Creato da wildbillhickok il 09/12/2007

Il prima ed il dopo

Questo blog è un contenitore nel quale finiranno tutte le cose che ho scritto fino ad oggi e quelle che scriverò in futuro. Si riempirà compatibilmente con la mia vena creativa, con il mio tempo, con i miei umori. Parte di ciò che leggerete sarà magari terribile, perchè fa parte di un passato nel quale il mio modo di scrivere e di pensare erano totalmente differenti da ciò che sono oggi. Ma è giusto che anche quegli scritti abbiano il loro posto qui dentro...

 

 

Trasloco

Post n°64 pubblicato il 29 Novembre 2010 da wildbillhickok

I contenuti di Tutte Storie si sono spostati su:

 

www.gabrielepaolillo.com

 

See you there!

 
 
 

Umore (parte prima)

Post n°63 pubblicato il 17 Settembre 2009 da wildbillhickok

 

Mi alzo dal letto e capisco già che giornata sarà quella di oggi.

Non è difficile, basta leggere l‘aria che ci circonda al mattino.

Valutarne il peso.

Controllarne il movimento.

Testarne la temperatura.


Le prime volte non è semplicissimo, ci vuole un po’ di allenamento.

Per cominciare a farci la mano, però, cominciate a fumare.

Non c’è bisogno di aspirare, vi basterà accendere la sigaretta, poggiarla sul comodino ed osservare il fumo salire.

La sua velocità e le curve che disegnerà nell’aria vi permetteranno di acquisire tutte le informazioni necessarie per capire come andranno le successive 8-10 ore.

Badate bene, si tratta di un’indicazione, perché quello che il fumo vi dice corrisponde a ciò che accadrà se non farete nulla per tentare di modificare il corso degli eventi.

Non stiamo parlando di destino, quello non esiste, stiamo parlando semplicemente dell’interazione tra noi ed il mondo circostante.

Il corpo percepisce le variazioni di temperatura, movimento e concentrazione dell’aria, e reagisce a suo modo.

La peluria sottile che ci ricopre il corpo non serve solo a proteggerci, è anche un sistema di monitoraggio costituito da migliaia di appendici in costante contatto con l’esterno.


Per alcuni è un retaggio della nostra vita animale.

Di quando “annusare” l’aria era il miglior modo per scovare le prede.

Mezzo grado in più equivaleva alla presenza del fiato caldo di qualche animale nei paraggi.

Un lieve spostamento d’aria ne denunciava il movimento.

Un po’ di ossigeno in meno nell’etere, voleva dire che qualche bestia ne stava utilizzando tanto per riprendersi dopo una corsa.


E’ l’attenzione ai dettagli che fa la differenza tra una caccia fruttuosa ed una inconcludente.

E’ questo che ci ha fatto evolvere.

Ed è questo che dovrete riuscire a fare alla fine delle lezioni.


Questo corso non vi aiuterà a migliorare la vostra vita, non fatevi illusioni, ma vi sarà utile per affrontarla nel migliore dei modi possibili.


Credetemi, c’è molta differenza tra colui che si sveglia ed è in balia del proprio tempo, e colui che si alza consapevole del fatto che sarà una giornata di merda.

Pensate a come affrontate la morte improvvisa di un parente ed invece a come reagite alla notizia che uno dei vostri cari, malato da tempo, si è spento.

Non sono le notizie ad incidere sul nostro umore, ma la consapevolezza o meno del loro presentarsi.

 

In questo corso, ragazzi, siete tutti dei perdenti. 

Siete qui perché vi siete fatti attrarre dal suo nome, perché nel momento in cui vi siete trovati davanti alle parole “Teoria e tecnica della regolazione degli stati umorali” vi siete chiesti di cosa si potesse trattare.

E’ per questo che lo avete fatto, e nell’esatto momento in cui lo avete inserito nel vostro piano di studi avete dimostrato di averne un assoluto bisogno.

Vi siete fatti sorprendere da un titolo, e questo è forse il peggior inizio che ci si possa aspettare.

Vi dovreste vergognare ma mi auguro non lo facciate; perché anche la vergogna è una rappresentazione emotiva dell’inaspettato.

Mi auguro sinceramente, cari ragazzi, che alla fine di questo semestre usciate di qui ringraziandomi per non avervi donato emozioni.

 

 

Fu in questa maniera che il professor Brown irruppe nelle nostre vite il 14 ottobre del 1996.

Fu con quelle parole che riuscì a farsi odiare in pochi minuti da quasi tutto il suo corso; anche se non se ne preoccupò poi tanto.

Lo scopo delle sue lezioni non era quello di risultare simpatico, come ebbe modo di dirci più volte; il suo scopo era quello di leggere nelle nostre facce l’assoluta indifferenza, la mancanza totale di espressività derivante dalla “consapevolezza dell’ignoto”.

