Creato da Matrixart il 29/10/2006

Arte & cultura

L'arte nel tempo

 

 

GALLERIA DEGLI UFFIZI - FIRENZE

Post n°12 pubblicato il 31 Ottobre 2006 da Matrixart
 
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L’edificio è stato progettato da Giorgio Vasari che era l’architetto di Cosimo I De’Medici nel 1560, e come dice il nome “Uffizi” era destinato agli uffici, alle magistrature. L’idea di costruire un solo grande palazzo a forma di ferro di cavallo con due tratti paralleli e un tratto corto che li unisce per l’amministrazione dello Stato del Granducato di Toscana era una grande novità, un modo per razionalizzare la burocrazia e per avere tutto sotto il controllo del sovrano. Cosimo I poteva passare attraverso questo corridoi apriva le sale e vedeva cosa succedeva; per tutto questo accadeva nei piani di sotto e infatti a piano terra ci sono questi lunghi corridoi voltati che essendo voltati si chiamano “gallerie” da cui Galleria degli Uffizi che appunto servivano come corridoi d’accesso agli uffici e a piano terra ci sono una serie d’ingressi che erano separati per le varie magistrature. C’è in realtà un precedente per tutto questo e cioè le procuratie di Piazza San Marco a Venezia, e lì avevano sede i procuratori della Repubblica di Venezia e ognuno di questi aveva un palazzetto tutti uguali con cortile, però con facciata unica costituita da un porticato al piano terra. Le procuratie di San Marco si dividono in procuratie vecchie e procuratie nuove, quelle vecchie sono del ‘400 e quelle nuove del ‘500 di Jacopo Sansovino e quindi il Vasari l’idea lo ha presa da là. Inoltre potrebbe essersi ispirato al peristilio del Palazzo di Diocleziano a Spalato, quella corte interna di palazzo-villa di Diocleziano che ha un cortile porticato, cinto da colonne. Oltre a inserire negli uffizi le magistrature, al primo piano c’era stato messo un po’ di tutto e quindi in questo settore che ci troviamo adesso c’era il teatro mediceo che prendeva due piani dell’edificio e quindi primo e secondo piano, ed è stato distrutto nell’ ‘800 e quindi le prime sale del museo di fatto sono allestite nell’ ex-teatro mediceo. Un teatro con un arredamento di Bernardo Buontalenti, dove lo stesso Buontalenti ha inscenato varie tragedie. Di fatto qui c’era un teatro per le tragedie e un teatro per le commedie; nell’edificio degli uffizi c’era il teatro delle tragedie e accanto in un altro palazzo c’era il teatro per le commedie.

Nel 1583 Francesco I De’Medici inaugura il Museo degli Uffizi che all’epoca comprendeva meraviglie di tipo naturalistico e oggetti archeologici ed era incentrato soprattutto nella tribuna e invece dall’altra parte (ala) c’erano le officine dove lavoravano gli artisti, soprattutto nel settore delle pietre dure e quindi era tutto concentrato qui sia il museo che la produzione delle opere d’arti; e poi c’era anche l’armeria e quindi una collezione ricchissima di armature.

Nel 1737 quando muore l’ultimo maschio della famiglia Medici, Giangastone, la sua sorella Anna Maria Luisa detta l’elettrice Palatina ha scritto un documento notarile noto come “Patto di Famiglia” nel quale dice che la collezione degli Uffizi doveva rimanere al Granducato di Toscana anche dopo l’ estinzione e infatti Anna Maria Luisa muore nel 1743 e la collezione rimane come museo statale in proprietà del Granducato di Toscana e infatti si tratta del primo museo nazionale.

Come questo museo viene chiamato Galleria degli Uffizi perché dal punto di vista architettonico è fatto da questi corridoi voltati ecco che il termine “galleria” è diventato sinonimo di museo, in tutto il mondo ci sono musei chiamati “national gallery” ma la parola viene dagli uffizi, perché è stato il primo museo pubblico dedicato alla pittura. Di fatto come musei dedicati alla scultura c’è qualche precedente per esempio la collezione di statue del Campidoglio a Roma o la collezione dei Grimani a Venezia, allestita nella Libreria Marciana.

Qui nei corridoi ci sono delle statue che in gran parte provengono da Villa Medici a Roma e un tempo c’erano anche degli arazzi, tolti per motivi di conservazioni; e in alto ci sono ritratti di personaggi celebri, inizia con le dinastie regnanti e si finisce anche con scienziati. L’idea di fare una serie enciclopedica di ritratti è dell’umanista Paolo Giovio e per questo viene chiamata serie gioviana e ogni tanto i ritratti sono interrotti da quadri più grandi, appesi un po’ più in basso dove abbiamo i ritratti dei Medici e qui sono divisi nei due rami della famiglia, cioè i Medici di Castello e i Medici di Cafaggiolo. Si parte dal capostipite Giovanni di Averardo detto Bicci e poi abbiamo i due rami della famiglia sui due rami.
 
 
 

IL RESTAURO NELLA STATUARIA CLASSICA - II parte (2^ lezione)

