Prigione dei Sogni

Cercare adagio, umilmente, costantemente di esprimere, di tornare a spremere dalla terra bruta o da ciò ch'essa genera, dai suoni, dalle forme e dai colori, che sono le porte della prigione della nostra anima, un'immagine di bellezza che siamo giunti a comprendere: questa è l'arte. James Joyce

 

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Gabrielle

Post n°84 pubblicato il 20 Aprile 2006 da Notram
 
Foto di Notram

Rimase così per un tempo indefinito, con le braccia conserte attorno alle magre ginocchia, come un piccolo feto che, incapace di nascere, gode della protezione del grembo materno. Il tremore, ormai quasi un sussulto, era l’unica prova che non era morta. Fissava con occhi vacui quel corpo ormai inanimato e contratto dalla morte. Avrebbe dovuto piangere, avrebbe dovuto sfogare quel dolore, quell'oscuro terrore, in qualche maniera. Ma era come se la paura, snobbando completamente il suo cuore, avesse concentrato la sua influenza sul resto del suo corpo paralizzandola in questa folle immanenza. Solo quella piccola lacrima stazionava sul suo viso
Ad un certo punto sentì una voce chiamare il nome di suo padre e l’ansia della fine l’assalì in maniera improvvisa, ridestando la sua coscienza almeno in parte. Se l’avessero trovata cosa le avrebbero fatto? Doveva scappare, ma non aveva il controllo di quel suo corpo…
“Gabrielle, sei tu, sei ancora viva!” esclamò la voce di Julius.
Ma lei non riusciva a riconoscerlo, vedeva solo un’ombra sfocata che la scuoteva e pronunciava parole che alle sue orecchie apparivano distorte e dissonanti.
“Dobbiamo fuggire, è pericoloso restare qui. Ce la fai a camminare?”
L’ombra l’afferrò, per lei furono attimi interminabili. Si dibatteva con tutta l’energia che aveva, ma quella figura la prese in braccio senza problemi. Quell’iniziale turbamento, quell’angoscia vorace piano piano si acquietarono lasciando il posto ad una strana serenità. Tra quelle braccia si sentiva di nuovo protetta, ancora una volta al sicuro.
Uscirono fuori. Il rumore dei mortai risuonava prepotentemente nell’aria, come a voler coprire le urla della gente che moriva.
Quel vigliacco attacco a sorpresa non aveva dato il tempo alla città di difendersi, non aveva permesso ai civili di cercare rifugio, così in molti si erano rintanati nelle loro case aspettando che il peggio fosse passato. Ma la guerra aveva reso inumani i soldati, da ambo le parti. I vincitori saccheggiavano e stupravano, i vinti sparavano a qualsiasi cosa si muovesse. Fu proprio questa pazzia a spazzare via l’ultimo barlume dell’infanzia di Gabrielle…In un attimo, quel colpo sparato da chissà chi, mise fine a tutto. Si sentì cadere a terra, non ricordò il dolore del tonfo, ma la sua attenzione fu richiamata, piuttosto, dal suo vestito celeste sporco di sangue. L’ombra che le aveva salvato la vita, che l’aveva protetta stava cercando di dirle qualcosa, qualcosa che assunse pian piano un senso…
“Corri, Gabrielle, corri” diceva, prima urlando, poi sussurrando, infine rantolando.
“Corri, Gabrielle, corri” queste parole la risvegliarono dal suo torpore, le portarono via l’innocenza, ma la restituirono alla vita. Si alzò e cominciò a correre Gabrielle, forse corre ancora adesso….





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Questo è solo il finale del racconto "Il più grande silenzio", che ho scritto per il blog "Una storia a metà", del mio amico Dicembre. La prima parte del racconto, scritta da lui, potete trovarla sul suo blog, che è tra i miei links.

 
 
 
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Data di creazione: 09/10/2005
 

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