 

La consapevolezza dell’ignoto…

 

Bell’ossimoro – pensai quel giorno.

 

 

 

Il corso di “teoria e tecnica della regolazione degli stati umorali” era la cosa più strana che ci fosse capitata da parecchio tempo, con un gruppo di amiche avevamo deciso di iscriverci perché il professore era terribilmente sexy, e dopo ore di aula con vecchi grassoni occhialuti e megere in aria di menopausa, avevamo bisogno di un po’ di svago.

 

Quando entrammo in classe la prima volta ci accorgemmo di non essere le sole ad aver avuto quell’idea; il 70% degli studenti era di sesso femminile.

La restante parte era costituita da nerds irresistibilmente attratti dalla complessità del nome del corso (ed in questo, quindi, il prof. Brown dimostrò di aver ragione solo al 30%). 

 

Tra quella piccola massa di ragazzi abbrutiti dalle pagine dei libri di testo e dai loro PC carichi di linguaggi di programmazione e giochi di ruolo, Brown non poteva che uscirne ancor meglio di come la realtà non lo restituisse agli occhi di noi ragazze, nel pieno delle nostre tempeste ormonali.

 

Era moro, con gli occhi scuri e quella barba sfatta e pungente che nelle notti d’amore punge l’intimo della nostra essenza, confondendo piacere e fastidio e lasciando ai sensi l’arduo compito di dirimere la questione.

 

Il prof. Brown vestiva in jeans e camicia. Sempre.

Non amava lo stie elegante, non amava le cravatte, non amava nulla di quello che potesse ricondurlo ad un professore universitario.

 

E’ per questo che un giorno si presentò in aula in abito gessato scuro, camicia bianca e cravatta nera.

La sua apparizione vestito in quel modo costò a tutti noi una nota di demerito.

 

- Ancora una volta vi siete fatti sorprendere, ragazzi. Ancora una volta avete ceduto allo stupore. Ancora una volta mi avete fatto fallire.

Era sempre serio durante i suoi discorsi; e la contrapposizione tra il suo modo di agire ed il suo modo di tenere le lezioni, rendeva il tutto quasi esasperante.

 

Per le prime tre settimane ci sottopose ad un esperimento “base” (come lo definiva lui).

Ogni volta che ci dava le spalle per scrivere alla lavagna, si girava subito dopo con una palla rossa da clown sul naso.

Non era facile non ridere; e ci vollero circa tre settimane perché ci stufassimo di quel gioco e permettessimo al professore di complimentarsi con noi per la prima volta.

Avevamo superato la prova base, quella della “reazione emotiva attesa – non controllata”, quello stato mentale in cui si sa a priori che succederà una certa cosa, ma non si riesce a fare a meno di avere una determinata reazione al suo verificarsi.

 

L’avevamo superata con due giorni d’anticipo rispetto ai ragazzi dell’anno precedente, il che fu un buon risultato che ci valse una cena fuori, pagata dal prof. Brown.

 

La seconda prova, invece, non la superammo affatto.

Si tenne proprio alla fine della cena di festeggiamento, quando il professore, una volta ricevuto il conto, sì alzò dal tavolo per andare in bagno e non tornò più a sedersi.

Jonathan, che era andato a verificare che fosse tutto ok, tornò dalle toilette con aria incredula e ci disse:

E’ scappato dalla finestra del bagno… -

Seguirono alcuni minuti di imbarazzi, polemiche ed invettive, prima che riuscissimo a racimolare i soldi per pagare il conto e ce ne andassimo indispettiti.

Trovammo il professore seduto sul prato all’uscita del ristorante, incazzato quanto noi per il suo ennesimo insuccesso.

Ralf Ecker, uno degli studenti più calmi del corso, lo mandò a cagare senza troppi complimenti, e da quel giorno non lo vedemmo più in aula.

Noi altri continuammo a seguire le lezioni rapiti dai suoi modi di fare assolutamente imprevedibili, dai suoi cambi di umore comandati, dai suoi improvvisi gesti inaspettati.

 

Quattro settimane dopo il prof Brown entrò in classe e si sedette dietro la cattedra utilizzando la sedia, cosa che non faceva mai.

Rimase in silenzio e cominciò a guardarci, uno ad uno, senza dir niente.

Dedicò ad ognuno di noi circa tre minuti di sguardo attento ed impassibile, come a volerci guardare dentro.

Non seguì un ordine, e ritornò a più riprese su alcuni di noi per non farci pensare che il nostro turno potesse essere ormai passato.

Andò avanti così per circa un’ora e mezza.

Poi si alzò, si sedette sulla cattedra e rivolgendosi verso Lucilla la invitò ad alzarsi in piedi.