Post n°11 pubblicato il 31 Ottobre 2006 da Matrixart
 
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  •  Questo è un altro caso delizioso per la qualità dell’intervento di restauro della fine del ‘400 in area veneta. Vediamo che è la rappresentazione di una Musa che noi vediamo in questo grafico, a questa Musa sono stati aggiunti alla fine del ‘400, la testa, parte del braccio destro, il pilastrino e la parte inferiore con i piedi etc… . Autore di questo restauro è uno dei più raffinati scultori veneti della fine del ‘400 e inizio del ‘500 ed è Tullio Lombardo. Tullio Lombardo è un’artista squisita e sappiamo che è anche in rapporto molto stretto con lo studio della statuaria classica. Lui stesso aveva nella sua bottega una raccolta di modelli latini e quindi fu chiamato a integrare questo torso femminile, lo trasforma e probabilmente in origine la costruzione non era questa della figura e lui ha aggiunto questo pilastrino e ha scalpellato la parte dello spessore sul fianco sinistro per dare questo movimento esaltato a questa figura e per farla appoggiare su questo pilastro. Quindi gli ha dato un movimento diverso dall’originale.
  • Questa bellissima testa che non ha niente a che fare con la scultura classica ma a molto a che fare con quella sensazione, con quella volontà di espressione del pathos, del dolore che era tipica della scultura ellenistica. Noi sappiamo che Tullio Lombardo aveva una particolare propensione per questo momento dell’arte antica, cioè l’ellenismo il periodo più tardo dell’arte antica che in questa bellissima testa interpreta alla sua maniera un modello antico. Vediamo la capigliatura con i riccioli, la bocca semiaperta che era la manifestazione di dolore e che abbiamo visto per esempio nel Laocoonte, la lunga in mezzo alla fronte che è un altro elemento che compare nella scultura ellenistica e sottolinea questa manifestazione. Dunque questa è un’opera di altissima qualità del pieno Rinascimento veneto che interpreta l’antico. Anche questa scultura ha una storia 900ntesca che ci interessa; qui la vediamo com’era fino a qualche anno fa e come fu ridotta negli anni ’20 del ‘900. In quel periodo molti musei archeologici italiani hanno compiuto delle campagne che sono state definito “derestauro”, cioè sono state tolte alle sculture classiche quelle parti fra cui il Laocoonte, ma ancora prima negli anni ’20-’30 del ‘900 c’era questa campagna di “derestaro”, cioè venivano primeggiate le sculture classiche in quanto tali togliendo tutto quello che non era pertinente; anche se l’aveva aggiunto un’artista come Tullio Lombardo. Qui questo derestauro si era formato a togliere soltanto il pezzo della mano destra che reggeva una ……… . Naturalmente non avrebbero potuto togliere il pilastrino perché la figura non si sarebbe retta e altrettanto la testa perché sarebbe stato un impoverire quest’immagine. Solo recentissimamente tipo negli anni ’90 del ‘900 è stata questa come altri esempi, sono stati reintegrati nelle loro parti storiche e quindi la statua è ritornata a essere uno straordinario e squisito esemplare di quell’incontro degli artisti rinascimentali con la statuaria classica; di quel confronto degli artisti del ‘500-‘600 avevano con la scultura antica. Cioè era un confronto che riportava a integrare mettendo quasi sullo stesso piano in una sorta di gara con il mondo antico e infatti vengono capolavori di questa qualità.
  • Un altro caso analogo e questo è l’altra icona dell’arte antica per diversi secoli è l’Apollo del Belvedere che si trova nel cortile del Belvedere. Una statua sulla quale sono stati scritti specialmente nel ‘700 dei fiumi di chiostro che è stata amata in particolare da Winkelmann, che vedeva in questa statua proprio l’ideale della figura maschile, una statua che sul piano archeologico moderno ha perso la sua importanza. A noi interessa perché questa scultura anch’essa fu restaurata da Montorsoli che già aveva restaurato il Laocoonte. Il restauro non era molto invadente in questo caso; Montorsoli rifece l’avambraccio destro, dal gomito in giù la parte è 500ntesca e rifece la mano sinistra che reggeva l’arco. Il fatto è che questo braccio sinistro dell’Apollo non doveva avere quell’andamento staccato dal corpo che dà una sensazione di slancio e di movimento ma doveva essere molto più aderente al corpo e quindi cambia la dinamica proprio del movimento della figura. Questa figura fu stata riconosciuta dell’integrazione del Montorsoli fino sempre agli anni ’20 del ‘900, quando il braccio è stato tolto e la figura è stata per diversi decenni, fino alla fine del ‘900 è rimasta nel cortile secondo questo aspetto. Solo recentemente negli ultimi anni, l’Apollo ha riacquistato le braccia e la mano 500ntesche perché la sensibilità degli storici dell’arte abbinata a quella degli archeologi ha fatto si che ne l’una e ne l’altra parte prendesse sopravvento; cioè è un insieme che può essere un insieme classico che può essere però valutato sia sul piano filologico e archeologico, sia sul piano di un esempio di rivalutazione rinascimentale di un grande modello antico.
