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Rime di Celio Magno (276-283)

Post n°1096 pubblicato il 20 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Celio Magno

276

Al clarissimo messer Ieronimo Molino

Qual cantar di sirena o serpe in erba
teme chi, da ragion scorto e guidato,
per quest'onde fallaci e mortal prato
chiuse l'orecchie e cauto il piede serba?
E qual percossa di fortuna acerba
può sovra quei ch'in suo valore armato,
se da suoi colpi e da contrario fato
schermendo ogni mal tempra e disacerba?
Tal voi; ch'intento sol d'Apollo al canto
e sordo a quel ch'al fin miseria fassi,
gite securo in questo mar di pianto;
e dispensando accortamente i passi
nel dubbioso sentier, non può mai tanto
sorte ch'alcun suo strale al cor vi passi.

277

Al serenissimo principe il signor Pasqual Cigogna.

Cedan degli orti esperî i frutti d'oro
a quei, signor, sì preziosi e rari
che benigno dispensi a' tuoi più cari,
chiudendo in picciol dono alto tesoro.
D'amor, di cortesia si gusta in loro
dolcezza tal, ch'a lei null'altra è pari;
tua bontà nostra fede in lor dichiari,
proprio a te, proprio a noi cibo e ristoro.
Così tributo antico a te de' tuoi
cangiato in nova grazia e favore
fa te più chiaro, e più felici noi.
Onde pien d'umiltade il nostro core
grazie ti rende, e porge i voti suoi
in tempio sacro a te d'eterno onore.

278

Al serenissimo doge di Venezia il signor Marin Grimani

O di questa da Dio construtta nave
nocchier sublime, a te diletta madre,
che in lei principe e re, via più di padre,
il nome cerchi, e 'l trovi al cor soave.
Primo fra i primi tuoi, tu porti il grave
pondo, sol volto ad opre alte e leggiadre,
qual forte duce suol, che tra le squadre
si fa milite al rischio, e nulla pave.
Tu, sovran di valor, d'ardor conforme
agli altri reggi; e ne' tuoi desti lumi
più sicura la patria ha posa, e dorme.
Cedano al tuo splendor gli antichi lumi,
e dopo lunga via per felici orme,
il ciel t'accoglia infra i beati numi.

279

Al serenissimo principe il signor Marino Grimani, sopra un mazzetto di gelsomini donato all'autore

Candido fior, che le vermiglie rose
di pregio eccedi, anzi le gemme e l'oro,
tanto d'onor e cortesia tesoro,
chi di te mi fe' dono, in te ripose.
Te l'eccelse di lui doti famose
arricchir di splendor col lume loro;
per te la grazia sua, ch'in terra adoro,
qual suol, dolce e benigna, a me s'espose.
Tu in lui paterno amor, real natura
dichiari; e insegni a chi scettro possede,
e del mondo e del ciel la gloria cura.
E 'l tuo candor dimostra in chi ti diede
d'alto signor bontà candida e pura,
e in me di servo umil candida fede.

280

Al medesimo serenissimo principe manda alcuni frutti, e gli introduce a parlare

Di povero giardin frutto gentile,
quasi primizie a suo terrestre nume
ch'esserti care, tua mercé, presume,
a te m'invia divoto servo umìle.
Ch'a l'arbor, ond'io nacqui, anch'ei simìle
di tua grazia nodrito al chiaro lume,
produr a te mai sempre ebbe in costume
frutto, quanto in lui fu, largo e non vile.
E qual nel petto suo scolpito ei serba,
tal nel mio tronco, il tuo gradito nome,
ch'intorno fa gioir le piante e l'erba;
dove ancor cresce un verde lauro, come
sacro ad ornar, con sua pompa superba,
di tue virtù le gloriose chiome.

281

Già non t'incolpo, anzi ringrazio, Amore,
se m'ardi in questa età ch'al verno inclina;
ch'ad alma accesa di beltà divina
è gloria il sospirar, gioia il dolore.
Ma piango sol ch'a sì gentile ardore
Morte invece di vita il ciel destina,
poiché, quando al mio ben più s'avicina
la speme, è più da lei tradito il core.
Così talor di sfortunato legno
aura in vista seconda empie le vele,
dove fra scogli occulti ha fine indegno.
O pietoso sembiante, o cor crudele!
gradirmi in voce, in opra avermi a sdegno,
troppo a me scarsa, e troppo altrui fedele.

