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La Bella Mano (181-190)

Post n°888 pubblicato il 22 Dicembre 2014 da valerio.sampieri
 

La Bella Mano di Giusto de' Conti

CLXXXI

A cui mi doglio, o di cui mi lamento?
Di ria fortuna non già, et d'amor meno,
Ch'io so che è sono instabil, senza freno,
Et più leggier che foglia arida al vento.

Se per costei morissi, io son contento.
S'io son contento, perché piango et peno?
Non ho io 'l petto d'un vulgar ripieno:
Mille piacer non vagliono un tormento.

Dunque è meglio ch'io taccia, et lena prenda
Fuggendo Amore a lei, che ha cor di smalto,
Et chi la segue d'onor spoglia et priva;

Et ponga il mio dolce desio più alto,
Ché la mia voce al nono ciel s'intenda,
E infin diventi la mia alma diva.

CLXXXII

Un pensier mosso da ragion talvolte,
Che s'accorge del tempo come fugge,
E' mondan ben fallaci morte strugge
Più che il sol neve, et l'alme in quelli avolte,

Mi punge et dice: Ahi lasso, a che ti volte
A seguitar costei che ti distrugge ?
Torna in tua libertà pria che s'adugge
Di pene il core in parte ora distolte.

Dall'altro lato Amor contrasta et vince,
Promettendomi ancor mille piaceri,
Et farmi poi di sua più eccelsa gregge.

Io che 'l veggio esser magnanimo prince,
Rimango servo a lui più volentieri:
Ché meglio è giusto re, che giusta legge.

CLXXXIII

Occhi, non occhi, anzi due gran condutti,
Che discendete al cor per mezo il petto,
Deh non piangete più, ch'io fo concetto
Por fine al nostro duol senz'altri lutti!

Or non vedete a che noi siam ridutti,
Che Amor, Madonna, e il mondo ci ha in dispetto
Non per nostro fallir, né per difetto;
Ma rei fati crudel n'han sì dedutti.

Voi ne piangete, e 'l cor nostro sospira,
Et ciascun membro se ne strugge et sface,
Né ci giova però la pena vostra.

Sapete che farem? Daremci pace;
Che fortuna sua rota sempre gira,
Et forse ancor verrà la volta nostra.

CLXXXIV

Questa donna gentile al mondo un sole,
Che la parte miglior di me possede,
Et di bellezze ogni altra donna eccede,
(Perdonimi qual più bella esser suole).

Qualora avvien, siccome empio amor vuole,
Che io più mi doglia, meno ella mi crede;
Sol per provarmi, spero, che mercede
Mostra negli occhi, et più nelle parole.

Onde il cor si dispone, et io consento,
Pur che le piaccia che per Lei sospire,
Paziente soffrire ogni tormento,

Et pria tacendo ed amando morire,
Poiché sol di piacerle io mi contento,
Che per mio lamentare ella si adire.

CLXXXV

Quanta noia me fa quel vel si bianco,
Che copre in parte il vixo, et me nasconde
Il capo adorno et le due trecce bionde.
Di quella in cui mirar mai non me stanco!

Quanta me fa il suo braccio dricto e 'l manco
Che spesso il volge et gira ad onde ad onde
Intorno al collo, et sopra le rotonde
Mamelle, dove amor se fa sì franco!

Ma più noia me fan le veste ancora,
Che m' ocultan la parte, onde 'l dilecto
Spera il mio cor d' aver, pace et riposo.

Che s' io potesse sol, sença sospecto,
Tractarle et remirarle per un'ora,
Saria più d' om felice et glorioso.

CLXXXVI

Io non posso soffrir più tanti sdegni,
Che questa donna ria piena d' orgoglio
A diletto mi sface, et s'io mi doglio,
Sempre di peggio far par che s' ingegni.

Nemica di pietà la vede a' segni
Aperto et chiar ch'io l'amo come soglio;
Né però del mio mal prende cordoglio,
Anzi più spreza gli amorosi regni.

Ond' io non so che far; mal s' io la fuggo,
Et s'io la seguo peggio; ch'io mi sento
Venir men come al Sol candida brina.

Ma pur meglio è, poiché amando mi struggo,
Temprar con la sua vista il mio tormento,
Ché rosa non si coglie senza spina.

CLXXXVII

S'io spendesse il mio tempo e 'l viver frale
In laude della Vergin gloriosa
Madre eletta di Dio, Figliuola et Sposa,
Che né prima né poi mai ebbe eguale,

Com'io spendo in costei, cosa mortale,
Che per più mio dolor sta sempre ascosa,
Dura. fiera, crudele et disdegnosa,
A cui miei prieghi o lamentar non vale;

Io sarei di più fama, et spereria
Per merto no, ma per superna gratia
Salire ancor nel regno de' Beati:

Onde perché 'l desir mio non si satia
Di lusingar costei per farla pia,
Temo trovarmi infine intra' dannati.

CLXXXVIII

O Fonte, o Muse, o Apollo, o verde alloro,
Che amai già tanto, o risonante Cetra,
Che per umiliare un cor di pietra
Di man tolto mi avete alto lavoro,

Io vo' lassarvi, et tu, Signor che adoro,
Cupido mio, ripon la tua faretra,
Poiché 'l mio stil da costei non impetra
Gratia né dono, et spreza il tuo stral d' oro.

Anzi di onesti sguardi si fa scudo,
Mostrando quell' altiera esser pudica,
Et di piacere altrui par ch' abbia a sdegno.

Che maledetta sia ogni mia fatica,
Le rime e i versi del mio lasso ingegno:
Ma tardi sonmi a mie spese pentudo.

CLXXXIX

Io perdo il tempo e 'l mio fedel servire,
Indarno prieghi et mie parole spendo:
Ne' per mio lamentare ancor conprendo
Pietà alcuna in costei del mio martire.

Né valmi da' suoi begli occhi fuggire,
Anzi s' io m' allontano, più m' accendo;
Et se talora un poco mi difendo,
Doppia la voglia, et raddoppia il disire.

Che debbo far non so: chi mi consiglia?
Amor non già, però ch' el teme et fugge,
Ed ella ognor si mostra più crudele.

Sai che farò, poich' ella pur mi strugge
Con quelle dolci, et radianti ciglia?
Vincer la vo' con esserle fedele.

CXC

El fu già tempo, bench' io nol mostrasse,
Che il Ciel toccare mi parea col dito,
E al colmo della rota esser salito:
Credea che sempre mio stato durasse.

Or ben m' accorgo che son vane et casse
Le mie credenze: et veggio esser tradito
Con promesse et lusinghe, a tal partito,
Che disperato amor convien ch' io lasse,

Vorrei dolermi, et non so bene a cui:
Anzi il so bene, et se talor mi doglio
Ella sen fugge, et non m' udir s' infinge.

Questo è il buon merto, e 'l frutto ch' io ricoglio
Di mie fatiche, et d' amar tanto altrui.
O morte, vieni, et del mondo mi spinge.
 
 
 
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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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