Lucilla ci provò, ma e sue gambe ressero poco più dello sforzo necessario per arrivare a metà della posizione eretta.

Poi ricadde sonoramente sulla sedia accennando un “ahi!”

 

- Quella che avete appena sperimentato si chiama strategia della tensione passiva. E’ una tecnica utilizzata in parecchi contesti politico militari, primo tra tutti la tortura. Sapete su cosa fa leva?

 

Alzai la mano: “Sull’incapacità di saper gestire le proprie reazioni emotive in situazioni inaspettate”

 

- Certo, ma questo è il tema dell’intero corso Mary. Io voglio sapere come riesce a produrre un effetto come quello che avete appena visto su Lucilla.

- Beh, la tensione emotiva si trasforma in tensione fisica. I muscoli tendono ad irrigidirsi in situazioni di forte stress psicologico e se si insiste si può riuscire a fiaccare una persona…

- Ottima spiegazione Mary. Con la teoria vai forte. Non posso dire lo stesso della pratica, dal momento che non riesci ad alzarti in piedi nemmeno tu, ma la consapevolezza è il primo passo per controllare le emozioni.

- E come si fa ad evitare gli effetti di questa strategia?

- Questo lo dovete capire da soli, ragazzi, pensateci durante il week end. Lunedì ne riparleremo.

 

 
 
 

Umore (parte seconda)

Post n°62 pubblicato il 17 Settembre 2009 da wildbillhickok

 

 

Uscì dall’aula senza nemmeno salutare. Una volta che la porta si chiuse alle sue spalle Lucilla si lasciò sfuggire un “Che stronzo…”.

Il professore riapparve magicamente affacciato all’esterno della finestra e disse: - Lucilla, una nota di demerito per te. Ricordamelo lunedì.

Questa volta riuscì ad alzarsi in piedi inviperita rispondendo: - Ma non è giusto!

Non sarebbe giusto se ti mettessi la nota per l’avermi dato dello stronzo; la nota, invece, è per la reazione che hai appena avuto e che prevedevo.

 

Lucilla s’era fatta fregare nella maniera più semplice possibile.

A quel punto del corso certe cose ce le aspettavamo un po’ tutti dal prof. Ci sentivamo abbastanza capaci di poter gestire i suoi comportamenti, da essere sicuri di poter superare la seconda prova in tutta tranquillità.

Fu questo che dicemmo a Brown durante la lezione del lunedì.

Lo avevamo appena informato di aver trovato la soluzione alla strategia della tensione passiva e lui, dopo aver affermato che l’idea di distogliere lo sguardo, evitando di incontrare quello del proprio osservatore, era buona, ci chiese se avremmo preferito affrontare subito la seconda prova oppure attendere qualche altra settimana.

Eravamo impazienti, così decidemmo di procedere il prima possibile, ma prima che potessimo esprimerci venimmo interrotti dal grido isterico dell’allarme anti-incendio.

Non ci fu molto tempo per ripassare le procedure di sicurezza, raccogliemmo le nostre cose e ci lanciammo verso l’uscita dell’aula per poi unirci e confonderci nei corridoi con gli studenti degli altri corsi.

In circa 15 minuti riuscimmo a recuperare l’uscita ed radunarci nel punto di ritrovo 1, sul cortile antistante la mensa. 

Alcuni di noi si guardavano freneticamente intorno cercando il punto preciso di origine delle fiamme. Qualcun altro raccoglieva i propri libri, caduti sul piazzale durante le fasi di evacuazione, tutti noi comunque, chi più chi meno, scontava uno stato di panico e tensione latente.

 

Dal portone principale apparvero il preside ed il prof Brown, si scambiavano battute mentre prendevano posto al centro del piazzale.

Brown accese il megafono che aveva in mano, lo portò alla bocca e disse:

Ragazzi, abbiamo tre notizie per voi. La prima è che non c’è nessun incendio, si è trattato di una esercitazione. La seconda è che avete appena dimostrato che ad evacuare un edificio siete davvero delle pippe. Non avete utilizzato le uscite di sicurezza, non avete sbloccato gli estintori, e la maggior parte di voi ci ha messo un quarto d’ora per concentrarsi in un punto di ritrovo diverso da quello assegnato. La terza è che i ragazzi del mio corso non hanno superato la seconda prova.

Potete tornare tutti alle vostre lezioni adesso. Grazie.

 

Ritornammo in aula in stato di profonda depressione. Lui era già lì che ci aspettava. Attese che prendessimo posto, poi disse:

 

Non avete raggiunto il controllo dei vostri stati umorali, ragazzi.

Credevate di essere pronti perché vi siete concentrati su di me e non su voi stessi. Aver fatto l’abitudine ai miei curiosi modi d’agire è un punto di partenza, ma non troverete di fronte a voi sempre e soltanto Adam Brown. Troverete altre persone, altre situazioni, altri contesti.

