Creato da mad_giu il 19/04/2009
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A volte, ritornano.

Post n°25 pubblicato il 16 Settembre 2009 da mad_giu

Non è il nove del mese. E, se è per questo non è aprile.

Non è nemmeno serata.

Però, rovistando tra vecchi scritti. Ripesco questo.

Risale a quell’estate tanto citata. Estate duemilasette.

 

Non è esattamente “per” voi, né “per” te. Ma pensandovi e pensandomi.

 

C’è una cosa che mi voglio portare sempre dentro, fino a quando avrò memoria.

E, in questo caso, condividerla.

Una persona un giorno mi convinse che per relativizzare la mancata vicinanza di qualcuno, mi sarebbe servito un setaccio.

Mi munii di quell’aggeggio che avevo usato sempre e solo giocando, in mezzo alla sabbia, per ricavarne solo quella più preziosa. In quel momento mi costrinsi a crederci. Presi con una mano flashbacks, vari scatti mentali, ritratti di quella determinata figura, qualche tono di voce, qualche risata troppo rumorosa, nell’altra tenevo il setaccio. Sotto di me un contenitore di colore rosso, perché non avrei disperso mai, per nulla al mondo, nemmeno una briciola di chi mi aveva visto crescere. E così fu. Non persi mai nulla, e ancora tutt’oggi conservo.

Le “cose” più preziose le ho mangiate, di gusto. Il resto è nello sgabuzzino dei ricordi, terza corsia a destra, nella prima mensola, su cui sono appoggiate quelle tre scatole blu, distanziate tra loro da svariati libri.

Quello che è dentro, non esce più. Continua a crescere, moltiplicarsi, vivere dentro. Dentro me.

E io, del resto, continuo a vivere anche per questo.

 
 
 

Inizio a prepararmi...

Post n°24 pubblicato il 07 Settembre 2009 da mad_giu
 
Tag: Giulia

Quella casa ci era stata data in prestito, come anche quei giorni di vita mia.

Giorni di frasi su un quadernetto con in copertina il mio frutto preferito. L’uva.

Giorni di frasi in cui un imbarazzante “ti amo” in francese, suonava meno stonato che in italiano, scritto dai miei e ricambiato da me. Fame d’amore. Fame di quei “ti amo” non detti in precedenza. Fame di cibo. Fame di qualsiasi cosa. Di oggetti qualsiasi causata dalla mia cleptomania menefreghista più che tangibile. Di fili di lana intrecciati a formare maglioni, visto il freddo che avevo. Dentro.

Fame d’amore. Che non avevo mai ricevuto, o semplicemente di sentimenti di cui non ero capace di fare la fotosintesi clorofilliana, da cui ricavare quell’amore che sembrava l’antidoto.

Fame di sigarette. Precisamente di tabacco Golden Virginia, girato senza fine.

 

Quel monolocale a Parigi mi rispecchiava in tutto. L’ingresso costellato di attaccapanni e vestiti non nostri. Quel disordine mentale che non mi apparteneva e la mia vita annodata ad un filo di bava, per cui un’oscillazione in più o in meno avrebbe potuto essere fatale.

Elena. Mia madre. Dormiva con me. Su quel soppalco morbido, solo per il materasso e i tre cuscini che lo componevano. Lenzuola quasi ogni giorno nuove, così da dare ricambio alla polvere che aleggiava, ormai non più da nemica, sul mio corpo che non sternutiva più, per conservare quella minima energia che mi permetteva di respirare piuttosto che sternutire.

Giorgio, mio padre, dormiva in un bed&breakfast non più lontano di due vie.

 

Quella casa mi rispecchiava. Piccola abbastanza per me. Ma non per la mia malattia, che mi arrecava troppo dolore, per farmi capacitare dei 50 metri quadri e della difficoltà dei miei a gestire le mie preparazioni mattutine.

 

Era fine agosto, ma io senza le mie converse consunte, i leggins verde pistacchio, i jeans campionario 38 della sisley, la cintura a cui continuavo a fare buchi con qualsiasi cosa di appuntito trovassi sottomano, un paio di maglie e un maglione, scoordinato dal resto, non uscivo.

Ah, sì. La sciarpa. Quella che rubai appunto nell’appartamento.

Un pezzo di tessuto viola. A pois bianchi e gialli.

Non me la sarei mai scordata.

Quel qualcosa che mi scaldava la gola. Unico pezzo di pelle che mi rimaneva scoperto, al di fuori delle mani e del volto.

 

Era quel classico fine agosto in cui un po’ di pelle d’oca fa capolino e tu le dai il benvenuto, dopo il gran caldo. Ma per me non era un “classico”, non era categoricamente benvenuto quel freddo.

Era un altro ostacolo, nella mia corsa. Ormai non più tale.

Era un altro ostacolo, nella mia ostentazione di normalità.

Dovevo coprirmi. E mi vestivo a strati, a “cipolla”. Strati che però non toglievo mai, se non di sera. Per coprirmi con altri.

 

Erano già passati tre giorni, dopo tutte queste considerazioni climatiche.

