Creato da robertocass il 22/03/2011
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Croce di Einstein

Post n°233 pubblicato il 04 Ottobre 2025 da robertocass
 
Foto di robertocass

 

 

 

 

Una croce nello spazio profondo.

Gli scienziati la chiamano «Croce di Einstein», ma nulla a che vedere con religioni o fenomeni paranormali.

Si tratta di un fenomeno puramente scientifico, rarissimo, previsto dalla Teoria della relatività generale di Albert Einstein.

Un team internazionale di astronomi vi si è imbattuto quasi per caso, mentre osservava una galassia distante milioni di anni luce.

E alla sorpresa di individuare un evento così raro, si è aggiunto un dettaglio inatteso: la Croce di Einstein rilevata mostrava una quinta immagine centrale, anzichè quattro.

Un’anomalia che, secondo i ricercatori, porta la firma invisibile della materia oscura.

Per capire l’eccezionalità della scoperta, facciamo un passo indietro.

Croce di Einstein è un fenomeno che si forma quando la luce di un oggetto distante, come un quasar (cioé un nucleo galattico attivo estremamente luminoso), viene deviata dalla gravità di una galassia posta tra l’osservatore e l’oggetto lontano, generando un fenomeno noto come lente gravitazionale.

In condizioni di allineamento quasi perfetto, la luce si divide in quattro immagini separate del quasar, disposte a forma di croce attorno alla galassia.

Utilizzando il radiotelescopio Noema e l'interferometro astronomico cileno Alma, il team stava studiando tutt'altro: una galassia distante e polverosa chiamata HerS-3.

A sopresa gli astronomi hanno notato che la sua luce si divideva in cinque immagini anziché quattro.

Inizialmente, hanno ipotizzato che si trattasse di un problema tecnico, ma nonostante l'impegno, la quinta immagine continuava a restare.

La modellazione al computer della lente gravitazionale mostrava che le quattro galassie visibili in primo piano non bastavano a spiegare la comparsa della quinta immagine.

Per far corrispondere i calcoli ai dati reali, è stato necessario introdurre una grande massa invisibile: la materia oscura.

Questa misteriosa materia che compone circa l'85% dell’Universo, non emette luce né radiazioni rilevabili, quindi non può essere osservata direttamente, ma la sua gravità influenza il movimento delle stelle, la formazione delle galassie e perfino la traiettoria della luce.

Infatti, una volta inclusa la materia oscura (in questo caso, un alone con una massa pari a diverse migliaia di miliardi di volte quella del Sole) la matematica e la fisica si sono allineate alla perfezione.

L’insolita configurazione porta con sè un importantissimo valore scientifico.

L’effetto lente, in primis, ingrandisce la galassia sullo sfondo e permette agli astronomi di analizzarne la struttura con un livello di dettaglio altrimenti irraggiungibile.

Ma soprattutto ha offerto una rara occasione per studiare e cercare di capire il mistero della materia oscura.

 

 Da Internet

 
 
 

C'è stata vita su Marte?

Post n°232 pubblicato il 04 Ottobre 2025 da robertocass
 
Foto di robertocass

 

 

 

 

Segni di vita su Marte, miliardi di anni fa?

Ancora una volta forse, ma è sempre più vicina la soluzione di questo interrogativo, che ci si pone davanti ad ogni missione marziana.

La Nasa, in una conferenza stampa molto lunga e dettagliata, ha reso pubblico un lavoro scientifico che riporta i risultati di una ricerca, durata un anno intero, su una roccia marziana.

Trovata e osservata dall’ottimo rover di Nasa, Perseverance, fu subito definita molto interessante.

Su questa roccia microbi avrebbero lasciato un segno chiaro, formato da minerali che altrimenti non sarebbero facilmente presenti e parliamo comunque di segni lasciati miliardi di anni fa quando su Marte scorreva l’acqua, e questo è oramai piuttosto certo.

Quindi non microbi, ossia forme di vita conclamata secondo la nostra biologia, ma segni della loro passata esistenza.

Perseverance, il rover robotico di Nasa, ha scoperto nel cratere Jezero, che sta studiando da tempo, questi minerali su una roccia sopra un cumulo di fango indurito, nell’alveo di un fiume del passato.

Il luogo, quindi, è suggestivo per poter pensare a microbi, ma occorre dire subito che, nonostante l’emozione e la concreta certezza del gruppo di ricerca, si pensa anche alla necessità di ulteriori conferme.

Persevarance è atterrato nel cratere Jezero nel febbraio 2021, che sicuramente un tempo era un lago piuttosto importante, da cui partiva un fiume che scorreva lungo il cratere.

La zona, insomma, qualche miliardo di anni fa, era calda e umida, un luogo perfetto per alloggiare, e quindi ritrovare oggi, microbi e le loro tracce.

Oltre alle macchie di leopardo, che sono formate da una parte scura e una interna chiara, la roccia contiene anche delle piccolissime concrezioni, meno di un millimetro, che gli scienziati chiamarono semi di papavero, che contengono vivianite, un minerale di fosfato di ferro.

Sul nostro pianeta questo minerale e altri ritrovati sulla roccia marziana, si formano spesso nei laghi d’acqua dolce, negli estuari dei fiumi e nelle paludi in depositi di sedimenti.