Per oggi direi che può bastare. Andate pure a casa. Ci vediamo giovedì.

 

 

Quel giovedì non andai a lezione. E come me tutti gli altri ragazzi del corso. Eravamo parecchio demoralizzati e nessuno se la sentiva di affrontare una nuova sfida seguita da una nuova sconfitta.

Ovviamente nemmeno Brown si era presentato, sapeva già che non avrebbe trovato studenti in aula, quindi si era ben guardato dal perder tempo e probabilmente aveva passato la giornata a pescare o svolgere qualsiasi altro tipo di attività poco emozionante.

 

Personalmente passai la giornata a fare un’autovalutazione. A guardarmi dietro ed a chiedermi cosa quel corso mi avesse insegnato e cosa ancora potesse insegnarmi.

Ne dedussi che l’unico aspetto positivo del seguire quelle lezioni era stato l’aiutarmi a sviluppare una certa capacità analitica, cosa che avrei potuto ottenere seguendo anche altri corsi meno deliranti, come algebra applicata o geometria spaziale.

Di negativo, invece, quel corso mi aveva dato tanto: mancanza di fiducia in me stessa, ansie ricorrenti, sbalzi d’umore e tensione emotiva ogni volta che entravo in aula; tutte reazioni che incidevano in maniera evidente sul mio fisico procurandomi sfoghi cutanei e la scomparsa del ciclo. A questo aggiungete che avevo cominciato a fumare copiosamente, aspettando ogni mattina che il fumo mi indicasse la strada da seguire, senza per altro riuscire mai ad ottenere un maledettissimo suggerimento.

 

Mi convinsi che l’unica soluzione per non mandare a puttane i miei 24 anni era quella di lasciare il corso.

Il problema era che il prof. Brown era riuscito a farci legare al suo corso facendocelo vivere come una sorta di sfida cruciale per dimostrare la nostra capacità di affrontare la vita.

Abbandonare il corso equivaleva ad abbandonare la possibilità di gestire e governare la nostra vita negli anni a venire.

Vivevamo l’abbandono del corso come una condanna a vivere in eterno nell’oblio e nella passività, in totale balia degli eventi. 

 

Dovevo lasciare il corso, ma non potevo farlo.

Così decisi che doveva essere il corso ad abbandonare me.

 

Mi presentai alla porta del prof. Brown alle 23.14 del 12 dicembre.

Sorrisi al professore sull’uscio e lasciai che mi facesse entrare in casa.

Mi sistemai sul divano e gli chiesi di aggiungere legna al camino – Potrei aver freddo… tra poco…- dissi.

Il professore manteneva la sua solita calma e sicurezza da uomo vissuto, evitai di chidergli se si aspettasse la mia visita o meno, dal momento che la risposta sarebbe stata scontata, vera o fasulla che fosse.

Bevemmo un po’, chiacchierammo del più e del meno, fin quando non sentii di essere abbastanza su di giri per passare alla fase due.

Mi alzai in piedi, aprii il cappotto color panna che non avevo mai levato di dosso, e lasciai che l’intimo nero di seta, l’unica cosa che avevo indossato prima di uscire di casa, facesse il resto.

 

Un ora dopo, stesi nudi l’uno accanto all’altro sul pavimento, mi girai verso il mio uomo, lo guardai negli occhi e gli sussurrai alcune parole:

 

- E’ da quando sono entrata in quell’aula, due mesi fa, che sognavo di farlo; le ragioni sono cambiate con il passare dei giorni, ma il desiderio non è andato via. Ci ho pensato molto e mi sono chiesta se fosse giusto arrivare fino a questo punto oppure se mi sarei dovuta fermare prima.

Non è stato facile prendere coraggio, ma ad un certo punto ho deciso che ciò che mi spingeva a farlo aveva molto più senso di ciò che mi tratteneva.

I desideri vanno trasformati in realtà, a volte.

Sai perché? Per rendersi conto di quanto possa essere distante la realtà dalla fantasia; e… vedi Adam… questo è il classico caso in cui le aspettative superano di gran lunga la realtà.

Ora che l’ho provata, posso dire che sei stato di gran lunga la peggior scopata della mia vita…

 

Avete mai avuto modo di osservare il terrore, l’incredulità, lo stupore negli occhi di un uomo?

Io sì, successe quella notte. Quando per la prima volta da chissà quanto tempo il prof. Adam Brown ebbe modo di sperimentare il terribile sapore dell’inaspettato.

 

Adam conosceva le persone, ci sapeva giocare, sapeva manipolarle; ma troppo preso dalle sue manie, dimenticava di fare attenzione alla propria vulnerabilità.

