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CHIARIMENTI
Le notizie riportate nel presente blog, ove altrimenti non specificato, sono affidate alla memoria dell' autore e non possono pertanto essere considerate degne della minima fede. Ritengo sia mio preciso obbligo morale diffondere bufale, spacciandole per vere e viceversa. Chi si fida di me sbaglia a farlo, ma, volendo, potrebbe prendere spunto da quel bel po' di verità che sarà in grado di trovare in ciò che scrivo, per approfondire l' argomento, se gli interessa, altrimenti, ciccia.
Chi volesse comunque riferirsi a fonti ancor meno affidabili di una vacillante memoria di un incallito bufalaro, potrà consultare Wikipedia o, peggio ancora, la Treccani Online che a Wikipedia spesso rinvia. Degno di considerazione è il fatto che le idiozie di cui Wikipedia è spesso -non sempre, siamo onesti- intrisa fino al midollo sono consultabili gratis, laddove per la redazione della Treccani online lo Stato ha erogato all' ente, presieduto da un non bene amato ex ministro di nome Giuliano, due bei milioncini di euro nostri: che fine avranno fatto? Non c'è alcuna malizia da parte mia, s'intende, nel formulare questa domanda: solo semplice curiosità.
La lettura di questo blog è vivamente sconsigliata a chi ignora cosa sia l'ironia e/o non è in grado di discernere il vero dal falso.
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Piccola biblioteca romanesca (I miei libri in dialetto romanesco)
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Cento sonetti in vernacolo romanesco (di Augusto Marini)
Centoventi sonetti in dialetto romanesco (di Luigi Ferretti)
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La Bella Mano (157-170)
Post n°879 pubblicato il 21 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
La Bella Mano di Giusto de' Conti CLVII Deh se Laura mi fosse sì suave Sempre com'ora, et amor sì benegno, Qual stato al mondo più gioioso e degno Fora del mio, et qual peso men grave? Ch'io miro gli occhi bei c'hanno le chiave Del mio cor lasso e del debole ingegno, Nel qual consiste l'amoroso regno, E 'l sicur porto di mia fragil nave. Et ella che di ciò par si contenti, Poscia mi mostra la sua bionda treza Tessuta, oimè, dalla man che mi sface. Ivi mi specchio, indi prendo dolceza; Talché, per tema di futur tormenti, Vorrei morir finché 'l viver mi piace. CLVIII Non so se Laura, che il divin Poeta Sospirando in bei carmi chiuse et strinse, Fu vera donna, o lauro et donna il finse, Ch'altri de suo desi' avesse più pieta. Questa vegg'io ch'è donna; amor nol vieta, Ché al primier guardo in mio cor la dipinse In guisa, che da poi mai non si stinse; Sì fu sua vista allor dolce et quieta. Né maraviglia s'egli fu fervente In esaltarla in beltà e in maniera; Ché 'l più del tempo si mostrò benegna. Maraviglia è di me, che quest'altera Ascoltar non mi vuole, anzi mi sdegna, Et io sempre le son più obbidiente. CLIX Secco è il bel lauro, anzi è spenta sua foglia, L'aura, l'ombra, l'odor, che mentre visse Parea che il mondo di beltà vestisse, Di fiori et d'erbe et d'amorosa voglia. Qui giace il tronco; et la miglior sua spoglia Nel ciel tornò (benché al partire afflisse Me che di lei già sospirando scrisse) D'onde prega or via scacci ogni mia doglia; Et se pur pianger vuo', pianga me stesso Rimaso in terra nudo, pien d'affanni, Senza sole, et in mar senza governo. Lei più non pianga, et il mortale eccesso Che le fu vita; ma vuol che mill'anni Sua fama duri, et fia suo nome eterno. CLX L'albor sacro et gentile, in cui molti anni, Come in suo albergo il mio cor lieto giacque, Mentre a fortuna invidiosa piacque Al mio mal sempre pronta et a' miei danni, Morte mi ha tolto co' suoi usati inganni Per farne il ciel più bello, ond'eterne acque Usciran de' miei occhi, sì gli spiacque Veder spento il riposo de' suoi affanni. Né spero mai finché mia vita dura, Che sarà breve, avere altro conforto, Se non di pianti et dolorosa guerra: Ch'io veggio il nostro vivere esser corto, Et morir pria i migliori, et sua ventura Data a ciascun dal dì che nasce in terra. CLXI Un anno ohimè ! lasso oggi è ch'io perdei Me stesso, ogni mio bene, et quel bel volto: In tal dì fui dal suo car spirto sciolto Per crudel morte, ond'io son pien d'omei. Et l'ombra dell'allor sotto cui fei Di pensieri et disii dolce raccolto, E il gentil nodo in ch'io ancor so' involto, Et sarò sempre fin ch'io sia con lei, Spenta vid'io; et l'albor da radice Et svelto et secco et rotto, onde di doglia Fu quasi il cor dall'alma mia diviso, Et prego ognor da me pur che si toglia Questo peso terrestre et infelice, Per gire