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Mondo Jazz

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martedì 9 ottobre 2018 alle 20.30

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CARI ITALIANI, E' TEMPO DI VALORIZZARE I VOSTRI JAZZISTI

Post n°1100 pubblicato il 11 Novembre 2008 da pierrde

Non lo dico io, che già ho abbondantemente scritto in proposito, lo dice Thierry Quenum sul nuovo numero di Jazzit in edicola in questi giorni. Il critico francese pare inconsapevolmente riprendere i temi della animata discussione che nei giorni scorsi ha tenuto banco su questo blog. Ne pubblico una parte, a mio parere significativa e che in gran parte condivido, senza per questo voler rinfocolare polemiche. Si tratta di un parere qualificato e che proviene da un osservatore esterno, poi naturalmente ognuno può trarre le proprie considerazioni.

......voglio parlarvi di voi ed esporre il punto di vista di un osservatore francese.....La prima osservazione ha a che fare con il posto che occupano i musicisti americani nei programmi dei vostri festival e concerti, cosi' come nei workshop e negli stage di jazz. Niente del genere accade in Francia, Germania, Scandinavia. Mi è stato spiegato che una stupida legge relativa alle tasse fa si' che molto spesso ingaggiare musicisti americani costi assai meno che far suonare un italiano. Ed ecco quello che lascia perplessi: il valore del musicista in questione non sembra intervenire affatto su questo piano. E in effetti si vedono spesso nei cartelloni delle rassegne italiane musicisti americani pressochè  sconosciuti nel resto d'Europa. Io però scorgo in questo fenomeno un'altra ragione. Una sorta di complesso italiano (il contrario dell'arroganza francese) nei confronti degli Stati Uniti. Un complesso che, senza dubbio, non ha la sua origine nel jazz..........

Avete torto, cari amici italiani. I vostri musicisti jazz sono tra i più interessanti d'Europa, addiritura del mondo, e spesso valgono molto di più di certi americani considerati da voi come degli dei. Non farò nomi...ma anche si. Qualche anno fa ero ad Amburgo per un concerto del quartetto di Chris Potter seguito dal duo di Enrico Rava e Stefano Bollani. Il fatto stesso di far suonare  un duo dopo un quartetto pare già indicare che per la Radio della Germania del Nord che organizzava il concerto, Rava e Bollani superavano Potter nella gerarchia di valore. D'altro canto prendere il testimone dopo la profusione di enmergia e di volume sonoro sviluppata da un quartetto con batteria, poteva sembrare una scommessa rischiosa per il duo. Potter e i suoi compagni, sicuramente affaticati dalla lunga tournèe che terminava, hanno suonato bene ma senza guizzi, sui soliti riflessi e clichè di un gruppo americano della loro generazione: tecnica impeccabile,ma poca musica, poco feeling e poca comunicazione con il pubblico che applaudiva educatamente come ci si aspetta dai tedeschi. I due italiani, invece, nel giro di due minuti avevano il pubblico in tasca. Certamente per musicalità e virtuosismo, ma anche per la loro umanità, il loro umorismo, le loro presentazioni italo-anglo-tedesche dei pezzi...Insomma per la carica vitale di cui era piena la loro esibizione. Il pubblico, radioso, ha lasciato il teatro dopo interminabili applausi e richieste di bis. ....Gli italiani sono coscienti dell'opinione  che gli ascoltatori stranieri hanno di questi musicisti ?...Sanno che alcuni di loro sono star europee, addiritura mondiali ? E che Rava e Bollani (ma potrei parlarvi di Trovesi, che ha trasformato con la sua musica un villaggio normanno in colline toscane; o Pino Minafra, che ha incendiato il Palazzo dei Congressi di Le Mans; o Francesco Bearzatti, che ha dato agli spettatori del festival Banlieus Bleues l'impressione di sudare, di felicità, in pieno inverno parigino...) che hanno ricevuto rispettivamente il Jazzpar Prize a Copenhagen e l'European Jazz Prize a Vienna, che valgono molto più degli americani che monopolizzano le scene italiane. Non ho niente contro gli americani, ma trovo siano sopravvalutati dal pubblico e dagli operatori italiani. E trovo che, se fanno ombra ai musicisti italiani, ancora di più ne fanno agli altri musicisti europei.......Mathias Ruegg della Vienna Art Orchestra mi diceva qualche tempo fa che prendeva clarinettisti italiani nella sua orchestra (Nico Gori, Mauro Negri) perchè erano i migliori. L'Italia gli ha mai reso omaggio invitandolo a tenere stage d'arrangiamento o direzione d'orchestra ? No, in compenso li fa tenere, decine e decine di volte, da Carla Bley...

