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Non sempre c'è un titolo

Post n°667 pubblicato il 10 Luglio 2007 da nimriel

La mia serie preferita è finita.
È finita male, per me, che sono romantica. Doveva esserci un matrimonio. E non c’è stato. Un lieto fine. E non c’è stato. Una famiglia. E non c’è stata. Un amore. E forse è finito. Perfino una carriera. E anche quella forse non ci sarà. O forse no, perché in fondo, la serie è finita ma solo per questa stagione. Nella prossima potrebbe essere tutto diverso.
Ma oggi non è finita solo la serie.
Ho trovato una fede accanto al mio letto. E non solo. Ma non è questo, solo, il punto. In realtà, non lo è mai stato.
In realtà tu, che non leggerai mai queste parole o che non vorrai mai leggerle, tu, non mi hai mai vista, non veramente. O forse sì, per qualche tempo ma, pian piano, non più hai voluto vedermi. E senz’altro avrai avuto le tue buone ragioni.
Ma anche io ho le mie.
In realtà noi non esistiamo. Non siamo, forse, mai esistiti. Lo abbiamo creduto, sperato. Ce ne siamo convinti. Lo avremmo voluto. C’abbiamo provato. Ma non basta. Si deve crederlo. Lottare. E se non si lotta, vuol dire che non lo si vuole davvero. Che si molla. Per paura. Per sbadataggine. Per pigrizia.Per orgoglio. Per inerzia. Perché è stancante. Perché fa male. Perché è duro. Perché si deve rinunciare a qualcosa. E cambiare, sì, cambiare anche se non si vorrebbe farlo. E ascoltare, anche se fa male, anche se non si vorrebbe sentire.
Ma tu, tu non hai mai voluto ascoltare, né mai più lo farai. Non con me. Perché sono noiosa. Perché sono petulante. Perché sono una bambina, viziata, immatura, infantile, volubile, incostante, testarda. Perché tu nel tempo ti sei fatto tutta un’immagine di me che non corrisponde al vero perché, alla fine, non mi conosci, non mi frequenti e probabilmente non sono nemmeno il tuo tipo. Perché anche tu hai i tuoi problemi ma non riesci a trovare il modo di dirli. Non a me. E perché io non sono riuscita a farteli dire. E a farti comprendere, né accettare, i miei.
E ti dirò, non m’importa. Non più. Perché arriva il momento in cui qualcosa dentro si rompe, talmente profondamente che proprio non puoi più stare male. E non vuoi più farlo perché il dolore non è una condizione naturale, nemmeno se ci si abitua, nemmeno se ti insegnano che al dolore si può resistere e tu ci credi al punto che non ti concedi neppure un antidolorifico. Perché arriva il momento in cui infine il peso di questo ti cala addosso tutto d’un botto, e sei costretto a reagire, per forza, perfino inconsapevolmente, perfino tuo malgrado. Perché arriva il momento in cui ti guardi e non capisci nemmeno più chi sei, cosa sei diventato, cosa sarai. Perché anche tu credi di meritarti di essere sereno e felice. Perché non vorresti sentirti solo, non se sei in due, non incompreso, non sbagliato, non fastidioso, non esagerato. Perché non è vero che basti a te stesso, nemmeno per autodifesa. Perchè accanto vuoi un compagno, un amico, un confidente, un amante. Un tutto.
Io non sono perfetta. Me l’hai fatto capire, perfettamente, lo so e sempre l’ho saputo, anche da me. Ma nemmeno tu lo sei. Non sei infallibile. Non sempre hai ragione.
E quella fede tu l’avrai forse portata fino ad oggi ma ne hai dimenticato il senso tempo fa, è inutile che me la lasci accanto al letto per affibbiarmi la colpa che vedi incisa a chiare lettere. Non sperarci. Io non mi sento in colpa, non lo farò né mai giustificherò alcunché. Sono dispiaciuta, sì, sono addolorata, sì, profondamente ma per noi, per com’è andata, per la promessa che non abbiamo potuto mantenere. Per il bene che ci siamo voluti. Ma se proprio dovessimo parlare di colpe, sentitici anche tu perché, caso mai, la colpa è d’entrambi, perché questo matrimonio lo si doveva far funzionare, in due. Ma noi non ne siamo stati in grado. Da tanto.
Qualche volta però, concediti di ascoltare. Ascoltare udendo davvero. E a guardare, qualche volta, vedendo davvero. E a credere. E a provare a comunicare soprattutto e, magari, non durante un telegiornale. E a non fare processi senza possibilità d’appello o di difesa. E a non andar via chiudendoti alle spalle un portone con doppia mandata preferendo credere per orgoglio di maschio ferito che sia l’unica cosa sensata da fare. Si chiama abbandonare e non sempre si ritrovano lì, ad aspettarci dentro la stalla, buoi consenzienti. Non vivi, quanto meno.

 
 
 
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