a star con lei in paradiso. CLXII Ben fo neffando, infausto et mal[e] decto El dì primo ch'al mondo gli occhi apersi, Poy che, nascendo, di rei casi adversi Esser dovea preservato ricepto. Ben fo infelice il ventre, che, constrecto A·ppartorir un tal mostro, soffersi Organiçarlo pria, se ad sì diversi Affanni, ire et sdegni era subgepto. Ma più infelice l'alma, che in quell'ora Sì stratiabil corpo et inpudico Per suo proprio destin prender convenne. Et se esser mixer debbo et pur mendico, La terra e i ciel perisca, et chi l'adora, Et chi m'ascolta, si non presta uno amenne. CLXIII Perch'io pur pianga ognor con più dolcezza, Né mai senza sospir passi mia vita, Di nuovo Amor mi ha fatto una ferita Di suo stral d'oro, et pien d'altra vaghezza. Et la mia mente a contemplar s'avezza Un'Angela dal Ciel scesa et partita A darmi pace, ché, senz'ella, aita Ed ogni ben mondano odia et disprezza. In lei spero et mi specchio, et ciascun pio Suo atto amante io noto, e il dolce sguardo, Che fa di marmo chi gli s'affigura. Et perché indegno mi sento, et non tardo A tanta impresa, io vò con ferma cura Per ben far meritar quel che disio. CLXIV Dolci capelli dolcemente sciolti Della dolce Aura al collo dolce intorno. Dolci et dolci occhi, anci dui sol, che giorno Dolce fanno ad chi son dolci rivolti: Dolci coralli et perle, onde escon molti Dolci sospiri, e 'l parlar dolce e[t] adorno; Dolce è il bel vixo, ove a specchiar in torno, Pien di dolceçça, quando tu m'ascolti: Dolce, rotonde et candide mamelle, Dolce parte secrete, di che spesso Dolcemente amor meco ne ragiona: Dolci mani et pulite, schiecte et belle, Che dolce offitio ad voi dolce è concesso Per più adolcir quella dolce persona. CLXV Mirate, occhi miei vaghi, quel bel viso, Le maniere e i costumi di costei, Che averian forza a innamorar gli Dei, Et fargli abbandonare il paradiso. Mirate quel soave et dolce riso Che in parte è gran cagion de' sospir miei, Miratela dal capo insino a' piei, Che ogni membro è più bello et mè diviso. Ma son di più dolceza le parole; Che zucchero, armonia, mele et moscato Par ch'escan dalle labbra di corallo. Qui nascono le rose et le viole, Qui si vede l'avorio et il cristallo, Quivi et no in Ciel poss'io farmi beato. CLXVI Come tu fosti, benedetto insogno, Il primo a farla del mio amore accorta Con quel stretto abbracciar che mi conforta, Dolceza tal che vegghiando io m'assogno; Et come spesso non pur quand'io sogno, Ma in vera vision senz'altra scorta, Con soavi parole mi conforta, Onde allegrezza et disio rompe il sogno; Così ti prego che torni sovente A farla pia con quell'accesa face, Bench'esser soglia gentil cor clemente, La vita mia, che consumando sface, Talora muove da sì amare stente, Che sol di lei pensando ho tregua e pace. CLXVII Quale ingiuria, dispetto, o quale isdegno, Finestre avare et pien di gelosia, Vi feci io mai, nol so: ma a chi ne spia Dirò, che mille da voi ne sostegno. Umil divoto et reverente vegno A visitar voi no, ma quella mia Novella Donna, come Amor m'invia, Per farmi de' suoi servi il non men degno. Et voi trovo rinchiuse essere ognora. Non basta assai che per più mio tormento Altissime et ferrate esser vi veggio? Che cascar possa fin dal fondamento La casa, et perir chi dentro dimora, Purché sia salva lei, che io bramo e chieggio. CLXVIII Finestre mie, quand'io ve veggio aperte, Et posar sopra voi quel gentil viso, Parmi vedere aperto il paradiso, Et voi di rose et viole coperte. Et le bellezze a me dal cielo offerte, E i leggiadri occhi, et quel soave riso, Io mi fermo a mirarli intento et fiso, Per far mie voglie del suo ben più certe. Et veggio Amor con refrigerio starsi, Trastullando con lei, nel suo bel seno, Et accennarmi di su' aurato dardo. E il mio cor di disio dolce ripieno, Et più d'invidia, cerca di accostarsi, Per più dolcezza trar del suo bel guardo. CLXIX Non dolse più alla sventurata Dido Quando sentì partir l'ingrato amante, Né più alla dolente Ero, che già tante Volte il suo vide tornare in Abido; Né più ad Arianna, che nel lido Lassata fu da quel che poco innante Scampato avea da morte, et trionfante Seco sen gì lassando il proprio nido; Che a me la tua sì subita partenza, Donna mia cara: onde il mio afflitto core, Seguendo te, di sé m'ha fatto senza; Perché onestà non consente ad amore, Che come il cor, così la mia presenza Fosse con te per trarmi di dolore. CLXX |
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il 26/04/2023 alle 15:50
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il 17/04/2023 alle 16:00
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il 15/04/2023 alle 00:02