Il giorno dopo il tour al Louvre, mi martellava nel sangue la richiesta di una risposta. La risposta comoda, facile, ma dolorosa che a casa arrivava doverosa e immediata, chiudendomi in bagno, nella mia intimità.

 

Qui il bagno era una sorta di bugigattolo di un metro e mezzo per altrettanto. Profumava sempre di buono, c’erano trucchi e creme non mie, sparse ovunque. Contenitori dell’ignoto che alimentavano la mia sete di avere qualsiasi cosa. Una trousse di trucchi Dior, mezzi usati, diventò mia dal primo giorno. I miei colori preferiti: dal beige al marrone, passando per l’oro.

 

Tra lavandino, vasca da bagno, qualche cassetto qua e là, il wc e lo scaldabagno si muoveva a malapena una persona, in quello stanzino. Io ero facilitata invece dall’esiguità di spazio che il mio stesso corpo riusciva ad occupare. Passavo delle mezzore accanto allo scaldabagno, sembravo ipnotizzata da quel marchingegno. In realtà era solo freddo. Freddo antipatico.

In realtà c’era anche la voglia di perdere tempo e di veder cominciare la giornata il più tardi possibile, di sviare qualche kilometro a piedi per quella città infernale. In quei giorni alimentavo la mia fobia per le scale. Troppe scale. Ovunque.

A volte mi venivano in soccorso quelle mobili, tra una metro e l’altra. Un po’ di conforto. Un po’ di corrente su cui accasciarsi ma da cui lasciarsi trasportare, comunque.

 

Quel 26 agosto, mi alzai molto prima del suono della sveglia. Incespicai tra le lenzuola azzurre e la scaletta in bilico che congiungeva il piano terra e il soppalco. Recuperai le ciabatte da quel tappetino smilzo e spelacchiato e con fatica, prima di accendere lo scaldabagno, mi privai del pigiama. Rovistai nel vuoto del mio zaino e incontrai l’unico oggetto di cui mi ero fatta carico per tutto il viaggio, nel bagaglio a mano, in aereo; tenendolo stretto durante il viaggio in taxi, fino a quando non siamo giunti a destinazione-casa.

 

Guardai la bilancia pesa alimenti, guardai il mio piede sinistro. Ad occhio ci sarei stata.

“Tanto devi reggermi per pochi secondi”, pensai.

“E poi non peso così tanto”, aggiunsi.

 

Entrai in bagno, chiudendomi la porta alle spalle. Non a chiave. Avevo paura di rimanere chiusa dentro.

Diedi vita a quell’oggetto.

Sullo schermo i cristalli liquidi si fecero nitidi all’istante: 00.

Lo appoggiai sulle piastrelle rosa su cui per contrasto rimanevano alcuni ricami di un rosa più acceso.

Feci fatica a risollevarmi. Mi sentivo la testa pesante e il collo privo di muscoli.

Feci perno con le mani sui fianchi e la schiena tornò a posto.

Posizione eretta. Ma non troppo.

 

Salii.

Confusione di numeri. Sembrava impazzita. Segnava numeri su numeri, ricambiandoli all’istante.

Sembrava una slot machine a cui dai il via e non si ferma mai.

Non ti fa vedere il risultato, si lascia desiderare e desiderare.

Ti fa illudere.

 

Caldo, troppo caldo mi stava assalendo. Non era lo scaldabagno di certo.

Stavo perdendo letteralmente il controllo.

Non poteva essere.

Dovevo vedere e avere il mio peso.

Riavere il controllo, dopo tre giorni in cui non lo avevo.

Mi sistemai meglio, in modo che quel numero quarantuno rientrasse completamente sulla pedana.

Rannicchiai un po’ le dita e stropicciandomi gli occhi…

 

La stessa serie infinita di numeri. Ricordo di aver intravisto un trenta.

Ricordo che quella stramaledetta indecisione della bilancia mi aveva stravolta. Una voce mi raccolse e la paura di essere scoperta mi ricondusse con un minimo di lucidità a tirare lo sciacquone.

 

 

 
 
 

Lettera a te.

Post n°23 pubblicato il 02 Giugno 2009 da mad_giu
 
Tag: Giulia

Mad, ciao.

Ho sempre per la testa questo pensiero. Di scrivere. Di scrivere in funzione di questo posto, che vorrei diventasse talmente immenso da impegnarmi la vita di ogni giorno, con domande su domande e altrettante risposte.

Ho sempre per la testa questo pensiero, da quando in un giorno qualsiasi era nata l’idea di scrivere qualcosa a quattro mani. Di scrivere, per raccontarci al mondo. Per non tenere nascosto al mondo il dolore, che ha preso anche noi, ma che (ahimè) accomuna un infinito numero di persone. Persone che ogni giorno ci passano accanto. Persone di cui non sappiamo niente. Ma di cui invece, sappiamo molto.

 

Ricordo ancora la nostra prima chiacchierata via messaggi privati, in quel sito, che non vale nemmeno la pena di nominare. Quel sito che mi ha tenuto compagnia in quell’estate, in cui il succedersi delle giornate non aveva più un senso.