Spesso quando si è maestri nell’attacco ci si dimentica di pensare alla propria difesa.

E non ci sono mura più semplici da abbattere, per una donna, di quelle rese friabili dallo spettro del fallimento sessuale.

Dite ad un uomo di essere una schiappa a letto e lo avrete in pugno.

 

Il corso di teoria e tecnica della regolazione degli stati umorali venne cancellato definitivamente a gennaio per assenza del docente incaricato.

 

Il professor Brown non fu più visto in città e tutti noi riguadagnammo la serenità, la spensieratezza, ma soprattutto la gioia di poter vivere appieno le nostre gioie, i nostri dolori, i nostri stati d’animo senza doverli programmare dal mattino.

 

Solo Lucilla conosce i dettagli di quello che successe, tutti gli altri ignorano il motivo di quella scomparsa.

Meglio così…

 

g.

 
 
 

Due Parole

Post n°61 pubblicato il 12 Luglio 2009 da wildbillhickok

 

 

Erano le 16:15 del 9 luglio 1977.

Le pale del ventilatore da soffitto giravano troppo lentamente per portare un po’ di beneficio nella sala d’attesa dello studio medico,  così la signora Mary si faceva aria con un grosso ventaglio in stile liberty, portatole dal marito da un viaggio in Indonesia.

 

Adelaide, seduta sulle sue gambe, sfogliava una rivista di gossip indicando le immagini e rivolgendo lo sguardo alla madre che, sorridendo, annuiva preoccupata.

 

La bambina aveva lunghi capelli biondi, pieni di boccoli, ed un visetto paffuto e solare.

Gli occhi vispi, neri e profondi, denunciavano una incredibile curiosità per le cose del mondo, accompagnata da un totale sprezzo del pericolo.

Era una bambina difficile Adelaide, difficile da tenere a freno, sempre pronta ad arrampicarsi, saltare, scivolare, scavalcare, e compiere qualsiasi gesto le potesse permettere di raggiungere il proprio scopo che, nella maggior parte delle occasioni, consisteva nell’agguantare qualche oggetto non a portata di mano.

 

Adelaide aveva tre anni, tre anni e tre giorni per la precisione, ed era una bambina piuttosto precoce quasi in tutto.

Aveva imparato a camminare dopo appena sei mesi; ad otto comprendeva quasi tutto ciò che le veniva detto. A 10 mesi era in grado di riconoscere numeri e lettere senza esitazione e, soprattutto, senza che nessuno glielo avesse mai insegnato.

 

Ad Adelaide, insomma, non mancava praticamente nulla.

Nulla ad eccezione della parola.

 

 

 

La stanza del dottore si aprì lentamente ed una distinta signora ne uscì ripetendo più volte frasi di ringraziamento e di scuse nei confronti del medico. Si trascinava dietro un ragazzino visibilmente imbarazzato e con i pantaloni bagnati sul davanti, al quale non venne risparmiato un sonoro scapaccione appena la porta della stanza si chiuse alle loro spalle.

 

Nel compiere quel gesto la madre si guardò attorno, come a dover dimostrare agli astanti la propria severità nel non lasciare impunito il gesto sconsiderato del figlio.

Il bambino lacrimò visibilmente ma non profuse né parole né lamenti, conscio di essersi lasciato andare ad un istinto al quale proprio non doveva cedere.

 

 

Adelaide guardò la scena con i suoi soliti occhi investigativi, poi si rivolse con aria interrogativa alla madre che chiuse rapidamente la questione sussurrando un “Non si fa”, proprio mentre la distinta signora usciva dallo studio salutando la segretaria e porgendole una grossa mancia per comprare il suo silenzio.

 

 

La ragazza intascò il denaro, salutò, poi lasciò la scrivania e si diresse verso la stanza del medico; aprì la porta di quel tanto che bastava per infilarvi dentro la testa e chiedere qualcosa al dottore, poi ne usci e, rivolta verso la signora Mary, abbozzò un falso sorriso e la invitò ad entrare dal pediatra.

 

 

Adelaide scivolò via dalle gambe della madre, senza che questa le avesse dato alcun ordine, e le si piazzò davanti in attesa che lei si alzasse e le porgesse la mano.

Ma Mary, invece di tenerle la mano, la prese in braccio e si diresse verso la porta.

 

E’ permesso? –

Avanti. –

 

Lo studio del dott. Calvin era meraviglioso, o almeno era così che lo vedeva Adelaide.

Aveva un intenso profumo di camomilla e ed un sacco di strumenti interessanti da farsi raccontare ogni volta che il dottore la visitava.

Uno scheletro umano, perfettamente assemblato, campeggiava accanto alla scrivania lucida in legno di noce.