  • Questo è un altro esempio di restauro rinascimentale molto particolare e curioso, vediamo che è un Ercole in riposo e si trova al Museo Archeologico di Napoli che fu trovato nella seconda metà del ‘500, fu trovato privo delle gambe. Quindi fu affidato per il restauro allo scultore romano sempre vicino a Michelangelo che è Guglielmo della Porta. Guglielmo della Porta realizzò queste due gambe che interpretò anche le gambe con la stessa qualità plastica e con la stessa attenzione anatomica per la muscolatura. Il fatto è che poco dopo che l’integrazione era stata compiuta furono ritrovate le gambe originali; le quali gambe per suggerimento si dice di Michelangelo non furono riportate sulla statua e movendo la parte rinascimentale, ma furono conservate da parte; cioè la statua rimase nella versione che l’aveva dato l’artista rinascimentale. Queste gambe rimasero conservate nella collezione Farnese cui faceva parte questo Ercole e vi rimasero finché la collezione Farnese fu trasferita da Roma a Napoli e oggi si trova al Museo Archeologico di Napoli. Questa collezione al movimento in cui fu trasferita per motivi ereditari alla fine del ‘700 da Roma a Napoli, tutte le sue componenti erano numerosissime statue che passarono a Napoli furono prese in considerazione da un restauratore che li vide un po’ tutte e che fece questa famosa sostituzione che Michelangelo non aveva voluto fare; cioè risistemò le gambe originali sulla statua antica togliendo la parte 500ntesca. Questo ci dice che alla fine del ‘700 si privilegiava certamente molto di più il significato originale dell’antico più che le aggiunte storiche.
  • Dunque anche a Firenze si coltivano operazioni di restauro ma in questo caso in queste operazioni più che di restauro potremmo definirle di completo rifacimento. Questo è il celeberrimo Ganimede di Benvenuto Cellini che si trova al Museo Nazionale del Bargello a Firenze. Questa è un’operazione compiuta da Benvenuto Cellini a metà del ‘500. Sappiamo dalle fonti che lo stesso Granduca Cosimo gli aveva dato e gli aveva fatto arrivare un semplice torso giovanile antico che Cellini aveva il compito di completarlo. Si può dire certamente che questo torso che non aveva caratterizzazioni che consentissero di capire di quale iconografia si trattasse, Cellini crea sulla base di questa parte antica un’opera d’arte di squisita qualità ma che non ha che niente a che fare con questa base antica che è solo un pretesto per la creazione di quest’opera. Questo era una prassi che soprattutto a Firenze si usava particolarmente alla fin del ‘500.
  • Qui è un altro esempio ed è un Apollo giovane che è stato completamente rifatto da Giovanni Caccini, un bellissimo scultore della fine del ‘500 legato a Giambologna e che è molto impegnato nei restauri e antichità della collezione medicea. In questo caso Caccini riceve un torso antico privo della testa, delle braccia e con le gambe fino al ginocchio e si percepiscono bene le aggiunture. Era sicuramente un torso di Apollino e ce ne sono molti esempi che Caccini ritiene di interpretare creando un’opera moderna sulla base di questo frammento antico, non particolarmente qualificato. In più del Cellini, aveva metà delle gambe questa figura e il fatto che le avesse determina la posizione stessa delle gambe secondo quel principio della poderazione. Quindi Caccini rifà dai polpacci ai piedi ma li rifà sulla base dell’andamento delle coscie. Inventa invece tutto la posizione delle braccia e questa posizione, questo modo di porsi in rapporto con lo spazio è certamente un canone della scultura tardo rinascimentale e soprattutto della scultura barocca. Particolarmente cacciniana cioè manierista è questa bellissima testa di Apollo che ha si dei modelli antichi perché le teste di Apollo tra l’altro erano bellissime per tipologia, però quello che è diverso è questo gesto così elegante, questo volgersi così elegante della testa rispondendo al richiamo sulla sua sinistra. Oltre tutto Caccini aggiunge come appoggio alla struttura, perché questa struttura senza un appoggio come nel caso del Cellini e come nella Musa vista prima non si sarebbe retto; quindi lui ci mette una bellissima opera d’arte costituito da questo sostegno sul quale poggia la lira che è l’attributo di Apollo. Il tutto è drappeggiato e inventa questa posizione di Apollo che si appoggia in maniera così disinvolta e assolutamente lontana all’iconografia antica, si appoggia a questo sostegno. Un’opera anch’essa squisita nella quale c’è un elemento di tipo manierista, cioè l’uso dei marmi policromi e questo bellissimo appoggio sono stati usati dei marmi semipregiati, cioè il serpentello, il rosso, il giallo di Siena; gli stessi marmi che Caccini in quel momento siamo negli anni ’80 del ‘500 Caccini usava nella realizzazione della Tribuna degli Uffizi. Quindi questa è un’opera che rientra in quel gusto per la policromia dei marmi che era tipico a Firenze nella fine del ‘500. Si trova nel braccio corto degli Uffizi e anche questo è un esempio di reintegrazione o meglio di rifacimento che riflette il gusto del ‘500.
  • Questo è un altro restauro di Caccini e si trova alla testata del primo corridoio degli Uffizi e questa era una scultura frammentaria che raffigura una delle fatiche di Ercole, Ercole con il centauro Nesso. Nella figura di Ercole rimanevano i piedi, cioè sono originali solo i piedi e una parte del braccio che abbranca la testa del centauro e non c’era altro. Della figura del centauro c’era quasi la metà della figura e quindi anche qui si tratta di un frammento abbastanza sostanzioso, ma in caso diverso perché in questo caso si poteva capire bene quale fosse l’iconografia originale del gruppo e quindi Caccini a partire dalla posizione del piede destro dell’Ercole e la punta del piede sinistro che dava la posizione delle gambe. Poi la mano che era sulla testa del centauro e poi non c’era altro. Da questo Caccini costruisce tutta la figura di Ercole e compone quindi tutto questo insieme che certamente è anche basato su immagini che Caccini poteva avere attraverso la glittica, i cammei, le gemme incise e quindi poteva avere a modello altre fonti. Quindi è un restauro di rifacimento che rispetta sicuramente con grande maestria l’originale. Sappiamo che dai documenti che in questo restauro c’è anche la mano del Giambologna, o meglio l’idea di Giambologna perché l’incarico viene dato a Giambologna ma poi egli lo affidò al suo aiutante-allievo che era Caccini.

