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CHIARIMENTI
Le notizie riportate nel presente blog, ove altrimenti non specificato, sono affidate alla memoria dell' autore e non possono pertanto essere considerate degne della minima fede. Ritengo sia mio preciso obbligo morale diffondere bufale, spacciandole per vere e viceversa. Chi si fida di me sbaglia a farlo, ma, volendo, potrebbe prendere spunto da quel bel po' di verità che sarà in grado di trovare in ciò che scrivo, per approfondire l' argomento, se gli interessa, altrimenti, ciccia.
Chi volesse comunque riferirsi a fonti ancor meno affidabili di una vacillante memoria di un incallito bufalaro, potrà consultare Wikipedia o, peggio ancora, la Treccani Online che a Wikipedia spesso rinvia. Degno di considerazione è il fatto che le idiozie di cui Wikipedia è spesso -non sempre, siamo onesti- intrisa fino al midollo sono consultabili gratis, laddove per la redazione della Treccani online lo Stato ha erogato all' ente, presieduto da un non bene amato ex ministro di nome Giuliano, due bei milioncini di euro nostri: che fine avranno fatto? Non c'è alcuna malizia da parte mia, s'intende, nel formulare questa domanda: solo semplice curiosità.
La lettura di questo blog è vivamente sconsigliata a chi ignora cosa sia l'ironia e/o non è in grado di discernere il vero dal falso.
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Cento sonetti in vernacolo romanesco (di Augusto Marini)
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Terze Rime 25 (1)
Post n°831 pubblicato il 15 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
Terze Rime di Veronica Franco Addelkader Salza, Bari, Laterza 1913 XXV a quel bel loco, per dover partire, come fei, non ben quivi anco arrivata. Così gravoso il ben suol divenire, che, quant'egli è maggior, via maggior duolo col dilungarsi in noi suol partorire: tosto ne va 'l piacer trascorso a volo; né ponendo in ragion l'util passato, a la perdita mesti attendem solo. E non vorrei però da l'altro lato sì vago nido non aver veduto, a la tranquillità soave e grato. E, se pari al desio non l'ho goduto, quanto guastato più, tanto più caro, il lasciarlo mi fôra dispiaciuto. E pur, formando un pensier dolce amaro, con la memoria a quei diletti torno, che infiniti a me quivi si mostráro: sempre davanti gli occhi ho 'l bel soggiorno, da cui lontan col corpo, con la mente, senza da me partirlo unqua, soggiorno: ricrear tutta in me l'alma si sente, mentre qua giù sì lieto paradiso da dover contemplar le sta presente. Da questo lo mio spirto non diviso va ripetendo le bellezze eterne, dal soverchio piacer vinto e conquiso. E, mentre le delizie avido scerne, nel gioir di se stesso, afflige i sensi, che non puon separati ancor goderne: così, quanto m'avien ch'amando pensi a l'abitazion vaga e gentile, tra gioia e duol convien che 'l cor dispensi. In questo piglio in man pronta lo stile; e, per gradir al sentimento, fingo quel loco quanto possi al ver simìle: e, se ben so ch'a impresa alta m'accingo, tirata da la mia propria vaghezza, senz'arte quel ch'io so disegno e pingo. Oh che fiorita e gioconda bellezza quivi mostra e dispiega la natura, raro altrove o non mai mostrarla avezza! Certo è questa, quell'unica fattura, in cui, vinta se stessa, a tutte prove ripose ogni sua industria, ogni sua cura. Di tutto quel che piaccia al mondo e giove, favorevole il cielo a cotal opra, il maggior vanto eternamente piove. Quivi 'l ciel manda il suo favor di sopra, né men la terra in adornar tal parte con gli altri, a gara, elementi s'adopra. Vince l'imaginar d'ogni umana arte la disposizion di tutto 'l bene, ch'unito quivi intorno si comparte; e pur di quell'altezza, ove perviene l'eccellenza de l'arte in cose belle, vestigie espresse il bel luogo ritiene. Così determinarono le stelle far quivi in dolci modi altrui palese quanto puon destinar e influir elle. In questo avventuroso almo paese l'ornamento del ciel si mostra in terra, ch'a farlo un paradiso in lui discese. Di lieti colli adorno cerchio serra l'infinita beltà del vago piano, dove Flora e Pomona alberga ed erra. Quasi per gradi su di mano in mano di fuor s'ascende 'l poggio da le spalle, sempre al salir più facile e più piano; quinci in giù per soave e destro calle s'arriva a la pianura in pochi passi, ch'è posta in forma di rotonda valle: se non che in guisa rilevata stassi, ch'è quasi, entro a quei colli, un minor colle, che 