Reticolistorici
evenementistica storica in un incrocio di reti - a cura di Oscar Brambani
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Non ricordo se ne parli la Arendt, ma la virtù che corrisponde a questo aspetto del lavoro è ovviamente la pazienza, la laboriosità, la voglia e la forza di lavorare molto. Questa virtù era riconosciuta presso di noi: «È un lavoratore» è un’espressione di alta lode per mio padre, e vuol dire proprio questo: è uno che di consuma a lavorare, che non si ferma mai. La lode massima è: «È bravo, è un bravo operaio» e per operai intende non tanto l’operaio industriale, quanto chiunque faccia “opere” (che è la traduzione esatta di “work”), l’artigiano, colui che la Arendt chiamava homo faber. Qui la virtù somma è l’abilità tecnica, la virus dell’artefice.
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Nei rapporti tra le famiglie era quasi onnipotente nel determinare il costume ciò che si chiamava l’intarese, naturalmente in funzione della solidarietà familiare. Né le leggi dello stato né i precetti morali della religione avevano - nel modificare questo codice di condotta – la forza che aveva invece il senso del decoro (“no sta ben”), di ciò che riscuote la sanzione della comunità, e che può differire profondamente non solo da quello che prescrive la legge, ma anche da quello che ingiunge la religione.
In ciò che concerne l’intarese, lo Stato si considerava quasi universalmente un estraneo importuno che ognuno aveva il diritto e poco meno che il dovere di defraudare.
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“Onesto” si diceva delle persone eccezionalmente corrette negli affari: se ne parlava come di cosa ammirevole e poco saggia, un lusso e una finezza di persone eccentriche, per lo più signori che potevano permetterselo senza gravi conseguenze. L’opposto di “onesto” non è “disonesto”, ma “uno che tende i so intaressi”. L’equivalente paesano del “disonesto” della lingua sarebbe “un poco de bòn”, ossia uno che compie imbrogli nelle sfere non consentite, e anche senza vera necessità.
[…]
Se è vero che nei rapporti tra famiglie era quasi onnipotente l’interesse, non bisogna però credere che fosse onnipresente. Inoltre se il lavoro era duro, e riempiva le giornate di ciascuno, non è detto però che isolasse l’individuo dal resto del paese; avveniva anzi il contrario. Badando ai propri interessi e al proprio lavoro, la gente si mescolava con la gente, attraverso una fitta serie di rapporti disinteressati.
Era questa la sfera della nostra libertà paesana. Il lavoro stesso, la necessità della giornata, l’attendere alle proprie faccende, i brevi intervalli di riposo, il semplice andare fino in piazza a comprare, a portare qualcosa, a chiamare qualcuno, bastavano a mettere ciascuno a contatto con tutti. Non soltanto avevamo una persona pubblica, ma anche agivamo in pubblico. Buona parte di ciò che si faceva, era fatto davanti agli occhi di tutti, era conosciuto, valutato, commentato: apparteneva oltre che a noi, al paese. Qui non valeva più la legge severa della Necessità: si poteva improvvisare, scherzare, osservare come vivevano e scherzavano e improvvisavano gli altri; si partecipava con piacere e disinteressatamente a una vita comune, e per solo effetto della comune appartenenza allo spazio pubblico del paese.
Le nostre piazze erano la nostra agorà; la nostra lingua, a differenza di quella attica, non si scriveva ma era ricca e flessibile, e con essa si riproduceva come in uno specchio di parole il quadro rallegrante di una vita fatta non solo di triboli, ma anche di incontri, di avventure, di capricci alati, di riflessioni, di liberi eventi.
(tratto da "Libera nos a Malo" di Meneghello)
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