Doveva essere quello di un bambino, a giudicare dalle sue dimensioni, e ad Adelaide piaceva particolarmente perché quando la porta dello studio si apriva, la corrente d’aria faceva cozzare le ossa tra di loro producendo un sinistro ma simpatico ticchettio.

 

Buongiorno - disse il dottore avvicinandosi a loro.

 

Poi si sfilò lo stetoscopio dal collo e lo avvicinò alle orecchie di Adelaide che si protese in avanti per facilitare l’operazione. Una volta pronta, prese la placca metallica e la poggiò sul petto del dottore sorridente.

 

Sto bene? – Chiese il medico.

 

Adelaide fece di sì con la testa.

 

Bene, allora possiamo cominciare – 

 

La bambina si tolse lo stetoscopio e lo porse nuovamente al dott. Calvin.

 

Mi dica signora Quant, c’è qualche motivo preciso per il quale mi venite a trovare, oppure si tratta di una semplice visita di controllo?

Dottore – rispose la signora Mary con aria preoccupata – Adelaide non parla ancora…

Signora Quant, so bene quanto la cosa la preoccupi ma ne abbiamo già parlato. Adelaide non ha nessun problema di natura fisica. Le sue corde vocali sono a posto e sappiamo che il suo pianto è chiaro, forte e regolare, quelle poche volte che piange. Adelaide è soltanto un po’ pigra, del resto non ha bisogno di chiedere per farsi capire, le bastano i suoi sguardi e le sue espressioni. Verrà il giorno in cui comincerà a parlare, le dia tempo, ha mai visto un quarantenne non parlare?

Beh no, a meno che non fosse muto davvero.

Ecco, allora vuol dire che prima o poi si comincia. Stia tranquilla.

Dottore, e se non parlasse mai?

Se non parlasse mai, cosa del tutto improbabile, se la caverebbe lo stesso egregiamente, di questo può starne certa. Vero Adelaide?

 

Ancora una volta Adelaide accennò un sì con la testa, mentre con la mano si divertiva a far girare il mappamondo di legno poggiato su uno degli scaffali della libreria. Certi discorsi non li capiva ancora benissimo, ma sapeva quando un “sì” era la risposta che ci si aspettava da lei.

 

 

Mary lasciò lo studio del dottore visibilmente infastidita. Adelaide le stava ancora in braccio e giocava con i suoi capelli, mentre scendevano le scale dell’edificio e si infilavano nell’auto in cui un uomo attendeva alla guida. Aveva il cappello poggiato sul viso perché la luce del sole non interrompesse il suo riposo, così allo scattare delle portiere che si aprivano fece un sobbalzo.

 

Come è andata tesoro?

Male! - rispose Mary infastidita - Calvin continua a dire che non c’è da preoccuparsi e che prima o poi parlerà. –

Beh? Allora perché tanta rabbia?

Perché non è possibile che Adelaide non parli ancora! Non lo accetto. Le figlie delle mie amiche cantano tutte le canzoni di Elvis a memoria, ormai, mentre mia figlia non è in grado nemmeno di dire “buonagiorno” quando il postino bussa alla porta!

Mary, questo non mi sembra giusto, ti preoccupi più per la figura che puoi fare con le tue amiche piuttosto che per nostra figlia?

Non mi preoccupo per Adelaide perché so che non ho motivo di preoccuparmi per lei, Alex! Lo sai bene. Ma questa cosa non mi và affatto! No, non mi va, non posso farci niente!

Ok, allora preoccupati soltanto di avere un po’ di pazienza. Il dottor Calvin è un esperto, se dice che si tratta di un ritardo non troppo preoccupante vuol dire che Adelaide prima o poi parlerà.

 

Il dott. Calvin era, in effetti, un esperto pediatra.

Professore della materia ad Oxford e medico di praticamente tutti i figli delle amiche di Mary.

C’era da fidarsi, insomma.

C’era da fidarsi perché il dottor Calvin non si sbagliava mai.

 

Quasi mai.

 

Ci vollero altri 6 anni perché il dottore si convincesse che Adelaide non avrebbe mai parlato.

Al medico sarebbe piaciuto poter studiare un po’ più approfonditamente la bambina per capire l’origine del problema, ma Adelaide si rifiutò categoricamente di sottoporsi a tre giorni di analisi, lontana da casa, tra sconosciuti che l’avrebbero obbligata a pratiche ed esercizi fastidiosi e stancanti.

 

Mary non riuscì in alcun modo a convincerla; si era quasi decisa ad obbligarla se Alexander non si fosse messo dalla parte della bambina.

Mary, Adelaide è così ed è ora che tu cominci ad accettare questa cosa. Sei la madre più amorevole del mondo fino a quando non ti torna su questo pallino della parola; ed ogni volta che accade sembra che questa sia la cosa più importante dell’universo. Ti prego, finiscila. Adelaide non parlerà. Ne ora ne mai. Fattene una ragione. 