'ntorno a lor si dispiani e s'abbassi, sì che d'entrarvi a Febo non si tolle, poco alzatosi fuor de l'oriente, nel prato d'erbe rugiadoso e molle. Entra 'l sol quanto entrar se gli consente da un bosco d'alti pini e di cipressi, pien d'ombre amiche al dì lungo e fervente; e gode di veder quivi con essi de la sua amata in corpo umano fronde, già braccia e chiome, or verdi rami spessi, tra' quai quanto può penetra e s'asconde, per la memoria ch'anco entro 'l cor serba, de l'amorose piaghe profonde. De la ninfa la sorte così acerba pietoso Apollo ai grati rami tira, ed a quivi posar vago tra l'erba: l'aria d'intorno ancor dolce sospira di Dafne al caso, e spirto d'odor pieno, le vaghe foglie ventilando, spira. E 'l ciel, là più ch'altrove mai sereno, fa che d'ogni stagion la copia vuote in quella terra il corno suo ripieno. Quivi con l'urne non mai stanche o vuote a portar l'acque son le ninfe pronte, tai che 'l cristal sì chiaro esser non puote: queste versando van da più d'un fonte le succinte e leggiadre abitatrici di questo e quel vicin ben colto monte; ed a l'altre compagne cacciatrici, che, dietro i cervi stanche, a rinfrescarsi vanno le fronti angeliche beatrici, co' bei liquidi argenti intorno sparsi porgon dolce liquor da trar la sete, e le candide membra da lavarsi. Dai freschi rivi e da le fonti liete, quasi scherzando, l'acque in vario corso declinan verso 'l pian soavi e quete; e, poi che 'n lenta gara alquanto han corso, per via diversa si raggiungon tutte verso un bel prato, a lor dinanzi occorso; e da natural arte a far instrutte bello quel sito a maraviglia, vanno per canali angustissimi ridutte. Quivi entrate, a varcar poco spazio hanno, ch'a un fiorito amenissimo giardino, dolce tributo di se stesse dànno: con man distesa e passo tardo e chino dàn di se stesse le più dolci e chiare al giardinier ch'a l'uscio sta vicino. Questi, com' a lui piace, le fa entrare, ch'obedienti a l'arte, fan quel tanto ch'altri accorto dispon che debban fare. Non cede l'arte a la natura il vanto ne l'artificio del giardin, ornato d'alberi colti e sempre verde manto; sovra 'l qual porge, alquanto rilevato, d'architettura un bel palagio tale, qual fu di quel del sol già. poetato: infinito tesor ben questo vale per l'edificio proprio, e gli ornamenti, che 'n ricchezza e in beltà non hanno eguale I fini marmi e i porfidi lucenti, cornici, archi, colonne, intagli e fregi, figure, prospettive, ori ed argenti quivi son di tal sorte e di tai pregi, ch'a tal grado non giungono i palagi, che fêr gli antichi imperadori e regi. Ma le commodità di dentro e gli agi son così molli, che gli altrui diletti al par di questi sembrano disagi. Per li celati d'òr vaghi ricetti, sul pavimento, che qual gemma splende, stan sopra aurati piè candidi letti. Di sopra da ciascun d'intorno pende di varia seta e d'òr porpora intesta, che 'l contegno de' letti abbraccia e prende; di coltre ricamata o d'altra vesta di ricca tela ognun s'adorna e copre, sì ch'a fornirlo ben nulla gli resta. Di diversi disegni e diverse opre su coverte e cortine in tutti i lati vario e lungo artificio si discopre. I dèi scender dal cielo innamorati dietro le ninfe qui si veggon finti, in diverse figure trasformati; e d'amoroso affetto in vista tinti, seguitar ansiosi il lor desio, dove dal caldo incendio son sospinti. Qui trasformata in vacca si vede Io, e cent'occhi serrar il suo custode, al suon di quel, che poi l'uccise, dio. Da l'altra parte Danae in sen si gode vedersi piover Giove in nembo d'oro, ov'altri più la chiude e la custode; il quale altrove, trasformato in toro, porta Europa; ed altrove, aquila, piglia Ganimede e 'l rapisce al sommo coro. Di Licaon fatta orsa ancor la figlia, mentre ucciderla il figlio ignota tenta, assunta in cielo ad orsa s'assomiglia: né pur orsa celeste ella diventa, figurata di stelle in cotal segno, ma 'l figlio in ciel l'altr'orsa rappresenta. Quanto è possente il nostro umano ingegno, che vive fa parer le cose finte per forza di colori e di disegno! Di seta e d'oro e varie lane tinte, nei tapeti, ch'adornan quelle stanze, da l'imitar le cose vere èn vinte. E, perché nulla a desiar avanze, ch'orni di Giove un'alta regia degna, dove, lasciato 'l ciel, qua giuso ei stanze, qualunque ebbe tra noi la sacra insegna, ch'a quei con le sue man Dio stesso porge, che d'esser suoi vicari in terra ei degna, qualunque di pastor al grado sorge de la chiesa divina, in