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Missionari francescani del Rosario

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CHI SIAMO

 

L’ Associazione Secolare “Missionari Francescani del Rosario” si è riunita per la prima volta nel 2009 presso l’ospedale civile di Caserta. Si desiderava dar vita ad un’associazione di laici che vivesse nel mondo la missionarietà propria che scaturisce dal Battesimo, nella semplicità francescana, evangelizzando attraverso la preghiera del Rosario. Primo assistente spirituale dell'associazione è fra Rosario Perucatti ofmcap, ex cappellano dello stesso ospedale. Fra Rosario ha riunito intorno a sé volontarie e volontari ai quali ha dato mandato di recitare il santo Rosario della Madonna di Pompei insieme agli ammalati e ai loro familiari nella sala di attesa della rianimazione e nei vari reparti dell’Ospedale. Lo stesso fra Rosario ha poi dato vita ad una catechesi mariana, attraverso la Lettera Apostolica di Giovanni Paolo II, “Rosarium Virginis Mariae”, cui tutti erano chiamati a partecipare per acquisire una maggiore conoscenza del Rosario. Alla Missionaria dell’Immacolata Padre Kolbe Lucia Corcella, poi, è stata affidata una ulteriore catechesi sul valore ed il significato della missionarietà. È nata, infine, la tradizione di Solennizzare la festa della Madonna del Rosario il 7 ottobre: durante la Celebrazione Eucaristica, viene consegnato il mandato missionario a coloro che entrano a tutti gli effetti nell’Associazione. Oggi, l'“Associazione Secolare missionari francescani del Rosario”, nata dallo spontaneo desiderio di portare la parola di Dio ai fratelli, ha raggiunto una sua forma statutaria e continua ad operare anche al di fuori dell’ospedale e si offre a quanti sentono il desiderio di pregare.

 

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Il Vangelo

Post n°1506 pubblicato il 19 Aprile 2016 da mfr_caserta

Dal Vangelo secondo Giovanni
10, 22-30


Ricorreva, in quei giorni, a Gerusalemme la festa della Dedicazione. Era inverno. Gesù camminava nel tempio, nel portico di Salomone. Allora i Giudei gli si fecero attorno e gli dicevano: «Fino a quando ci terrai nell'incertezza? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente».
Gesù rispose loro: «Ve l'ho detto, e non credete; le opere che io compio nel nome del Padre mio, queste danno testimonianza di me. Ma voi non credete perché non fate parte delle mie pecore. Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».
Parola del Signore.

Commento al Vangelo, Giovanni 10, 22-30

Gesù rivelandosi a noi nella sua persona umano-divina ci si è fatto conoscere come l'inviato del Padre per la nostra salvezza. Si è posto nei confronti dell'umanità e di ogni uomo come il pastore buono, che ama, protegge e guida le sue pecore, è disposto a dare la vita per ognuno di esse. Si è chinato dinanzi alle sofferenze umane per assumerle su di sé, per condividerle, per confortare e guarirle. Si è posto dinanzi al peccato come perdono, dinanzi alla morte come risorto. Ha offerto a tutti segni evidenti perché lo riconoscessero come Figlio di Dio, come Messia e Salvatore del mondo. Eppure tra i suoi interlocutori, tra gli stessi testimoni dei suoi prodigi, tra gli stessi apostoli, e dopo di loro fino ai nostri giorni, c'è sempre qualcuno che non vuole credere. Gesù proclama oggi il motivo dell'incredulità: «Non siete mie pecore». Quel maledetto orgoglio, che ci ha rovinati sin dal principio, riemerge continuamente ad oscurare gli occhi dell'anima per privarci della verità. Essere sue pecorelle significa per noi assumere un atteggiamento di verità, di docilità e di umiltà, significa deporre l'orgoglio, che ci spingerebbe a cercare in modo autonomo i nostri pascoli, le nostre strade, le nostre sicurezze e convincerci invece che abbiamo bisogno di una guida, di un pastore, di una protezione sicura e costante. Risuona ancora nel mondo la domanda: «Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente». Tutto è già stato detto "apertamente", tutto è compiuto, il pastore ha dato la suprema testimonianza di amore, ha dato la vita, ha ricomposto il gregge nell'ovile, ha garantito la sua presenza, donàndosi come cibo e bevanda di salvezza, eppure ancora quanta incredulità, quanto orgoglio, quanta presunzione nell'uomo. Troppe sfide lo scoraggiano ad assumere la veste di pecora, troppi lupi rapaci si aggirano intorno all'ovile per spargere paura. Troppi schiamazzi assordanti impediscono di ascoltare la voce suadente del pastore. Gli stessi pastori, anch'essi spaventati, talvolta fuggono come mercenari e il gregge si disperde e i lupi rapaci entrano nell'ovile a fare strage. Ciò accade per mancanza di fede nel Pastore; non siamo ancora consapevoli della sua umile potenza; forse siamo tentati ancora di preferire un "capo" ad un umile pastore, egli però è il Figlio di Dio!

 

 
 
 
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