L'articolo completo su Jazzit di novembre/dicembre nella rubrica Ici la France 

 
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Utente non iscritto alla Community di Libero
Anonimo il 11/11/08 alle 12:06 via WEB
Curioso, a me l'articolo ha provocato una serie di (modeste) riflessioni di segno opposto. Poniamo un punto fermo: non discuto che in Italia vi siano ottimi musicisti che operano nel campo del jazz e della musica improvvisata. Discuto la loro esagerata, ormai nazionalistica sopravvalutazione, che a mio parere danneggia -con lo sperpero di incondizionati "laudatores"- la stessa crescita di alcuni degli stessi musicisti. E il nazionalismo guascone è cosa che sempre mi inquieta in una nazione (?) in cui lo "spirito di patria" (riconosco che persino il termine "patria" poco mi entusiasma) è sempre sfociato (come peraltro accade oggidì) in tentazioni autoritarie. Il Minculpop è sempre in agguato, da noi, persino fra le forze cosiddette d'opposizione. Ciò detto, il tutto mi pare una provinciale "ospitata" concessa provincialmente da una pubblicazione provinciale a un testo altrettanto provinciale, per di più venato di un intollerabile paternalismo, che mi pare vieppiù criticabile e da rispedire al pacioso e un po' spocchioso mittente. Già, perché nel culturale deserto che oggi è la Francia (teatro di grande vivacità culturale per tradizione, ma oggi ridotta a un coacervo di brillanti intellettuali votati alla superficialità, allo spolvero brillante ma privo di ogni autentica solidità), permane il tradizionale vezzo chauvinista di piccarsi di saperne una non solo più del diavolo, m soprattutto dell'amato-odiato cugino italiano. Si sa che i francesi si sono sempre vantati di saper individuare, accogliere e ospitare meglio di chiunque altro, il talento altrui, che si trattasse di intellettuali, artisti, filosofi o esponenti delle Brigate Rosse. A lungo si sono e ci siamo cullati nel mito che la Francia fosse stato l'Eden per gli artisti africani-americani segregati e non riconosciuti in patria (idea che accomunava anche tanti intellettuali americani, i cosiddetti "expatriate", che da Henry James a Hemingway o Paul Bowles o George Antheil, a Parigi avevano trovato -erano anche altri tempi e non vi era stata né la Shoa o Vichy a radere al suolo un'intera civiltà- accoglienza): basta leggere un testo di stampo antropologico e sociologico come "Negrophilia: Avant-Garde Paris and Black Culture in the 1920s" di Petrine Archer-Straw, per riportare la discussione su binari più equi e meno retorici, laddove certa generosità, da Josephine Baker a Sidney Bechet, si è dimostrata ben pelosa... Per cui, debbo dire che la tirata del giornalista francese (confesso di non credere al giornalismo musicale, fenomeno piuttosto folkloristico a tutte le latitudini. Preferisco credere alla musicologia) olezza di un paternalismo accondiscendente che saprà anche solleticare l'orgoglio nazionale, ma che in realtà ha quel tono di chi la sa lunga, più lunga dei poveri italiani incapaci (per conclamata esterofilia) di comprendere quelle realtà che, invece, i francesi dotati di pascaliani "esprit de finesse" ed "esprit de géometrie", hanno invece ben chiare. E' un (antico) meccanismo a doppio binario, è vero, tant'è che taluni fra i nostri artisti (uno per tutti, Paolo Fresu) hanno goduto di migliore accoglienza nel patrio lido una volta ottenuto un imprimatur francese. Frutti, per l'appunto, di un provincialismo che assilla ambedue i versanti della frontiera in comune. Peraltro, lo scrivano francese mostra di non conoscere taluni meccanismi storici della "fruizione" (parola orrenda, lo so: la uso per comodità) del jazz in Italia. Musica che ci è stata a lungo negata dal fascismo, con l'aggravante del tradizionale ritardo culturale dell'Italia-non nazione nei confronti dell'Europa, e che ha poi conosciuto -nel bene e nel male- un momento di straordinaria espansione (ai concerti di Sam Rivers o Max Roach e Archie Shepp, a Umbria Jazz o altrove, si potevano raccogliere, negli anni Settanta, folle che in Francia erano e sono ancora oggi impensabili) in coincidenza con una stagione di portata anche ideologica, anche prima che l'intollerabile e dilettantesco libercolo di Philippe Carles e Jean-Louis Comolli, "Free Jazz/Black Power", diventasse il livre de chevet di una generazione che sulla cultura americana e africana-americana aveva conoscenze piuttosto confuse. E lo stesso scrivano francese dimentica il rapporto, fecondo quanto critico, che l'Italia del secondo dopoguerra, ha intrattenuto con la cultura americana, grazie a intellettuali (ve ne fossero oggi, da noi come in Francia) dello stampo di Elio Vittorini o Cesare Pavese o, anche, se vogliamo, di Fernanda Pivano. Tout se tien, si potrebbe commentare. diffido, ad