 

La donna guardò Alexander con gli occhi lucidi, quasi incredula di aver sentito quelle parole, si girò su se stessa senza proferire verbo e si diresse in camera da letto per sfogare la sua frustrazione.

 

 

Alexander la raggiunse, dopo essersi assicurato che Adelaide stesse ripetendo a mente la lezione di storia che avrebbe disegnato sulla lavagna il giorno seguente,durante l’interrogazione in classe.

 

Si sedette accanto a Mary, le accarezzo i capelli, e le sussurrò dolcemente:

Forse sono stato un po’ brusco tesoro, ma sai come la penso, abbiamo una figlia splendida, frutto del meglio di ognuno di noi, e non è giusto che una sciocchezza del genere  possa tramutarsi in un problema per noi e per lei.

Adelaide cresce rapidamente, impara ancor più in fretta. Ha ottimi voti a scuola ed ha già imparato ad  utilizzare il telaio e tagliare la stoffa per le tue creazioni.

Tra poco sarà una donna e, secondo me, un’ottima modella per tutte le tue creazioni.

 

 
 
 

Due Parole (2)

Post n°60 pubblicato il 12 Luglio 2009 da wildbillhickok

 

Potrete lavorare assieme e far crescere il Bazaar.

Vedrai, sarà un successo…

 

Mary si girò a guardarlo, sorrise con gli occhi ancora gonfi, e lo baciò.

Scusami Alex, hai ragione, sono una sciocca. Vorrei il meglio per Adelaide, ma forse il meglio è già averla con noi.

 

Alexander sorrise, si alzò dal letto, e torno giù a terminare i preparativi per la cena.

 

Del problema di Adelaide, posto che fosse davvero un problema, non se ne parlò più.

 

 

 

Gli anni filarono via veloci, le attività della famiglia Green, il ristorante ed il Bazaar, producevano un reddito più che dignitoso, tanto da permettere a Mary di organizzare il lancio della punta di diamante della sua linea donna ’65, in pompa magna.

Una passerella venne organizzata nello scantinato spostando i tavoli del ristorante e lasciando spazio ad una lunga corsia illuminata da faretti bassi.

 

L’alta moda Londinese era certamente abituata a qualcosa di molto più ricercato, ma la clientela del Bazaar, fatta di anticonformisti desiderosi di rompere con le regole dell’ordinata società inglese, apprezzò molto lo stile della sala.

 

La musica dei Beatles dava il ritmo alle ragazze che si alternavano sulla scena indossando abiti nuovi, originali, diversi. Abiti che gridavano alla voglia di sovvertire le regole del buon gusto, ammesso che esistesse davvero una definizione di buon gusto.

 

 

Ad un tratto la musica si fece più bassa, Alexander prese in mano il microfono e salendo sul palco presentò Mary.

…è lei, che ho l’onore di aver preso in moglie il 16 gennaio scorso, ad aver creato tutto questo; ed è lei che vi presenterà qualcosa di mai visto prima. Tenetevi forte ragazzi!

 

Un rullo di tamburi fece da cornice agli applausi mentre Mary, con un pizzico di imbarazzo, prendeva la parola:

 

Voglio per prima cosa ringraziare tutti voi per essere venuti. Alexander mi fa più pubblicità di quanta ne meriti (ed un soffuso coro di “Nooo” si levò dalla sala) ma devo dire che stasera sono particolarmente orgogliosa di quello che vedrete apparire in passerella. Non ne sono io l’artefice, bensì tutte le ragazze che ogni mattina si vestono per uscire, inventando il proprio stile. Quindi grazie a tutte voi. Spero che vi piaccia…

 

 

La musica di sottofondo venne sostituita da tonalità psichedeliche, i faretti colorati illuminarono la tenda alla fine della passerella, dove poche ore prima campeggiava in bella vista il vetro della cucina.

 

Pochi secondi; prima che dal retro del drappo apparisse Adelaide, in tutta la sua bellezza da acerba sedicenne, meravigliosamente truccata ma incredibilmente ancora acqua e sapone.

 

Indossava un top elastico a fascia che le copriva il poco seno che madre natura le aveva donato, ma soprattutto una gonna corta, cortissima, la più corta che fosse mai apparsa fino ad allora, che le scopriva le ginocchia ed una grossa porzione di coscia.

 

Una miscela di “ohh di stupore” e grida di approvazione si levò dalla folla, mentre Adelaide camminava a passi decisi sulla passerella, seria come soltanto una professionista può essere, e sexy, maledettamente sexy, come soltanto un altro genere di professioniste sa essere.

