Mondo Jazz
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IL JAZZ SU RADIOTRE
martedì 9 ottobre 2018 alle 20.30
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pianoforte, Fender Rhodes, Giorgio Pacorig
trombone, Filippo Vignato
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batteria, Zeno De Rossi
Registrato il 26 ottobre 2017 a Villa Attems, Lucinico (GO)
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Messaggi del 14/07/2018
Post n°4034 pubblicato il 14 Luglio 2018 da pierrde
Chi mi conosce o mi legge sa che per me Estival Jazz, la manifestazione luganese che quest'anno festeggia i 40 anni, è un festival da bollino nero per qualsiasi appassionato di musica jazz. Due i motivi principali. Il primo sta nella deriva che da ormai molti anni i due direttori artistici hanno impresso al festival: dai nomi più prestigiosi e significativi della musica afro americana ad un etno pop di facile presa e di altrettanto facile dimenticanza. D'altronde basterebbe leggere il libretto stampato per questa edizione e scorrere i nomi che dal 1977 hanno calcato il palcoscenico di Piazza della Riforma. Credo si tratti di un formidabile autogol da parte di Jacky Marty e soci, si è passati infatti da Miles Davis ai New Trolls o, per rimanere sull'attualità di quest'anno, da Keith Jarrett a Renzo Arbore. Il secondo motivo per il quale sconsiglio dal frequentare Estival è lo scarso rispetto (un eufemismo) verso gli appassionati. La piazza infatti è praticamente occupata per tre quarti da transenne che delimitano lo spazio per i vip a vario titolo, che naturalmente si presentano a concerto iniziato, chiacchierano amabilmente tra loro, salvo poi applaudire freneticamente a fine brano. Non parliamo poi dei clienti dei ristoranti che fiancheggiano la piazza: apertamente disinteressati all'ascolto, si dilettano nel rendere impossibile fruire del motivo principale per il quale, in teoria, si è li sulla piazza, in piedi, scomodi e purtroppo rassegnati. Ci sono poi tutti gli effetti collaterali dei concerti gratuiti: folle di passaggio del tutto poco interessate alla musica, voci alte, rumori di gozzoviglie e altre piacevolezze tipiche di situazioni simili. Insomma, molto meglio stare a casa. Ma dopo tanti anni in cui ho messo in pratica il mio stesso consiglio, venerdi' ho ceduto alle insistenze di amici, e, contando sul fatto che i gruppi jazz vengono fatti esibile in primissima serata (ovvio, la festa vera comincia dopo, quindi prima ci salviamo la faccia con l'opinione pubblica (ahahahah, ma quale ? ) e poi finalmente ci divertiamo con salsa, merengue e i cori russi (il noto cantautore qui aggiungeva il free jazz ed il punk inglese...). Sta di fatto che in programma c'era il nuovo gruppo di Jack De Johnette, Hudson, come l'album uscito un anno fa, e come la vallata in riva al fiume omonimo dove abitano i quattro musicisti. Rispetto all'album Scott Colley ha preso il posto di Larry Grenadier, ma nulla è cambiato nella proposta musicale: un funky blues ricchissimo di groove, con una spinta indiavolata della sezione ritmica a sostenere i voli pindarici di John Medeski alle tastiere e John Scofiled alla chitarra. Repertorio costituito, come sull'album, da alcuni classici del rock anni sessanta (Dylan, Hendrix, Mitchell) e da originals da parte dei componenti del gruppo. Sentito anche il leader in veste di cantante, molto dignitoso, ma rimane molto piu' impresso il beat scatenato e l'energia profusa che smentisce i 76 anni registrati all'anagrafe da De Johnette. Quattro maestri del rispettivo strumento, indubbiamente, ed un concerto che ha confermato le qualità dell'album. Tuttavia....tuttavia almeno a mio parere non si tratta certo del gruppo più significativo messo in piedi nella sua lunga carriera da De Johnette. Non ci sono gli impasti sonori ne gli arrangiamenti ricercati delle Special Edition, tanto per fare un paragone piuttosto distante nel