esempio, di chi, per proporre l'improponibile paragone fra esperienze radicalmente diverse, come quelle di Chris Potter e quelle di Enrico Rava con Stefano Bollani, esalta non dati linguistici o culturali o musicali, ma si prodiga nell'elogio di un tongue-in-cheek italico che sa di iconografia turistica. A quando anche un bell'elogio della melodia popolare all'italiana come succedaneo del "Chist'è 'o paese d' 'o sole, chist'è 'o paese d' 'o mare...", della pizza, dei pomodorini o grappolo o, peggio, del mandolino e della serenata napulitana (le cui origini gloriose forse verrebbero fraintese dal nostro gallico giornalista)? Purtroppo, molti dei nostri migliori artisti rischiano di essere elogiati per stereotipi da plebeo neo-Baedeker turistico, come si evince dalla prosa ampollosa e, ripeto, paternalistica, di un giornalista che, mi pare, rischi di scivolare con troppa facilità nel "colore locale" (è una mia impressione forse fallace, lo riconosco, non avendo letto l'intero testo: pronto a ricredermi, dunque). Niente da eccepire su Matthias Ruegg, per carità, anche se da tempo pare avere esaurito una vena creativa: come autorità mi pare piuttosto labile... Con tutto il rispetto per Pino Minafra o per Gianluigi Trovesi: l'impressione, per me penosa, è che certe valutazioni siano asfittiche e superficiali, alquanto presuntuose e basate sul perpetuarsi di un angusto dualismo fra Europa e Stati Uniti che è idée fixe della cultura francese post-gollista (che, non a caso, trangugiò e digerì malissimo un testo per molti versi profetico come "Le Défi americain" di Jean-Jacques Servan-Schreiber). Trovo culturalmente ridicolo, per il rispetto che si dovrebbe spontaneamente tributare alla Cultura), questo "contest" fra europei e gli odiati ex-colonizzati oggi padroni, basato, in fin dei conti, sull'appropriazione, del tutto indebita da parte degli europei, di una cultura creata altrove, in un contesto unico e peculiare, da parte degli africani-americani e, in seconda battuta, da un crogiuolo di etnie unite dalla fenomenologia, criticabile o meno, ma affatto unica e per adesso irripetibile del cosiddetto "American Dream". La Cultura si diffonde ed influenza, ma non si clona: da tempo una missione italiana a Rondonia, in Brasile, trasmette agli indios le conoscenze sulla ceramica di Caltagirone. Con ottimi risultati, certo. Ma che mai si avvicineranno, ovviamente, alla originaria cultura secolare... I risultai, ovviamente, portano a qualcosa di nuovo, di diverso, con una sua propria validità. Non riesco a capire quest'ansia presuntuosa di riuscire meglio degli americani in campi che ci sono in parte estranei... Qual è il succo di questa gara che sfiora il ridicolo...? E che poi sfocia, per l'appunto, non nell'elogio dell'originalità di un autore come Enrico Rava, ma nel bieco paragone con qualcun altro, oltretutto di diversa preparazione, di altra generazione, di diversa cultura, di differente sensibilità... Mi pare un ridursi a un triste mercato delle vacche, in cui si cerca legittimazione culturale in una metà campo avversaria di cui si vogliono sfidare a tutti i costi i ben diversi parametri linguistici. Ed è ancora più banale quest'evocazione di un bipolarismo in cui il mondo culturale dovrebbe ridursi alla volgare competizione (non stiamo parlando di formaggi o di vini, pur con tutte le loro storiche personalità culturali, ma di un bene immateriale fra esseri umani) fra Europa e Stati Uniti (una staffetta, insomma, fra "padroni del mondo", nuovi e vecchi), in un momento storico in cui è straordinaria la ricchezza creativa che ci proviene da ogni parte del globo. Se penso alla creatività, anche nella musica improvvisata e accademica, che oggi è rigogliosa in America Latina, tanto per citare, mi fa un po' sorridere questa visione angusta dell'ecumene e che sa tanto di geopolitica un po' logora. Riconosco la validità di innumerevoli artisti nell'ambito della musica improvvisata (che discende in larga parte dal jazz): per quanto di "valori universali" (via, un po' di retorica...), il jazz è nato da una conquista da parte di un'etnia e poi di più etnie ferite, segregate, perseguitate, in un Mondo Nuovo (per l'appunto), con una fisionomia-laboratorio irripetibile. In quell'ambito, mi pare che -delineatosi un Canone africano-americano, gli americani dispongano di un'idiomaticità difficilmente assimilabile appieno. Ai miei modesti occhi, la vittoria di Obama rappresenta l'ascesa di nuove élite meticciate, la fine non tanto degli Stati Uniti, come si va cianciando, ma del predominio WASP, soprattutto del predominio bianco di derivazione europea. Il jazz ne è stato l'araldo da tempo. Mi pare, però, che riesca a molti difficile accettarlo... GMG
 
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