 
 
 

IL RESTAURO NELLA STATUARIA CLASSICA - I PARTE (2^ lezione)

Post n°10 pubblicato il 30 Ottobre 2006 da Matrixart
 
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Cammino sul piano storico vedendo un aspetto del restauro che dal ‘500 all’ ’800 ha avuto un aspetto assestante rispetto a quello detto finora; cioè il restauro della statuaria classica. Per introdurre questo aspetto che noi vedremo in una sorta di carrellata fra ‘500 – ‘700, per introdurre questo aspetto è bene ricordare che le notizie che noi abbiamo in generale del restauro su dipinti e anche sulle sculture di marmo, le prime notizie, la prima fonte  da considerare è il Vasari. Il Vasari parlando appunto del restauro della statuaria antica ci dice che a suo parere, “la statuaria restaurare cioè risarcire, cioè ricompletare una scultura antica mutila è meglio che averla frammentaria”. È un’affermazione che contraddice in parte quello che poi Vasari farà, ma su altri piani cioè sul piano del restauro soprattutto architettonico.

Il Vasari è per il restauro di integrazione della statuaria classica, questo tipo di operazioni cioè restaurare una scultura, un gruppo scultoreo, un bassorilievo che si presentasse dopo il suo ritrovamento oppure si presentasse fin dall’antichità in una versione mutila, priva di alcuni pezzi per esempio una scultura che è ritornata fuori dalla terra diciamo che poteva essere priva della testa, delle braccia, delle gambe oppure nella migliore delle ipotesi poteva avere il volto privo di naso o delle labbra e di alcune parti minori. L’esigenza di riportare ad una completezza formale, cioè ad una interezza, una scultura antica a cui mancavano delle parti comincia a sentirsi in maniera più vistosa a partire dal ‘500 e per questo Vasari è un ottimo testimone anche di questo tipo di operazioni. Tuttavia la scultura antica noi sappiamo che aveva un suo riutilizzo fino all’età medievale e che però in questo caso noi possiamo parlare non di restauro della scultura antica ma di riutilizzo della scultura stessa in contesti del tutto diversi da quello originale. Dal ‘500 in poi cioè dalla piena età rinascimentale, quello che invece salta più all’occhio è il caso del restauro di sculture classiche che sono impegnati in questo tipo di operazioni i maggiori scultori del momento a partire dal Rinascimento, con il restauro di un gruppo celeberrimo che è il gruppo del Laocoonte. Dunque se in età medievale fino al 1400 i frammenti dell’arte antica venivano riutilizzati per farne altra cosa, a partire dal Rinascimento la scultura viene considerata in sé e gli artisti sono chiamati ad integrarla. Perché la scultura non poteva presentarsi in una maniera frammentaria? Per quell’ideale neoplatonico dell’idea del bello che naturalmente non poteva accettare un frammento al posto di un intero. Questa concezione del bello ideale che è una concezione che nasce nel ‘400 e che ben viva nel ‘500 e arriva anche all’età barocca; quest’idea è quella che sostiene ideologicamente e teoricamente il restauro della statuaria classica sia in un ambito cronologico-rinascimentale che in un ambito barocco e poi neoclassico. Quindi l’idea era quella di completare un frammento per ridare al frammento unità figurativa in quanto come frammento non era accettato e concepito. Ma questa fervida attività di restauro della statuaria classica in quali ambienti si compiva? Si compiva negli ambienti del grande collezionismo archeologico ed esisteva in tutte le regioni in Italia già dal ‘500. Cioè si hanno episodi importanti di restauro di sculture classiche per esempio in area veneta fra ‘400 e ‘500; ma il clou di quest’attività di restauro di ricomposizione della figura classica è a Roma; Roma perché evidentemente è più ricca di queste opere e perché l’antichità classica non è mai morta ed è sempre rimasta più o meno di vista anche nei secoli bui del Medioevo e quindi Roma è il grande centro e grande luogo in cui nascono e si sviluppano queste concezioni che riguardano il restauro delle opere classiche. Firenze fa la sua parte tuttavia già dal ‘500 in questa stessa concezione perché a Firenze si formano a partire dalla fine del ‘500 in ambito mediceo, si formano le grandi collezioni di antichità che oggi noi vediamo sistemate agli Uffizi, a Palazzo Pitti, nel giardino dei Boboli e in altri luoghi. Dunque, questo fenomeno del restauro della statuaria classica a partire dal Rinascimento è un fenomeno che riguarda nello stesso modo e con le stesse concezioni la cultura artistica italiana. Sappiamo molto a livello storiografico di quello che succede a Roma, sappiamo abbastanza su quello che succede a Firenze, sappiamo abbastanza su quello che succede fra ‘500 e ‘700 a Venezia e sappiamo meno in altre zone; e pure in tutta Italia sappiamo bene che era diffusissimo il collezionismo archeologico, perché questo fenomeno della statuaria classica si sviluppa più che altro e lo sappiamo per esempio nella zona di Napoli e non lo sappiamo nella zona di Lombardia. Questo fenomeno è legato al fenomeno del collezionismo archeologico, le grandi collezioni che si formano nel ‘500 soprattutto a Roma e a Firenze e anche a Venezia, queste grandi collezioni contengono tutte opere che passano nelle mani di scultori affermati di primo livello per essere ricomposto delle loro parti mancanti. È un fenomeno che ha uno sviluppo straordinario a Roma in epoca barocca, perché se a Firenze nelle grandi collezioni di antichità erano soprattutto quelle dei Medici e poi c’erano anche collezioni però minori in altre famiglie fiorentine; a Roma c’era veramente da sbizzarrirsi a livello di collezionismo archeologico, cioè le grandi famiglie romani spesso legati a un papa per esempio la famiglia Barberini, la famiglia Ludovisi, la famiglia Caetani; insomma tutte famiglie di grande rilievo aristocratico che poi hanno espresso nel corso dei secoli la figura di un papa. Proprio a Roma nel ‘600 in età barocca, questo tipo di attività di restauro archeologico ha una importanza straordinaria. Nel ‘600 si afferma un altro aspetto e abbiamo detto che in ambito rinascimentale erano gli artisti, gli scultori a cimentarsi in queste operazioni di recupero della scultura antica. Nel ‘600 si decide proprio per la grande quantità di lavoro in questo senso, si precisa la figura dello scultore – restauratore; cioè dello scultore che si dedica esclusivamente a questa professione. Questo è avvenuto a Roma in età barocca ma questo per Firenze non è vero nel senso che gli scultori fiorentini di età barocca continuano ad essere scultori ma si occupano di restauro. A Roma invece ci sono dei veri e propri specialisti e a Roma nella metà del ‘600 c’è il primo scritto tecnico e teorico che riguarda appunto il restauro della scultura antica. Si tratta di uno scritto che fu elaborato sia sul piano pratico e la prima esemplificazione di come si fa a restaurare una scultura antica ma anche sul piano teorico potremmo dire che è il “Cennini barocco della scultura”, è il primo testo che ci fa capire come si compivano queste operazioni, qual’erano le modalità tecniche di un modo in cui si restaurava una statua e soprattutto qual’era la base teorica su cui ci si appoggiava. Quindi per tutto il ‘600 fino agli inizi del ‘700 ancora in ambito tardo barocco c’è questa campagna estesissima di restauri integrativi; soltanto che ci sono dal ‘600 in poi gli specialisti che fanno di mestiere il restauratore, cosa che prima abbiamo detto non era. Le cose cominciano a cambiare con la prima età neoclassica con il tardo ‘700, cioè nel tardo ‘700 comincia ad affermarsi un esigenza proprio in relazione alle teorie neoclassiche, ma in relazione soprattutto alla nascita di una materia che è specifica cioè la nascita dell’archeologia che si viene sviluppando dalle idee di un tedesco, Johann Joachim Winckelmann il quale era di cultura tedesca ma di anima italiana nel senso che a condotto la sua vita e le sue scelte in ambito archeologico quasi completamente a Roma. Winckelmann è praticamente il fondatore chiave dell’archeologia nel senso che dà importanza all’oggetto antico, alla statua antica in quanto tale; cioè è il fondatore di una storia dello sviluppo stilistico e quindi una storia dell’arte degli antichi. Proprio perché Winckelmann dà importanza all’aspetto filologico del reperto antico, in questo senso comincia svalutare l’intervento di aggiunta di restauro che fino ad ora si era compiuto. Dunque, l’opera in sé, l’opera frammentaria comincia a vedersi come documento dell’arte antica e come tale viene sempre più a consolidare quell’aspetto, quella cultura archeologica che dà importanza al frammento e non allo stato. Prima però di arrivare al rispetto del frammento antico in quanto tale devono passare ancora circa un secolo e mezzo, si deve arrivare praticamente alla fine dell’ ‘800 e all’inizio del ‘900 perché questa tendenza si affermi e si consolidi. A proposito di questo ci sono degli episodi nel restauro tardo 700ntesco e dei primi dell’ ‘800 che sono emblematici e che riguarda il massimo scultore di età neoclassica che è Canova.