 

Al fragore seguirono gli applausi, mentre Adelaide ripercorreva la passerella a ritroso per tornare a scomparire dietro il drappo viola.

 

Signore e signori – disse Alexander riconquistando il palco assieme alla Moglie di cui stringeva saldamente la mano – vi abbiamo appena presentato un nuovo concetto di abbigliamento, un oggetto che rende finalmente giustizia alle donne, un capo che scopre le gambe e le rende libere di respirare, di esprimersi, di mostrare la propria dignità. Un capo che libera le gambe, per liberare le donne. Vi abbiamo presentato, signori, la minigonna!

 

 

Difficile descrivere l’euforia che pervase la sala al termine di quelle parole. La standing ovation assunse i connotati dell’acclamazione quando parecchi invitati salirono in piedi plaudenti sulle sedie e sui tavoli per dimostrare il proprio entusiasmo. Alcune ragazze, si vocifera, sfoggiarono un improvviso topless per sottolineare la loro voglia di libertà.

Alcuni giornalisti fecero cerchio attorno a Mary, altri riuscirono a raggiungere Adelaide che nel frattempo aveva preso posto accanto alla passerella, colmandole le orecchie di domande alle quali lei non avrebbe potuto rispondere.

 

Fu proprio questo, in effetti, a regalare il maggior eco alla creazione di Miss Mary Quant.

 

Non solo la minigonna, ma anche la misteriosa ragazza senza parole, “il cui silenzio dava ancora più voce ad una libertà che non aveva bisogno di essere espressa in altro modo, se non quello della possibilità di mostrare se stesse, senza timore di giudizio”.

 

Così titolava il Weekly Fashion una settimana dopo la sfilata.

 

Gli affari proseguirono a gonfie vele, tanto da permettere alla famiglia Green di aprire un fashion store a Brompton Road, zona molto più aristocratica e ben frequentata di quanto non fosse Kings Avenue.

 

Il ristorante venne chiuso, per l’impossibilità di star dietro alle due attività contemporaneamente, non senza il dispiacere di parecchi affezionati clienti.

 

Parecchie linee di abbigliamento e modelli particolari seguirono la collezione del ’65, ma questa rimase la più incredibile creazione della sartoria moderna.

 

Adelaide, la ragazza senza parole simbolo paradossale della libertà d’espressione, svestì i panni della modella subito dopo la prima sfilata.

Partecipò a parecchie trasmissioni televisive ed interviste mute, con il solo scopo di aiutare la diffusione della minigonna assicurando migliaia di sterline alla famiglia.

 

Una volta che il prodotto venne avviato alla produzione su larga scala, Adelaide tornò a disegnare collezioni insieme alla madre, lasciando il testimonial di modella simbolo della minigonna, ad una certa Twiggy Lawson, l’unica che poi venne ricordata negli anni ed associata al rivoluzionario capo d’abbigliamento.

 

 

Viveva già in un certo agio, quando a 21 anni venne portata all’altare da Howard Culligan, giornalista televisivo conosciuto durante la sfilata, cinque anni prima.

 

Adelaide scelse per se, in perfetta coerenza con la legge del contrappasso, un uomo che della parola aveva fatto la propria vita. Lei che aveva invece fatto dei silenzi la propria parola.

 

 

Howard la amava per questo, per la sua capacità di esprimere con lo sguardo ciò che aveva dentro. Non le aveva mai chiesto parole o spiegazioni, come se non ce ne fosse mai stato bisogno né motivo; e quando dopo la cerimonia nuziale, durante il rinfresco, il dott. Calvin si intrattenne a parlare con Howard, non poté fare a meno di ribadire ciò che parecchi anni prima aveva avuto modo di dire a Mary.

 

Non mi sbagliavo, mio caro ragazzo, a sua madre dissi queste precise parole: “Se non parlasse mai, cosa del tutto improbabile, Adelaide se la caverebbe lo stesso egregiamente”, e mi permetta un piccolo moto d’orgoglio nel confermarle che non mi sbagliavo.

 

 

Howard faceva finta d’ascoltare mentre si asciugava le lacrime, distratto e distrutto di gioia per quello che aveva appena vissuto.

 

Non aveva nemmeno avuto la forza di mettere l’anello al dito della propria sposa, nel momento in cui il prete gli aveva chiesto di farlo.

 

Ci aveva pensato lei, da sola, sorridente tra gli applausi degli invitati che avevano rotto il religioso silenzio della chiesa.

Ci aveva pensato lei, da sola, pochi minuti dopo aver preso il foglio, passatole dal reverendo Wichkok, sul quale avrebbe dovuto scrivere la propria promessa e lo aveva strappato, guardando Howard negli occhi e pronunciando le parole:

 

Lo voglio”.


Adelaide non disse mai più niente.

 

 
 
 
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