282

Viva serberò vivo, e morto ancora,
Amor, la fiamma del mio nobil foco
che l'alma eterna in sé per tempo o loco
cangiar non pò 'l desio che l'innamora.
Riman sempre il mio ardor d'ogni uso fora,
di rea fortuna invitto al crudo gioco;
anzi, l'offese sue curando poco,
vince se stesso in maggior vampa ognora.
Al tuo solo poter se n' va soggetto,
lieto che di tua dolce esca gradita
il suo incendio nodrir prendi a diletto.
Ch'è tua gloria il mio foco; e chi l'infiamma,
ricco e solo tesor de la mia vita,
o preziosa, inestinguibil fiamma.

283
Quanto più inanzi passa
questa mia frale vita,
e vo cangiando il pelo insieme e gli anni,
l'anima afflitta e lassa,
d'amor punta e ferita
sopportar più non puote i gravi affanni.
Anzi, de' propri danni
ministra e del suo male,
tenta quel bello e rio
volto porre in oblio
e la piaga saldar del fiero strale
discacciando dal petto,
s'esser può mai, il suo caro diletto.
Ben fora tempo omai,
lasso, che 'l crudo e fiero
amor pietate avesse al mio cordoglio;
ma dopo ch'a miei lai
contra l'esser primiero
ver me si mostra ognor pieno d'orgoglio,
diverrà 'l core scoglio
contra 'l suo strale aurato.
E benché, se nol nega
il cielo, al fin si piega
ogni aspro petto disdegnoso e ingrato,
lontan da questa spene
con altro fin vivrò l'ore serene.
Vatene dunque in pace
a' tuoi cari parenti;
torna col legno pur là dove brami;
né incontra te sia audace
lo mar, né irati i venti.
Noto ognor le tue vele in alto chiami
e, se ben tu non m'ami,
quanta pioggia e tempesta
pò minacciar il cielo
spieghi Giove il suo telo
in altro clima, e a te non sia molesta;
ma cada in larga copia,
te salva, sopra i liti d'Etiopia.
Deh, ch'io credea dolente
col suon del dolce canto
potersi umiliar quell'aspro core;
e che 'l rigor algente
che t'induriva tanto
si disfacesse al mio vivace ardore.
Ma ben il proprio errore
troppo tardo i' conosco;
se 'l cantar che benigno
far potea un cor ferrigno
ha lei conspersa d'odioso tosco.
O del ciel rio volere
ch'e petti umani fai pari a le fiere!
Muse, voi che sì spesso
me per vostra clemenza
salir degnaste al sacro monte in cima;
ahi che per voi concesso
non m'è la sua presenza,
né gli amanti giovar può alcuna rima;
più 'l mio cor voi non stima.
Dunque, o figlie di Giove,
il vostro santo nume,
poiché voglia e costume
ha cangiato il mio ben, volgete altrove;
perch'altro fine io bramo,
perduto quel ch'invan lusingo e chiamo.
Sommo Padre immortale
che 'l mio cor leggi aperto,
come questo umil dir da la radice
del cor profondo sale,
così, se ben nol merto,
fammi, Signor, di tua grazia felice;
sì che fuor d'infelice
e faticoso stato
con più dritto sentiero
segua il ben certo e vero
che rende ogni uom in terra e 'n ciel beato.
Fa, Creator pietoso,
ch'in te ritrovi il mio dolce riposo.
Ogni opra, ogni desio
che d'uman petto nasce
lunge da te, per me non stimo un'ombra.
Di te sol, nostro Iddio,
quest'anima si pasce,
se talor lei fame importuna ingombra.
Per te si spegne e sgombra
ogni pensier confuso
come disparir suole
nebbia dinanzi al sole;
e natura empia converti in dolce uso.
Dunque ciascun t'adori
e ti celebri infra i celesti cori.
Canzon, prega il Signor umilemente
ch'in me per grazia voglia
stabile far sì onesta ardente voglia.

 
 
 
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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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