  • Lui riporta gli studi del fratello Taddeo e mette idealmente insieme una galleria delle più famose sculture romane della prima metà del ‘500, cioè il Laocoonte, la figura cariata del Nilo e l’Apollo del Belvedere. Questo per indicarci quale fama avesse avuto questo gruppo. Appena trovato il gruppo poco dopo entrò a far parte delle collezioni pontificie e fu sistemato nel cortile del Belvedere, dove tutt’ora si trovano. Fu quasi indetto una specie di concorso per scultori che volessero cimentarsi nel proporre un’ipotesi di rifare un braccio. Quindi esistono oggi una serie di disegni di piccole dimensioni che ricordano per esempio l’opera di Jacopo Sansovino che fu uno dei giovani artisti che studiò il Laocoonte. A Firenze non appena si diffuse la fama di questo gruppo, fu commissionata una copia al vero cioè delle stesse dimensioni dell’originale allo scultore di corte di quegli anni che praticamente era Baccio Bandinelli. La copia fu commissionata dalla famiglia Medici per regalarla, poi quando l’opera fu compiuta i Medici decisero di tenersela e di portarla a Firenze; Bandinelli aveva eseguito la copia a Roma. Questa scultura è stata per almeno più di un secolo e mezzo è stata nel secondo cortile di Palazzo Medici-Riccardi, era collocata in una nicchia del cortile e tutt’ora esiste e lì stata finché il Palazzo Medici è stato di proprietà dei Medici. Dopo di che quando i Medici hanno venduto il palazzo alla famiglia Riccardi hanno trasferito questa copia agli Uffizi e noi oggi la vediamo alla testata del terzo corridoio. Anche Baccio Bandinelli ha dato una sua interpretazione di come doveva funzionare questo braccio, e lui lo ha ripiegato verso in alto, lo ha volto nella spira e ha dato un’interpretazione più informale e contenutistica. Il braccio del fanciullo che doveva essere morto è in alto, quindi Bandinelli non sembra valutare le notizie storiche, cioè le notizie fornite da Plinio e vede il fanciullo ancora vivo.
  • Questo è un dettaglio del volto della scultura antica, è il volto del Laocoonte che è in assoluto una delle fisionomia più riprodotte dal ‘500 in poi fino ai giorni nostri. Questo volto esprimeva l’intensità del dolore, il pathos con una pregnanza così straordinaria che fu visto come un modello per l’espressione del dolore. Tanto è vero che qui vediamo un disegno splendido veramente di una qualità eccezionale di Raffaello che ci fa vedere una sua interpretazione della testa del Laocoonte. Questo per dire appunto che attirava le attenzioni sull’importanza del Laocoonte come modello per generazioni e generazioni di artisti; il Laocoonte rappresenta il modello dell’espressione della sofferenza. Raffaello non lo fa una copia esatta, ne accentua l’età ma vede un po’ più anziano di quello che si vede nella scultura e lo interpreta con un senso di abbandono al dolore davvero eccezionale e straordinario.
  • E questo rappresenta un altro esempio di come questa testa abbia avuto una fortuna incredibile nel corso del tempo, questa è una copia della testa del Laocoonte che era l’elemento più espressivo, ed è una testa che è attribuita a Gian Lorenzo Bernini cioè il più importante scultore d’età barocca. Naturalmente qui c’è il fatto che le superfici essendo una scultura stata per tanti secoli sotto terra, le superfici sono hanno perso la loro pelle originale ma mentre nel caso di Bernini c’è questa lucidatura delle superfici che è tipica della tecnica scultorea del Bernini.
  • Per arrivare a noi cioè al restauro, il restauro fu compiuto nel ’32 da Giovanni Angelo Montorsoli che era un fiorentino e che fu consigliato come artista – restauratore probabilmente da Michelangelo. Negli anni ’30 Montorsoli è a Roma proprio per farvi fare ……… e quindi proprio in quegli stessi anni compie questa integrazione. In che senso la compie? Aggiunge a questo gruppo il braccio destro del padre in una configurazione, il braccio destro teso verso l’alto, in una configurazione che rimarrà tale fino alla metà del ‘900; cioè questa aggiunta di questo braccio si è intimamente legata pur essendo un braccio moderno e quindi 500ntesco, si è intimamente legata all’immagine di un gruppo e è rimasta tale fino all’età del ‘900. Che significato ha questo gesto? Ci fa capire che il Montorsoli nel dare la soluzione alla posizione del braccio ha scelto di immaginarlo teso in una sorta di lotta, di tensione attiva contro l’avvolgersi del serpente e questo vuol dire che Montorsoli ha visto il Laocoonte che lotta contro il fato, il destino e non è una figura abbandonata col braccio ripiegato al destino stesso ma è una figura che si ribella alla volontà. Quindi è un’interpretazione di questa figura, un’interpretazione rinascimentale del gruppo del Laocoonte che è punito dalle idee dall’aver avvertito i troiani viene assalito dai serpenti e muore. Montorsoli ne dà un’interpretazione che ce lo fa vedere nel momento in cui invece lotta per liberarsi e la tensione del braccio ce lo testimonia, lotta per liberarsi da questo avvolgersi del serpente che tra l’altro lo morde sul fianco sinistro con una testina che anch’essa è una testina di restauro. Anche il Montorsoli interpreta la figura del figlio minore come ancora in vita, ancora in lotta contro questo destino. Per più di due secoli, qui siamo nel ’32 questa scultura è stata esposta sempre nello stesso luogo nel cortile del Belvedere dov’era raccolto proprio la summa delle raccolte pontificie di statuaria classica e ci sono un numero incredibile di disegni di artisti ‘500-‘600-‘700nteschi, di incisioni che documentano lo studio che si faceva su questo prototipo della scultura classica. Tuttavia già dal ‘700 proprio Winckelmann si rende conto esaminando da vicino questa scultura che l’attaccatura del braccio destro del Laocoonte era una forzatura e quindi si rende conto anche dal frammento che c’è sulla testa del Laocoonte, che il braccio non doveva essere steso ma doveva essere ripiegato. Comunque Winckelmann si pronuncia a favore del mantenimento di questa aggiunta rinascimentale.
  • Qui vediamo un’altra incisione molto bella che ci fa vedere il Laocoonte sistemato nella nicchia del cortile del Belvedere, dopo che il Montorsoli lo ha ricompletato secondo la sua idea.
  • Questa è un’immagine che ci documenta la grande diffusione di queste sculture che sono dei modelli universali attraverso le repliche fatte sia in gesso sia in bronzo. Noi capiamo che per fare una replica di grandezza naturale in bronzo di un’opera così complessa sul piano formale era molto complicato per cui sostanzialmente abbiamo un grande numero di bronzetti di piccole dimensioni che appunto ripropongono il modello; ma bronzi a grandezza naturale se lo fece fare solo il re di Francia Francesco I.
  • Qui abbiamo un gesso che abbiamo nel nostro patrimonio di gessi conservato a Firenze, qui bisogna ricordare l’importanza della diffusione dei gessi come modelli per la didattica e infatti i gessi si trovavano e si trovano nelle Accademie. Questo gesso appunto fa parte del dimenticato patrimonio antico dell’Accademia di Belle Arti di Firenze. Oggi ne vediamo soltanto dietro una specie di …….. di legno, dietro al quale è stata messa in salvo dai vandalisti degli studenti dell’Accademia di Belle Arti che sono i soliti scrivere sui gessi. Anche nell’Accademia di Brera, il solenne cortile è circondato da numerosissimi gessi storici cioè antichi, completamente istoriati dalla presenza delle firme degli studenti. Quindi sono situazioni di vandalismo estremo, purtroppo questo aspetto della conservazione del gesso è un interesse soltanto recente. È un gesso della fine del ‘700 e quindi un gesso antico.
  • Qui vediamo il Laocoonte come lo possiamo ammirare oggi nel cortile del Belvedere. Come vediamo è stato tolto il braccio del Montorsoli, cioè l’aggiunta rinascimentale ed è stato applicato sul braccio, su quel moncone che c’era un braccio che casualmente fu rinvenuto nel 1906 in un negozio di rigattiere. Lo ritrovò un antiquario romano molto attento, lo comprò per poco sicuramente e di lì in poi si è innestato quel lungo processo che ha portato a quel restauro di questo elemento, cioè a togliere il restauro 500ntesco e a mettere quello che era il braccio solubilmente originale. Gli altri elementi come il braccio del fanciullo e dei due figli sono stati tolti e oggi vediamo il Laocoonte in questa situazione. Bisogna sottolineare nel caso dei restauri storici che nel ‘900 si è teso a togliere di mezzo le aggiunte antiche per ripristinare le parti originali. Questo è avvenuto nel caso del Laocoonte che era il modello più importante.
  • Questo è un gesso che si trova nel dipartimento di storia dell’arte di Pisa, conservato ed è un gesso che è stato elaborato da un archeologo e che ci mostra un ipotesi di come doveva volgersi completamente il serpente nella situazione originale che appunto viene costruita anche dopo aver inserito il braccio. Tutta questa storia che ci porta dagli anni ’30 del ‘500 fino agli anni ’60 del ‘900, quando il braccio del Montorsoli fu tolto, questa storia ci permette di fare una considerazione sul basamento del fusto e ci permette di riagganciarci sulla storicità delle aggiunte secondo le indicazioni di Brandi. Le aggiunte di importanza storica, consolidata da secoli come erano quelle del Montorsoli sicuramente non avrebbero dovute essere eliminate secondo la visione di Brandi. Ha prevalso in questo caso il significato invece l’aspetto archeologico dell’oggetto e non la sua storia attraverso il suo passaggio attraverso il tempo; cioè l’esigenze di lettura della parte archeologica hanno fatto si che si togliesse di mezzo un aspetto consolidato storicamente della vita dell’oggetto dal ‘500 in poi. Winkelmann si era reso conto ma prima di lui anche altri, si erano resi conto dell’interpretazione errata dell’originale e tuttavia valutavano l’importanza storica di questa aggiunta e quindi si erano pronunciati perché l’aggiunta rimanesse.

