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Il profumo delle foglie di mimosa

Post n°268 pubblicato il 27 Ottobre 2011 da mariopulimanti
 
Foto di mariopulimanti

Oggi è una giornata non tanto per la quale.

Vabbè, è stato un autentico shock scoprire questa notizia, che mi risulta molesta quanto il trapano di un dentista.  

Colpito e affondato.

Ah, adesso sì che mi sono rovinato la giornata.

Devo ammettere che è duretto da sopportare.

Cristiddio.

Non l’ho fatta fuori dal vaso.

Non ho razzolato male.

E’ solo sfiga non avere santi in paradiso.

Ben poco nobili sono gli accostamenti tra Nostro Signore e vari animali da cortile che mi escono strozzati dalla gola, mentre una collega, china su di me, mi da la brutta notizia, premendomi sulla spalla destra.

Ma non si tratta di una punizione, no!

La povera collega architetta su due piedi questa fesseria per rimediare al fatto di essersi lasciata scappare una battuta di troppo, ma di solito dove c’è fumo c’è fuoco.

Per il momento decido di stare al gioco.

Lei è piccola, con i capelli raccolti in una treccia e le mani pienotte; sul corpo bisogna lavorare un po’ di fantasia, visto che è ingabbiato in un abito tra il saio e il silos. Poco male, visto che il punto di forza della collega sono gli occhi. Uno sguardo diretto, franco e sorridente; due occhioni scuri marezzati di verde che lo sanno benissimo che stamani non vi siete cambiati le mutande, ma vi fanno capire che in fondo sono affari vostri.

Adesso c’è da capire un’altra cosa: come mai sono stato trasferito? O meglio: qual è il senso di quello che sta accadendo? Chi è responsabile di questo stato di cose?

Continuo ad invocare il nome di Dio invano e anche piuttosto in malo modo mentre, individuati nella mia mente gli autori del misfatto, penso di convocare i presunti traditori a duello.

Ritenendo di essere stato offeso, sono convinto che sia giusto sparacchiare a questi fetenti seguendo le regole della buona educazione, seguendo punto per punto tutti i dettami riguardo ai padrini e all’offerta di cancellare le offese.

Posso, quindi, tranquillamente crivellarli senza che l’opinione pubblica ci trovi qualcosa da ridire.

Poi, mi calmo.

Cavolo, non sono mica deficiente.

Del resto ho sempre attribuito al destino un valore positivo. Ritengo che tutto sia arbitrario. Ci sono cose di fronte alle quali si è impotenti.

Che state dicendo? Che non mi devo lamentare? Dovrei, infatti, sapere che medici africani, avvocati albanesi e chimici iracheni fanno i posteggiatori abusivi sul Lungomare di Ostia?

Non so cosa rispondervi.      

Ma ora basta.

Ho la sensazione che è solo una totale perdita di tempo inseguire questi pensieri.

Mi hanno fatto nero.

Ho tanto bisogno di fermarmi.

Allora torno a casa.

Il breve pomeriggio di questo fine ottobre sta spegnendosi in un prematuro crepuscolo.

La mia stanza è al buio.

Penso a mio padre.

Di che cosa è morto?

Della stessa cosa di cui muoiono tutti, alla fine: per una serie di circostanze.

Aveva una malattia che non poteva essere curata.

Non c’è stato nulla da fare.

Ma adesso è inutile parlarne.

Adesso.

Mmh. E allora dov’è il problema?

Mi chiedo: che c’è oltre la memoria?

Prendo un caffè.

Nessun problema: ora sto meglio.

Quasi soprappensiero ripulisco con il dito il caffè rimasto nella tazzina.

Il momento è passato.

Mi allento la cinta dei pantaloni con una smorfia di piacere.

Raccolgo il telecomando e passo pigramente da un canale all’altro, fermandomi infine su un telegiornale che guardo per qualche minuto con annoiata disattenzione, consapevole che mi si stanno abbassando le palpebre.

Non sto male.

Sono solo stanco, stanchissimo.

Non sono presuntuoso: diciamo che a spanne, nella scala della competenza mi sento sotto allo zerbino.

Forse il punto è questo: la semplice inutilità del tutto…bè, a torta finita, è così.

Non ha senso: qualcosa non torna.

Mi stringo nelle spalle. Non so se riuscirò a farmene una ragione.

A questo punto mi dichiaro battuto.

Bè, mi duole dirlo, però.

Non c’è nient’altro da pensare.

Non ho nient’altro da dire.

Mario Pulimanti (Lido di Ostia -Roma).

 
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