorato da una fluente chioma di botticelliana memoria, andava ad adagiarsi sul ventre di una creatura, di foggia umana, con la schiena ritta ed appoggiata alla sponda del divin giaciglio. Un uomo d'aspetto pareva agli occhi miei e con quale dolcezza le accarezzava i capelli! Nella mano, che non era occupata in quel lieto passatempo, reggeva un fiore scarlatto dall'aspetto orientale: lo riconobbi, era il Fiore d'Oblio, il Fiore dei Poeti, il Fiore del Ricordo, il Fiore che può portare ai più alti piaceri o alle sofferenze più atroci...Il viso si poteva vedere in parte: degli occhi come la pece nei quali si perdevano i pensieri di chiunque li avesse fissati, una veste strappata di color blu come la notte, un'abbondante chioma nera e lucente che pareva animata e quelle mani bianche come gli spettri che abitano la notte! Mi accorsi che avvinghiati alle sue mani, uno per parte, vi erano due anelli, simili nella forma ma differenti nel colore. Quello sulla mano destra rifulgeva di una morbida luce azzurra, mentre l'opalescenza di quello di sinistra si attestava su toni violacei. Ciò che me li fece notare e classificare come oggetti fantastici, fu il loro costante movimento e l'intermittezza del balenio che emettevano: i colori non erano affatto immobili, ma sempre in rotazione su sé stessi, cangiando anche le loro gradazioni, in una danza ipnotica. Poi tutto mi fu palese: erano Angor, quello di sinistra, e Somnium, quello di destra. Qualora il Dio avesse toccato la testa del dormiente con Angor, i peggiori incubi ne avrebbero accompagnato il sonno, se con Somnium avesse accarezzato le chiome, allora i più sublimi pensieri avrebbero albergato nella mente.
continua...

 
 
 
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