tempo. La mia impressione è che il leader abbia preferito un progetto dal successo sicuro e dall'impatto sonoro decisamente impressionante piuttosto che scavare alla ricerca di qualcosa di inudito o di inaudito. Tant'è che, per quanto apprezzi i funambolismi di Medesky sia all'Hammond che al Fender Rhodes, il brano più convincente, l'ultimo in programma (Woodstock), ci ha fatto aprezzare il pianista in veste acustica gettando una luce completamente diversa sulle possibilità inespresse del gruppo. Successo pieno comunque, applausi convinti sia dai vip seduti che dai peones accaldati e all'impiedi, e poi rapida fuga verso casa prima che si scatenino le danze ! |
E' ormai destino che io diventi il chiosatore ufficiale del collega Dell'Ava. Ma il suo recente post, nel quale si riportano lapidariamente le dichiarazioni di Carlo Pagnotta sulle metamorfosi del pubblico di Umbria Jazz mi sembra meritevole di ulteriori, espliciti approfondimenti, da non lasciare all'iniziativa ed all'intuito del lettore. L'intervista nel suo complesso merita la massima attenzione, non foss'altro per il fatto che a parlare è colui che può a ragione esser definito il 'padre padrone' di Umbria Jazz, con tutte le responsabilità che ne conseguono. Chi ci segue dai tempi di 'Tracce' conosce benissimo la compatta posizione di questa redazione sul corso recente di questa importante e - ai suoi tempi - gloriosa manifestazione: molto significativa quest'unanimità, soprattutto ove si considerino la notevole diversità di inclinazioni e gusti musicali dei vari componenti. Ma veniamo alle dichiarazioni di Pagnotta sul pubblico - o meglio sui pubblici - di Umbria Jazz. Innanzitutto il patron del festival merita dovuti complimenti. In un periodo in cui in commercio dilaga il cinismo più sfacciato e protervo, vedere qualcuno che si preoccupa di coccolare i suoi consumatori è cosa che scalda il cuore. Intendiamoci: questa attenzione è indubbiamente doverosa nei riguardi di un pubblico che mette mano alla carta di credito 'oro' per acquistare i biglietti da 50/80 euro che consentono di ascoltare le Lady Gaga ed i Mika in una arena estiva scoperta, in balia degli incerti metereologici. Non siamo meschini, e quindi sorvoliamo sul fatto che questi spettacoli di gran rilievo commerciale finiscono di fatto per esser cofinanziati dalla mano pubblica attraverso un recente riconoscimento di rilievo culturale nazionale, che sarebbe stato giusto ed anzi doveroso (soprattutto considerate le rilevanti ricadute economiche) se non fosse arrivato 'alla memoria' di quel Umbria Jazz è stata nei suoi primi decenni, un unicum culturale di prima grandezza (e che è stato rapidamente riconosciuto come tale all'estero e soprattutto negli States e dalla comunità jazzistica). Oggi si tratta solo di un rivolo in più in quel fiume che sostiene i cachet certo non modesti delle vedettes che monopolizzano il palco dell'Arena Santa Giuliana. Quanto a quest'ultima, è senz'altro vero quel che osserva Pagnotta circa la difficoltà di riempire una struttura che ormai appare un autentico 'monstre' senza ricorrere a celebrità (a volte un po' impolverate...) che fanno facile presa su un pubblico 'generalista'. Da ex frequentatore del festival, però, mi limito a rammentare che di gigantismo spesso si muore e che non più tardi di sei-sette anni fa (già in piena crisi, dunque), ricordo di aver visto sfilare su quel palco Sonny Rollins, Herbie Hancock ed altri musicisti sulle cui credenziali artistiche e di continuità con una certa tradizione musicale nulla era possibile eccepire: non ricordo viceversa di aver notato posti vuoti, nemmeno sulle 'gradinate'. Viceversa, nell'edizione di quest'anno siamo giunti alla paradossale conseguenza che di jazz di qualsiasi caratura e livello se ne ascolta proprio pochino, a parte Quincy Jones (che forse si sarebbe divertito di più con una delle bistrattate, ma collaudate big band