Dunque, c’era a Roma un frammento dell’antico che anch’esso è celeberrimo che è il Torso del Belvedere, che rimase a livello di Torso cioè non fu mai sottoposto ad alcuna operazione di restauro, ci sono alcune notizie che riportano a Michelangelo la decisione di lasciare questo frammento nello stato in cui è. Michelangelo stesso nei suoi nudi e nei suoi profeti della volta della cappella Sistina si serve molte volte di questo modello antico e quindi sappiamo che lo conosceva in maniera molto approfondita e si ricollega a lui l’idea di non ricompletarlo. Certamente Michelangelo vedeva in questo frammento così denso nella sua muscolatura una manifestazione di forza fisica, guardiamo questo possente torace; una forza fisica che non aveva bisogno di essere completata per manifestarsi pienamente.

 
 
 

IL RESTAURO (1^lezione)

Post n°9 pubblicato il 30 Ottobre 2006 da Matrixart
 

Il restauro oggi è un’operazione che ha come primo scopo quello di rallentare il degrado, di stabilizzare i materiali e la finalità di trasmettere l’opera d’arte al futuro poiché appartiene all’umanità. Oggi il restauro è anche un modo e un’occasione per conoscere l’opera.

Il restauro è comunque un’operazione traumatica dell’opera, con operazioni a volte irreversibili anche se il primo principio dovrebbe essere quello delle reversibilità. Prima di iniziare un restauro: ci sono varie operazioni con diverse figure professionali come il restauratore (operatore), lo scienziato che fa indagini ottiche, fotografiche e anche indagini invasive (quelle con mezzi ottici sono non invasive, le altre hanno bisogno di qualche pezzo dell’opera).

Prima che interviene il restauratore, l’opera deve essere indagata in modo scientifico e ci sono vari scienziati: ottici, chimici e fisici. Poi abbiamo lo storico dell’arte che ha una funzione di collegamento dei dati degli scienziati e segue poi il restauratore, coordinando i risultati ed è quello che prende le decisioni sul tipo di restauro da effettuare (O.P.D. è la rivista dell’Opificio delle Pietre Dure che esce ogni anno).

I restauratori si formano nei due grandi istituti centrali (al O.P.D. c’è una grande specializzazione di formazione), ma si possono anche formare  nelle botteghe di restauro. Quindi si hanno tre figure: il chimico (scienziato), lo storico dell’arte e il restauratore.

Una parte del restauro che compete allo storico è: sapere la storia conservativa dell’opera da quando è stata fatta fino ad arrivare ai nostri giorni. Ci sono dipinti che hanno fatto il giro del mondo; questo per sapere lo stress che può aver subito, dalle condizioni atmosferiche a come è stato tenuto. Si deve quindi fare una ricerca di archivio ad ampio raggio.
(Da vedere la tavola della “Madonna” in Santa Maria Maggiore a Firenze) i frammenti all’interno della testa sono tessuti del XIII secolo, e solo con il restauro si è capito che era una tavola reliquario.

Il termine “restauro” è usato in modo molto allargato, in passato fino all’Ottocento il restauratore è lo stesso artista. Solo l’artista ha in mano le tecniche per fare questo lavoro; un pittore restaura per esempio i quadri e i dipinti ma il restauratore ha poi la necessità di divenire figura a sé. Fino a tutto l’Ottocento si parla di restauro in senso integrativo (si rifanno e si completano le parti danneggiate). Molto spesso gli elementi aggiunti sono di fantasia; poi nasce il concetto del voler conservare, prima di arrivare ad integrare si deve pensare alla conservazione.

 

 
 
 

La DEPOSIZIONE di Volterra

Post n°8 pubblicato il 30 Ottobre 2006 da Matrixart
 
Foto di Matrixart

La famosissima Deposizione del Duomo di Volterra che oggi si propende a collegare con un documento del 1228, che era già stato pubblicato ai primi del ‘900 nel registrum dei documenti del capitolo del Duomo di Volterra. Il capitolo dei canonici del Duomo nel 1228 aveva difficoltà a finire di pagare una croce e allora per pagare questa opera del crocifisso del Duomo concedono delle indulgenze. Nel passo non si parla esplicitamente di una Deposizione ma di un crocifisso; però dobbiamo considerare qui l’abbondanza della doratura che generalmente non si trova in questa quantità e quindi il costo poteva essere dovuto dalla doratura. La data 1228 funziona molto bene come riferimento per la datazione di quest’opera, anche perché qui si vede un riflesso da Benedetto Antelami con i Mesi di Parma, ed è evidente soprattutto nella figura di Nicodemo schiavellatore e quindi se pensiamo che i Mesi del Battistero di Parma sono circa del ’10 e che negli anni ’20 da loro dipendono i Mesi di Cremona, Ferrara e poi anche quelli di Arezzo allora ecco che la data 1228 torna abbastanza bene. Poi questo Nicodemo può ricordare anche la figura del povero che riceve la carità di San Martino a Lucca, dove la facciata del Duomo di Lucca viene iniziata nel 1204, le sculture dell’interno del portico sono del ’33. Questa Deposizione ha anche delle possibilità di confronto con un vasto numero di deposizioni lignee italiane fra cui quella di Tivoli, Vicopisano, Sant’Antonio a Pescia e San Miniato al Tedesco. Secondo Maria Giulia Burresi si tratterebbe di una maestranza pisana, ma anche bizantini e fa un confronto con la pittura di Berlinghiero e con quella di Giunta; questi confronti sono motivati soprattutto dal fatto che in un restauro recente hanno trovato la policromia anche sulla croce e sulla scala che effettivamente assomigliano a certe decorazioni sulle aureole, croci dipinte nell’ambito di Giunta; e quindi è vero che la policromia qui ha un carattere molto vicina alla pittura pisana ma anche lucchese di quegli anni.

 
 
 

Facciata del Duomo

Post n°7 pubblicato il 30 Ottobre 2006 da Matrixart
 
Foto di Matrixart

Una caratteristica che ritorna in molte chiese della diocesi di Volterra (area attraversata dalla via Francigena) è il fatto che nel mezzo della facciata ci sono queste tre arcate cieche di cui due più piccole e più strette e basse e quella centrale è più alta. La parte aggettante nel mezzo non è affatto stata aggiunta dopo perché è di un materiale diverso e raffinato rispetto al resto, ma è proprio una caratteristica di avere al centro questa triplice arcata con un’arcata centrale più grande e alta e le due arcate laterali più strette. I modelli sono sicuramente pisani e qui vediamo anche le losanghe gradonate che sono abbastanza irregolari e sgangherate nella loro forma, come sono anche quelle di San Piero a Grado o San Zeno a Pisa e quindi hanno ancora un carattere ancora come quelle chiese del XI secolo a Pisa. Invece il portale centrale ha questo classicismo fortissimo come noi lo troviamo nel Duomo di Pisa, però non è detto che per questo le due parti devono essere di epoche diverse, ma sono semplicemente due modelli pisani diversi. Nel portale centrale c’è un tale classicismo che si rimane incerti se si tratti almeno in parte di materiale di spoglio o no; il capitello di destra è antico perché ne si ritrovano simili nel teatro romano di Volterra e quindi proverebbe dal teatro romano di Volterra, mentre il capitello di sinistra è sicuramente romanico ma ispirato in qualche modo a quello di destra.