Ricordo che lo stesso pomeriggio avevo l’ennesima seduta dallo psichiatra. Ricordo che appena uscita ho trovato un tuo messaggio in cui mi chiedevi com’era andata.

 

Ricordo la paura di un possibile incontro. Alla fine, cercato.

La paura mossa dal mio fisico ancora scarno, in confronto al tuo, modellato al punto giusto e bello.

La paura mossa, dall’essere totalmente nuda, nonostante gli svariati vestiti dettati dal freddo.

Nuda, di fronte a te. Di fronte ad una sconosciuta.

 

Appuntamento davanti a Sisley.

Erano le quattro e mezza, su per giù. La luce autunnale aumentava i chiaroscuri dei palazzi, sui volti della gente.

Di te, avevo solo intravisto una foto microscopica, ma dentro di me già conoscevo il tuo sorriso.

O per lo meno, lo immaginavo.

 

Eccoti. Ti guardavi intorno.

Io arrivavo dalla piazza. Il mio giro propiziatorio, il mio rito, prima di ogni incontro. Sempre.

Spiccavi tra tutti, forse in punta di piedi o forse no.

 

Ti guardo, e i tuoi occhi incontrano i miei. Capiamo. Capiamo che è il momento di salutarci.

Capiamo che è il momento di sorridere.

 

E ora ringrazio di aver capito. Subito.

 
 
 

Misure standard: sedici centimetri di alzata, trenta di pedata.

Post n°22 pubblicato il 02 Giugno 2009 da mad_giu
 
Tag: Giulia

Aggrappandomi ai corrimano, continuavo la salita per poi dedicarmi alla sfavorevole discesa.

Incespicavo. O forse nemmeno quello.

Non potevo contare di fare perno su uno dei due arti inferiori.

Erano uguali.

Danneggiati uguali.

 

Se la batteria era totalmente esaurita, fomentavo i miei “alti e bassi”, strisciando contro il muro.

 

Le scale scatenavano i miei deliri.

 

La sopportazione era al limite. Contavo tutti gli scalini. Tutti. Di qualsiasi luogo.

 

Le scale di quella casa a Parigi, ogni volta sembravano infine. A chiocciola.

La circolarità disorientava i miei sensi. Smettevo di contare.

 

La mia testa dimenticava il numero pensato due secondi prima.

 
 
 

Ticking away the moments that make up a dull day.

Post n°21 pubblicato il 31 Maggio 2009 da mad_giu
 
Tag: Giulia

Quelle mattine di luglio, si susseguivano.

Si rincorrevano.

Ma se il calendario segnava il numero 19, a me sembrava irrilevante.

Il tempo si era fermato? O si divertiva a superarmi, per poi doppiarmi?

 

Giorni uguali.

Congruenti.

Tutt’al più speculari.

 

Andare a letto mi sembrava la punizione peggiore a cui sottopormi.

Andare a letto aveva le sembianze di quell’atto che fa solo perdere tempo.

 

Quel tempo prezioso. Pietrificato.

Quella contraddizione che ancora mi permetteva di vivere, e non morire.

 

La sveglia non serviva più.

Ero in costante dormiveglia.

Il sonno non mi acchiappava nemmeno per sfinimento.

I sonniferi si.

Erano come il “k” o l’”h”, nella matematica. Una costante.

Un numero mascherato, con una lettera, che per qualche assurda formula, risolve più velocemente il problema di calcolo.

 

Quando le 6.59, lasciavano posto al numero tondo, il 7, non ero più costretta a fingere il sonno.

Mi alzavo, e il mio cervello captava immediatamente quei crampi all’altezza della bocca dello stomaco.

Mi alzavo e immediatamente costringevo il cervello a mettere a tacere quell’irrazionale tumulto vitale.

Mi alzavo e la prima meta era il bagno.

 

Mi assicuravo che non ci fosse nessuno nelle vicinanze di quella stanza, che a quell’ora della mattina, doveva essere solo mia.

Mi spogliavo di quella felpa enorme, che allora mi arrivava alle ginocchia. Appoggiandola sul bordo della vasca da bagno.

Facevo lo stesso con il pigiama.

Mi sfilavo gli slip.

Mi privavo di tutto

quello che poteva pesare di più sul mio corpo.

Ah, gli orecchini. Sì, anche quelli.

 

Guardando quell’aggeggio bluastro che fa capolino da sotto il mobile, mi convinco che è giunto il momento.

Mi faccio forza.

Mi accovaccio e con fatica allungo le braccia in quella direzione.

La tiro fuori.

Con la stessa fatica mi costringo a tornare in piedi e a salirci su.

Lo stesso tempo, pietrificato, aumenta l'attesa.

Il "responso dell’oracolo".

 

I cristalli liquidi si fanno uniti e nitidi e i numeri mi guardano.

Io guardo loro.

Nessuna soddisfazione.

Nessuna paura.

43.1

Nessuna forza in corpo.

 
 
 
 
 

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