Creato da: tizianacorreale il 16/12/2007
Attraverso i miei occhi a volte una semplice eco, altre un'inarrestabile surrealtà...

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Post n°35 pubblicato il 26 Maggio 2011 da tizianacorreale
Foto di tizianacorreale

Camminavo, come sempre, avanti e dietro per la città. Attorno a me persone e persone. Con me, nessuno, solo un corpo che non riconoscevo. Si può dubitare di essere corpo? Isole di pensieri comunicano tra loro a volte, e sento che io stessa ne sono tagliata fuori, quasi fossero troppo poco umane per lasciarmi entrare. Le persone attorno a me sembrano non preoccuparsi di nulla del genere. Fingendo di guardare vetrine spoglie si specchiano. Cosa vedono? Una forma. Lo faccio anch’io. E vedo la mia forma, così dannatamente uguale a come l’avevo vista poco prima in ascensore. Ma non poteva essere. No. Io non ero la stessa, in queste due ore di cammino e nuoto tra il conoscere e il pensare mi ero smarrita e ritrovata e ancora smarrita e avevo perso dei pezzi che in quella vetrina quasi sembravano apposto. Sento gli occhi bagnati. Smetto di ascoltare la telefonata del ragazzino a quattro metri da me senza accorgermene. Smetto di guardarmi senza accorgermene. Resto ferma. Di fronte a me Pinocchio, con il suo lungo naso che mi punta minacciosamente.

Compare.

-          Non credevo ti piacesse tanto Pinocchio-

Da dove? L’ho creato io? Sono andata così in là da avere le allucinazioni?

Chiudo gli occhi, li riapro ed è ancora lì.

-         Tutto bene Nina?-

-         No-

Il sorriso che aveva sul volto si dissolve. La sua energia perde d’intensità. Stiamo ancora a guardarci nella vetrina. Poi lui mi prende un braccio e mi gira. Si accorge che ho pianto. Al mio non rispondere mi convince ad andare con lui, e non gli ci vuole molto. Come ha fatto a capire che non avevo bisogno di parlare? Camminiamo credo per almeno un kilometro in silenzio. Siamo lontani dalla città che conosco, e vorrei chiedergli dove mi stia portando, non spaventata ma quasi. Arriviamo in un posto un po’ buio. Temo nell’entrare, ci sono dei ruderi. Alla mia esitazione mi prende la mano deciso a portarmi dentro. Per un attimo vorrei che fosse un serial killer e mi ammazzasse. Per un attimo ci penso sul serio; come quelle volte il cui alla ringhiera del balcone pensiamo di buttarci solo per vedere che effetto fa, ma poi non crediamo più nemmeno di averlo pensato. È un rudere enorme e dopo aver attraversato quattro spoglie stanze arriviamo ad una camera più piccola ma piena di scritte incise nella pietra con accenni di pittura qua e là. A terra un materasso, sul materasso dei libri. Le metamorfosi, Dedalus, Due di due.

-         Vengo qui quando mi smarrisco. Quando non so più che fare di me, quando perdo la speranza. A volte arrivo persino a credere di non esser corpo: che tutto sia solo un’illusione. Ma queste pietre mi riportano alla realtà. -  

Mi prende la mano. Mentre la fermezza delle sue dita la tiene al sicuro e la fa muovere con lenta decisione i miei polpastrelli sentono la ruvidità e l’irregolarità di queste scritte. Con l’altra mano mi invita a chiudere gli occhi toccandomi le sopracciglia poi la parte superiore della palpebra, ma senza esercitare alcuna pressione.

Lo sento. Sento la fermezza di quel muro. La consistenza di quelle parole che per me non hanno alcun senso e la profondità del loro essere scavate nella pietra. Posso vedere anche me adesso, non ho bisogno di alcuno specchio, il suo tenermi la mano il suo sfiorarmi le palpebre fa urlare il mio corpo che sembra indignato dall’esser stato ignorato per tanto tempo. Sento il suo calore e quasi avverto il suo sorriso anche se non lo sto guardando. Il presunto sorriso mi fa sorridere e chissà se è questo mio sorriso ad aver generato lui il sorriso che poi vedo o se c’era già, quel espandersi di labbra, quel risollevarsi d’occhi.

-Ora che vado via mi sembra assurdo non venire qui in questo posto e non ho neppure il coraggio di portare con me quei libri. Sembrerebbero così fuori luogo nella grigia America. Volevo lasciare questo posto a qualcuno e quando ti ho vista davanti a quella vetrina mi sono detto che nessuno sarebbe stato più adatto. –

Si allontana un po’ e sento immediatamente la mancanza del calore del suo corpo. Un calore che per quanto non avessi mai sentito prima sembrava esserci stato sempre e lasciare, quindi, un vuoto immenso. Adesso c’è rigidità, imbarazzo. Mi appoggio con la schiena al muro e non sorrido più perché ripenso al suo andare via ed alle mille cose che avrei dovuto dire o fare se la mia voce mi fosse mai sembrata la mia, o se il mio corpo avesse mai mostrato me. Ricordo, poi, di aver scritto quelle parole. Di esserci, almeno in quelle parole che ho in tasca. Allora tiro fuori il foglio mentre lui fa per andarsene. Lo chiamo. Glielo porgo. Lui lo legge in silenzio dinanzi a me.

 

Come polvere

 

Volano attimi

Attenzioni

Che non si vedono

Ma li sento

Li ascolto

 

Come fanno

Delle voci

A prendersi gioco

Di un inconscio?

 

Come fanno

Degli occhi

Ad unirsi

A quelle voci?

 

Rimbalzi qua e là

Mi risvegliano

Quasi

Senza accorgermene

Lascio tutto

 

Cosa accade

Se una forma

Non ti corrisponde?

Se quel suono

Non può essere il tuo?

 

Le corde vocali

vibrano

solo il tuo fiato

lo permette

 

l’idea di questo vuoto

non mi spaventa

non mi lacera

non mi rallegra

non mi rattrista

 

L’idea di questo vuoto

Non mi trova

Perché fuggo sempre

Per paura di doverlo

Affrontare

 

Troppe lacrime

Avrebbero voglia

Di venir fuori

 

E solo

in questi tasti

in queste parole

in questi giochi

in questi giri

in questi specchi d’anafore

mi riconosco e mi rincorro.

 

Quando smette di leggere alza lo sguardo in silenzio si avvicina. Io sono ancora appoggiata al muro e tutto il suo corpo è ancora a due centimetri dal mio ma non lo sfiora neppure.

- Come fai a rendere sempre tutto così difficile?-

 

I suoi occhi brillano; vedo i miei occhi nei suoi occhi per un istante, poi inclina un po’ il viso e i nostri nasi si sfiorano. Poi si sfiorano le labbra, poi si sfiora l’intero corpo ed infine lo stringo ed ogni delicato poggiarsi di pelle su pelle si concentra su quello scambio di fiati, su quel respirare l’uno l’essenza dell’altra senza volerne uscire più. E non so come trovo io il coraggio di uscirne, di fermarmi e guardarlo negli occhi. Lui mi bacia di nuovo, questa volta più lentamente, con meno frenetica voglia di possedere, con più voglia di comunicare. Tre secondi. Solo altri tre secondi poi va via e mi lascia lì. Con Ovidio, Joyce e DeCarlo. E sono ancora qui, con Ovidio, Joyce e DeCarlo. Ma da quel giorno so che ci sono, in ogni parte di me, queste mura continuano a ricordarmelo.

 
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