italiane....). La cosa più dignitosa sul piano artistico rimane la serata brasiliana, che accanto ad un carioca autentico di grandissima levatura ne appare un altro... come dire? "postito"? su cui volentieri sorvoliamo con un sorriso. Nonostante le passate delusioni ed il crescente sconforto, tuttavia anche quest'anno ho esaminato programma e relativo listino prezzi del festival. Scartati i concerti di Santa Giuliana (non siamo all'altezza di comprendere le ardite contaminazioni che lì vanno in scena a beneficio del pubblico 'gold'...), qualcosa di interessante ed intrigante si nota, ma rigorosamente segregato e ghettizzato nella pur esteticamente splendida cornice del Teatro Morlacchi. Da ex frequentatore di questa mirabile Scala in miniatura, posso tranquillamente affermare che andare ad ascoltare un concerto in un pomeriggio di luglio in questa splendida 'bomboniera' priva di aria condizionata è una delle più grandi prove di amore per la musica che uno spettatore possa tributare, immergendosi per due ore in una fornace quasi sempre sovraffollata per capienza limitata. A proposito: ai miei tempi, i biglietti per il Morlacchi andavano acquistati almeno con un mese di anticipo, e non era escluso il rischio di trovarsi relegati in un angusto recesso del teatro. Quest'anno, viceversa, ho notato che a pochi giorni dal concerto si rilevavano ancora apprezzabili disponibilità di posti in ogni ordine del teatro per il concerto del Vijay Iyer Sextet. Stiamo parlando di una formazione che per miracolosa unanimità della critica è stata riconosciuta come la punta di diamante della scena jazzistica odierna: a tutto onore dell'organizzazione, va altresì notato che il concerto era proposto ad un prezzo più che onesto, considerata la tournee transatlantica di un gruppo che raduna musicisti che singolarmente già risultano molto impegnati. Si tratta di un strana circostanza su cui il direttore artistico dovrebbe riflettere: a mio avviso è il segnale del fatto che il pubblico 'hard core' di Umbria Jazz, quello 'zoccolo duro' stabile che per decenni ne ha assicurato non solo la sopravvivenza, ma anche il crescente successo, la sta ormai gradualmente disertando, cercando analoghe occasioni di ascolto in contesti meno 'glamour' e sacrificati. Ipotesi da ponderare con molta attenzione, anche da un mero punto di vista commerciale e di immagine. Commovente è poi la lacrimuccia spesa da Pagnotta per i pubblici degli anni '70, naturalmente più naif, turbolenti e meno acculturati musicalmente rispetto a quelli muniti di carta 'gold' e che esigono le Lady Gaga, i Mika etc.... Tuttavia il nostro Direttore Artistico sorvola sul fatto che i saccopelisti di allora (sprovveduti quanto si vuole, ma che per la musica dormivano all'addiaccio...) hanno poi costituito la spina dorsale di una nuova generazione del pubblico italiano del jazz, consentendogli nei decenni '80 e '90 una fioritura sconosciuta in passato (sugli sviluppi più recenti, anche qui sorvoliamo....). Quello stesso pubblico che, tenuto a balia dall'Umbria Jazz degli happening in piazza (a cui però jazzmen insospettabili di compiacenze gaglioffe hanno dedicato addirittura degli album....), ha poi sostenuto nei decenni successivi la manifestazione nelle sue edizioni più raffinate e coraggiose, quelle che hanno fatto la sua grande reputazione presso jazzmen di consumata professionalità, che non a caso facevano ben attenzione a presentarsi a Perugia con formazioni in gran spolvero. Ma tant'è, accontentiamoci pure di una menzione 'alla memoria' per questo pubblico naif che purtroppo si è fermato alla musica da cocktail di Vijay Iyer e compagni, invece di evolversi sino all'altezza delle mirabili 'fusioni' in scena a Santa Giuliana. Tanto più che c'è da ritenere che questo pubblico sempliciotto abbia levato il disturbo da solo, forse per sempre. Franco Riccardi |
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