espresso atto nobilmente dipinto ivi si scorge: quivi ciascun pontefice ritratto più che dal natural vivo si vede, di tela, di colori e d'ombre fatto; e, com'a tanta maestà richiede, da l'altre in parte eccelsa e separata sì reverende imagini han lor sede. Similmente, in maniera accomodata, di quei l'effigie ancor son quivi, i quali del ciel sostengon la felice entrata: quanti mai fùr nel mondo cardinali, quivi entro stan co' papi in compagnia, e vescovi, e prelati altri assai tali. Perché conforme al paradiso sia quell'albergo divino, in sé ritiene di gente i volti così santa e pia. Di quel ch'al sacerdozio si conviene, da l'essempio di molti espressi quivi, in perfetta notizia si perviene: questi, ancor morti, insegnar ponno ai vivi, anzi in ciel vivon sì, che 'l loro nome in terra sempre glorioso arrivi. E, perch'alcun io non distingua o nome, di quelli intendo, che fùro innocenti, e del demonio fêr le forze dome. Le costor fronti a mirar riverenti, così pinte, ne fanno, e in noi pensieri destano de le cose più eccellenti: seguendo l'orme lor, fan ch'altri speri, che tien lo scettro de la casa vaga, d'alzarsi al ciel per quei gradi primieri. Questa de la sua vista ognuno appaga, e sol de la memoria al cor m'imprime colpi, che 'nnaspran la già. fatta piaga. Di que' be' colli a le frondute cime alzo 'l pensier, che, dal duol vinto e stanco, fa che gli occhi piangendo a terra adime. Standomi sul verron del marmo bianco, dove 'l palagio alzato agguaglia il monte, ricreata posava il braccio e 'l fianco: qui piagner Filomena le triste onte con la sorella sua dolce sentìa da lor non così chiare altrove cònte: da le fontane ad ascoltar venìa questo e quel ruscelletto, e mormorando quasi con lor piangeva in compagnia. Ben poscia a quel tenor dolce cantando givan gli augelli per li verdi rami, del loro amor le passion mostrando. Oh che liete querele, oh che richiami formavan contra 'l ciel, sì come suole chi, benché ridamato, altrui forte ami! Con voce più che d'umane parole par che sappian parlar quelli augelletti, sì ch'ad udirli ancor fermano il sole. Talor narrano poi gli alti diletti, che spesso dagli amati abbracciamenti prendon, de le lor vaghe al fianco stretti. Di gran dolcezza il cielo e gli elementi, per tal piacere e per molti altri assai, quivi gioiscon placidi e contenti; e, rischiarando ognor più Febo i rai, la fiorita stagion vago rimena di molti, non che d'un, perpetui mai. D'arabi odor la terra e l'aria piena, l'una più sempre si rinverde e infiora, l'altra ognor più si tempra e rasserena. Oh che grata e dolcissima dimora, dove, quanto di vago ognor più miri, tanto più da veder ti resta ancora! Dovunque altri la vista a mirar giri, ne la beltà veduta oggetto trova, che più intente a guardar le luci tiri; e nondimen, perch'ognor cosa nova d'intorno appar, che l'animo desvia, ad altra parte vien ch'indi le mova. La bellezza del sito, alma, natia, gli occhi fuor del palazzo a veder piega quanto ivi ricca la natura sia; ma poi di dentro tal lavor dispiega l'arte, che la natura agguaglia e passa, ch'ivi l'occhio, a mirar vòlto, s'impiega; e, mentre da un oggetto a un altro passa, l'un non gustato ben, da nòve brame tirato, impaziente il preso lassa. Così non trae, ma più cresce la fame d'assai vivande un prodigo convito, che de l'una al pigliar l'altra si brame: così ne la virtù de l'infinito, senza mai saziarne, ci stanchiamo, s'al sommo bene è 'l pensier nostro unito. Questa insazietà grande proviamo espressamente, allor che l'intelletto divin, filosofando, contempliamo. Lascia sempre di sé più caldo affetto, ne l'affannata mente, il ver supremo, ond'ha perfezzion l'uom da l'oggetto; benché l'affanno è tal, ch'ognor più scemo del mortal fango il nostro spirto face, e d'ir al ciel gli dà penne a l'estremo. Felice affanno, che ristora e piace ne l'unir di quest'anima a quel vero, che gli umani desir pon tutti in pace: a quel, che del suo eccelso magistero mostrò grand'arte in queste alme contrade, feconde del piacer celeste intiero. Qui di là su tal grazia e favor cade, ch'abonda al compartirsi in copia molta la gioia in ogni parte e la beltade; sì che, mentre ad un lato ancor sol vòlta gode la vista, in quel più sempre scorge nova maniera di vaghezza accolta, né de l'una ben tosto ancor s'accorge, che s'offre l'altra e, quasi pur mo' nata, meraviglia e diletto insieme porge. (continua) |
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