Se guardiamo in alto le cornici sotto gronda sono si di una maestranza locale e che non ha nulla a che vedere a quella pisana, lì abbiamo lo stesso linguaggio che si trova nelle chiesette della via Francigena, come per esempio Badia a Coneo, Badia Isola o la Pieve di Cellole. Sono dei bassorilievi molto piatti in linea con la tradizione alto medievale e quindi da questo noi vediamo che si tratta di un’opera unitaria però eseguita da maestranze diverse in parte pisane e in parte locali, dove i modelli pisano sono diversi, modelli più attardati come le losanghe e modelli più moderni nel caso del portale. Il problema è che è andato perduto il probabile modello principale di questa facciata, cioè la facciata che Buschetto aveva costruito nel Duomo di Pisa. Il Duomo di Pisa fu costruito in due fasi, prima da maestro Buschetto fra 1064 – 1118/20 e ci sono due cerimonie di consacrazioni una del 1118 e una del 1120; poi viene allungato e richiede una nuova facciata di maestro Rainaldo che dovrebbe essere intorno al 1150. Siccome la vecchia facciata di Buschetto è andata perduta noi non sappiamo fino a che punto questa facciata del Duomo di Volterra rifletta il modello della facciata buschettiana che non c’è più. È possibile che la facciata di Buschetto fosse simile e lo possiamo dire perché ci sono una serie di altre chiese negli intorno di Pisa e in una vasta parte della Toscana che hanno facciate più o meno simili e sembrerebbero tutte quante derivate da quel modello della facciata di Buschetto; Pieve a Chianni, Cascina, Villa Basilica. Ci sono parecchie facciate di chiese toscane dove non abbiamo le loggette in alto ma abbiamo dei prospetti grosso modo come questo. Quindi già Salmi e poi Sanpaolesi pensavano che potrebbero essere delle derivazioni dalla perduta facciata buschettiana del Duomo di Pisa.

Il fianco che probabilmente è precedente alla facciata, perché generalmente le chiese non finivano con la facciata e infatti questi elementi pisani scompaiono e invece abbiamo un tipico linguaggio locale; qui la datazione è verso il 1120.

La maggioranza delle cattedrali medievali erano affogate in un contesto urbanistico e se ne vedeva qualche spiraglio qua e là, mai l’ insieme come lo vediamo oggi.

Il linguaggio che vediamo eseguiti i dettagli non è per niente pisano ma è tipico della Toscana più interna, che in un certo modo è più imparentata con l’ Umbria, con l’alto Lazio che non con Pisa; Pisa guarda all’ Oriente, agli Arabi e poi c’è un fortissimo senso di recupero della classicità antica; mentre la parte interna della Toscana è un mondo completamente a parte. Il Duomo di Volterra è interessante perché costituisce come una sintesi di questi apporti pisani che vediamo nella facciata e in qua e là, però poi con un mondo totalmente diverso da quello pisano.

 
 
 

Chiesa di San Lino a Volterra

Post n°6 pubblicato il 30 Ottobre 2006 da Matrixart
 
Foto di Matrixart

Questa chiesa fu eretta nel 1480, luogo dove si vuole che fosse stata la casa di San Lino, questo secondo papa. Gli affreschi sono della seconda metà del ‘500 di Cosimo Daddi, pittore manierista di Volterra che lavora anche a Firenze all’ingresso della Villa Petraria con storie di Goffredo di Buglione.

La tomba sepocrale è di Raffaello Maffei del 1522, che è uno dei capolavori di Silvio Cosini che era un collaboratore di Michelangelo che lavora anche a Firenze nella Sacrestia Nuova in San Lorenzo, dove ha fatto i candelabri sull’altare.

Questo scultore fa anche la tomba Millerbetti e la tomba Strozzi in Santa Maria Novella. È uno scultore curiosissima perché ha alcune volte delle trovate molto fantasiose, ha un gusto manierista e delle trovate anche un po’ macabre come il teschio. La facciata s’adorna di un portale rinascimentale  del 1513.

 
 
 

Battistero di Volterra

Post n°5 pubblicato il 30 Ottobre 2006 da Matrixart
 
Foto di Matrixart

Nell’epigrafe c’è scritto che i Volterrani conquistano Monte Voltrario e lo distruggono, dopo di che il podestà di Volterra in quel momento è anche podestà di Monte Voltrario. Successivamente furono ricostruito il castello e le fortificazioni della fortezza di Monte Voltrario nel 1252 sotto questo podestà, Alberto conte di Segalari. In fondo in caratteri più piccoli c’è una firma: “Giroldo da Lugano mi ha fatto”. Giroldo da Lugano altro che non è che Giroldo da Como perché Lugano è in diocesi di Como e Giroldo da Como è uno di quei tanti maestri di origine comasca che lavorano in questa zona della Toscana; lui lavora a San Miniato al Tedesco, all’abbazia di Montepiano, nel fonte battesimale che è firmato a Massa Marittima. Questo Giroldo da Como era architetto e  scultore e ha costruite vari case – torri a Volterra, fra cui la torre Toscano. Il problema della firma è di che valore dare a questo “fecit”, cioè sicuramente Giroldo da Lugano sarà stato anche l’autore di questa epigrafe, ma ha un senso firmare l’epigrafie? No. E quindi ci sono due scuole di pensiero, alcuni dicono che Giroldo da Como è l’autore delle fortificazioni di Monte Voltrario che è la cosa più logica perché nell’iscrizioni si parla delle fortificazioni di Monte Voltrario fatte nel 1252. Altri sostengono che l’iscrizione si riferisca al battistero stesso, cioè che Giroldo da Como avrebbe firmato l’edificazione del battistero e che è una cosa molto arbitrario visto che nell’iscrizione non si parla del battistero, ma si parla della costruzione della fortificazione delle mura di Monte Voltrario.

Però si sa che il battistero viene terminato nel 1283 e quindi in anni piuttosto lontani dal 1252 in cui vengono costruite le fortificazioni di Monte Voltrario.

Questo battistero è un edificio tardo romanico che però si rifà esattamente ai prototipi della piena età romanica, che a loro volta si rifanno a modelli paleocristiani. Qui la pianta è di tipo paleocristiano, un ottagono con queste nicchie che può far venire in mente addirittura il battistero di Sant’Ambrogio a Milano del IV secolo. Qui agli angoli ci sono questi piedritti a sezione cilindrica di tipo cistercense e quinti età gotica.

La tela all’altare che raffigura l’Ascensione è di Niccolò Cercignani detto il Pomarancio del 1591, pittore originario di Pomarance che è vicino a Volterra.

Il fonte è di Andrea Contucci detto il Sansovino, perché nativo di Monte San Savino in Val di Chiana; è da non confondersi con il suo allievo, Jacopo Sansovino che si chiamava Jacopo Tatti.

Andrea Sansovino ha viaggiato molto addirittura fino in Portogallo, poi ritorna a Firenze all’inizio del ‘500 e inizia il gruppo scultoreo sulla porta del Paradiso del battistero, dove il Cristo battezzato da San Giovanni Battista è di Andrea Sansovino; però il lavoro non viene portato a termine, tanto è vero che poi Vincenzo Danti e Innocenzo Spinazzi lo hanno portato a termine. Poi di Andrea Sansovino è l’altare Corbinelli in Santo Spirito a Firenze.

 
 
 

Chiesa di San Domenico a Bologna

Post n°4 pubblicato il 30 Ottobre 2006 da Matrixart
 
Tag: Bologna
Foto di Matrixart

Chiesa di San Domenico a Bologna:

La prima chiesa si chiamava Santa Maria delle Vigne che era una chiesa romanica, poi viene concessa ai domenicani più o meno al momento della morte di Domenico, nel 1221 e i domenicani aggiungono a questa chiesa due navate, una seconda chiesa che a differenza della prima, la prima aveva il tetto a capriate, la seconda chiesa a volte crociera costolonate e lì dove si crea l’ innesto fra la vecchia chiesa romanica e la nuova chiesa di San Domenico c’era il tramezzo. Secondo la tradizione qui sarebbe stato sepolto San Domenico nel 1221 e quindi nel mezzo della nuova chiesa che veniva realizzata in quel periodo, mentre l’ arca di San Domenico di Nicola Pisano per molti secoli si è trovata in questa posizione. Questa chiesa qui che viene consacrata nel 1251 era all’ avanguardia nelle forme architettoniche, purtroppo molto di quello che si sa o non si sa di questa chiesa è basata su ipotesi perché l’ architetto del ‘700 che ha costruito la chiesa attuale e si chiamava Dotti, ha lasciato un disegno di come era la chiesa originale. La divisione in campate dove le campate delle navate laterali hanno la stessa lunghezza di quella navata centrale deriva da un prototipo cistercense (Morimondo). Ci sono due tipologie una quella di Chiaravalle Milanese dove la navata al centro c’è un quadrato e ai lati ci sono due quadrato più piccoli, che poi è il vecchio schema di Sant’ Ambrogio a Milano e poi c’è lo schema di Morimondo dove ha un quadrato della navata centrale corrisponde un rettangolo per lato anche se sono rettangoli molto stretti. Poi la chiesa subisce una serie di aggiunte fra la fine del ‘200 e la metà del ‘400 si costruiscono una serie di cappelle private, laterali fra cui anche questa cappella di San Domenico del 1411 dove quindi l’ Arca di San Domenico viene portata dalla navata laterale in una cappella apposita e questa cappella di San Domenico poi viene trasformata nel 1605 viene ingrandita.

Arca di San Domenico: qui forse c’era il piano delle cariapidi dove oggi sono al Bargello a Firenze, a Boston, al Victorian Over Museum e al Louvre ma la cosa è controversa. Poi nel ‘400 Nicolò pugliese dell’ Arca realizza la parte sopra e Michelangelo fa i Santi Petronio e Procolo e un angelo. La predella scolpita è di Alfonso Lombardi, un’ artista rinascimentale. Quindi di Nicola Pisano e bottega è solo il sarcofago con i suoi quattro lati, però la qualità oscilla per cui si crede che qui ci abbia collaborato Fra Guglielmo che poi nel testamento si pente di aver trafugato un pezzetto del corpo di San Domenico e da questa notizia noi sappiamo che lui aveva lavorato qui (Fra Guglielmo ha lavorato anche in San Giovanni Fuorcivitas a Pistoia).

Qui vediamo il miracolo di Napoleone Orsini caduto da cavallo e resuscitato da San Domenico, la Madonna con il Bambino è molto simile a quello del pulpito di Siena di Nicola e secondo Max Saidel la Madonna con Bambino dell’ Arca di San Domenico è di un allievo che copia la Madonna del pulpito di Siena. Gli anni sono gli stessi fra il

1264 – 1267, non a caso quando Arnolfo viene chiamato a intervenire a Siena lui non si presenta perché forse lui stava lavorando qui a Bologna. Qui ci sono citazioni chiarissime da sarcofagi antichi in particolare quel gruppo di albigesi, qui c’è la prova del fuoco in cui San Domenico che fa una sfida contro i catari in cui butta il proprio libro nel fuoco e il fuoco invece di consumare il libro lo lascia intatto e invece i libri dei catari vengono bruciati dal fuoco.

Qui vediamo il sogno di Innocenzo III che ha due visioni simili in cui vede una volta San Francesco che sostiene il Laterano e un’ altra volta invece vede San Domenico che sostiene il Laterano e quindi approva sia la regola francescana che la regola domenicana.

Croce dipinta di Giunta Pisano che dovrebbe essere l’ ultima delle sue croci, sappiamo che lui ha lavorato nel ’33 ad Assisi per Frate Elia che gli fa una grande croce dipinta oggi perduta nella basilica di San Francesco ad Assisi. Rimane un’ altra croce dipinta molto più piccola a Santa Maria degli Angeli; poi c’è la croce dipinta del Museo Nazionale di San Matteo a Pisa proveniente dalla chiesa di San Ranierino e un’ altra che gli viene attribuita sempre al Museo Nazionale di San Matteo proveniente dal monastero delle benedettine. Questo è il modello diretto per Cimabue nella sua croce di San Domenico ad Arezzo.

A destra vediamo il monumento a Taddeo Pepoli morto nel 1337, opera che Vasari attribuiva al fantomatico Jacopo Lanfrani e invece oggi è stata attribuita a Maso di Banco scultore (Kraitemberg); in ogni caso è molto forte il rapporto con la pittura di Giotto in particolare quella santa che riceve il modellino della cappella che è ripresa pari pari dal polittico di Giotto.

 
 
 

Porta Galliera a Bologna

Post n°3 pubblicato il 30 Ottobre 2006 da Matrixart
 
Tag: Bologna
Foto di Matrixart

La città di Bologna aveva una cerchia di mura eccezionalmente grande e copriva un territorio vasto perché era una delle città più popolose e più importanti del basso medioevo, anche a causa dell’università. Porta Galliera si chiama così perché da qui si andava verso la località di Galliera che è a nord di Bologna, nota anche perché in età napoleonica c’era un Duque de Galliera, grande collezionista.

Qui nei pressi di porta Galliera, dal 1330 al 1332 il legato papale Bertrando du Poget detto del Poggetto fa costruire un castello come sede del papa, Giovanni XXII. Sappiamo che il papato si era trasferito ad Avignone fra 1305 e il 1309 con Clemente V e però i papi non avevano mai smesso di pensare di tornare in Italia e quindi

il successore di Clemente V che è Giovanni XXII decide di riconquistare lo Stato Pontificio facendo leva su Bologna, perché Bologna era posizione strategica nel nord Italia e da qui pensava anche di conquistare tutto il resto del nord d’ Italia e incarica un francese, Bertrando del Poggetto di conquistare pezzo dopo pezzo lo Stato Pontificio e magari anche il resto d’ Italia. Quindi questo Bertrando del Poggetto

fa costruire questo castello in questa zona, con otto torri e all’interno un palazzo papale con cappella affrescata da Giotto e altare di Giovanni di Balduccio e quindi

il migliore pittore disponibile e forse in quel momento anche il migliore scultore, Giovanni di Balduccio allievo di Giovanni Pisano. Solo che succede che la popolazione bolognese nel ’34 quando era appena terminato il tutto distrugge il castello e si rivoltano contro Bertrando del Poggetto perché in questo modo sarebbe finita

la libertà del Comune di Bologna e viene distrutto questo castello di cui non rimane quasi niente e il cumulo di rovine risultato dall’abbattimento della rocca di Galliera poi forma quella cosiddetta Montagnola che è oggi un giardino pubblico di Bologna chiamato appunto la Montagnola, che altro non è che il resto delle pietre di questa rocca di Galliera.

 
 
 

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