Perseverance, col suo braccio robotico, ha perforato l’argilla e ne ha ora un campione in contenitore assieme agli altri 27 campioni di terreno, prelevati in questi anni, a partire dal febbraio 2021 quando è arrivato su Marte.

Tutti questi campioni in un primo tempo dovevano tornare sulla Terra grazie a una missione molto ardita e complessa, Mars Sample Return che doveva portare su Marte una navetta che avrebbe prelevato i campioni da Perseverance e li avrebbe sparati, verso la terra.

Gli esami e gli studi che si possono fare in un laboratorio terrestre sono di un altro livello di profondità e completezza ovviamente e potrebbero risultare decisivi in questo caso, ma la missione è stata praticamente annullata dai tagli voluti dall’amministrazione Trump, perché le stime dei costi sono salite vertiginosamente a undici miliardi di dollari.

Cercare la vita, una qualche forma di vita, al di fuori della Terra è importante perché potrebbe farci capire che non siamo, per l’ennesima volta, dei privilegiati, ma solo uno dei tanti pianeti, fra miliardi e miliardi di altri, in cui si è sviluppata.

 

da Internet

 
 
 

Un buco nero distante 13.3 miliardi di anni luce

Post n°231 pubblicato il 26 Agosto 2025 da robertocass
 
Foto di robertocass

 

 

 

 

Un team internazionale di ricercatori ha annunciato la scoperta di un nuovo buco nero formatosi dopo il Big Bang, il più remoto e antico mai osservato.

La sua formazione risale a circa 13,3 miliardi di anni fa, quando l’Universo era ancora in una fase primordiale.

L’oggetto celeste non è soltanto straordinariamente distante, ma anche insolitamente massiccio: la sua massa stimata raggiunge fino a 300 milioni di volte quella del Sole.

Un risultato che pone nuovi interrogativi sui processi che regolano la nascita e la crescita dei buchi neri primordiali.

La scoperta è stata resa possibile grazie ai dati raccolti dal telescopio spaziale James Webb, lo strumento che sta rivoluzionando la nostra visione dell’Universo più remoto.

Il dato più sorprendente non è soltanto l’età dell’oggetto celeste, ma la sua enorme dimensione.

In genere, i buchi neri crescono gradualmente nel corso di miliardi di anni, fino a diventare i cosiddetti buchi neri supermassicci che osserviamo oggi al centro delle galassie.

Questo, invece, appare già maturo per un’epoca in cui l’Universo aveva meno di 500 milioni di anni di vita.

Ciò significa che i modelli finora accettati sulla formazione dei buchi neri potrebbero non essere sufficienti a spiegare un fenomeno simile.

Un buco nero tanto grande e precoce obbliga gli astrofisici a ripensare i meccanismi di accrescimento e a considerare scenari più rapidi o alternativi a quelli noti.

Il problema non è tanto l’esistenza di oggetti così imponenti, quanto la loro comparsa in un tempo cosmico molto breve.

L’oggetto scoperto si trova all’interno della galassia Capers-Lrd-z9, individuata inizialmente come un minuscolo punto luminoso nelle osservazioni del James Webb.

Approfondendo l’analisi, i ricercatori hanno capito che non si trattava di un segnale qualsiasi, bensì di un rappresentante di una nuova classe di galassie soprannominate Little Red Dots.

Queste galassie ultracompatte e brillanti sembrano esistere soltanto nell’Universo primordiale e potrebbero nascondere altri esempi di buchi neri ancora più antichi e distanti di quanto finora immaginato.

Stabilire la distanza reale non è semplice, perché la luce emessa da questi oggetti attraversa un Universo in continua espansione.

I ricercatori sottolineano che non si può semplicemente dire che si trovi a 13,3 miliardi di anni luce, poiché la misura del cosmo cambia continuamente mentre la luce stessa viaggia verso di noi.

Questa straordinaria scoperta non ha valore soltanto per la sua unicità, ma anche per le implicazioni che porta con sé.

Capire come sia nato e cresciuto un buco nero del genere in così poco tempo potrebbe offrire indizi fondamentali sull’evoluzione delle galassie.

Anche la nostra Via Lattea ospita un buco nero al centro, e studiare esempi così remoti potrebbe aiutarci a ricostruire i meccanismi che hanno plasmato l’ambiente cosmico.

La grande domanda rimane sempre la stessa: come siamo arrivati qui?

Ogni nuova scoperta nei confini estremi dello spazio-tempo ci riporta a questo interrogativo, rivelando che la storia del cosmo è molto più complessa e affascinante di quanto possiamo immaginare

 

 

Da Internet

 
 
 

Un segnale di vita dagli abissi dello Spazio: il miracolo interstellare di Voyager 1

Post n°229 pubblicato il 17 Maggio 2025 da robertocass
 
Foto di robertocass

 

 

 

 

Gli Ingesgneri della Nasa hanno compiuuo un impresa che sembrava impossibile, sono riusciti a riattivare i propulsori di riserva della sonda Voyager 1, inattivi dal 2004 e datempo ritenuti irrimediabilmente fuori uso.

Questo successo rappresenta un nuovo capitolo nella straordinaria odissea della missione Voyager, lanciata nel lontano 1977, e testimonia l’ingegno e la determinazione di un team che continua a sfidare i limiti della tecnologia e del tempo.

La riattivazione dei propulsori si è resa necessaria a causa del degrado progressivo dei propulsori principali, compromessi da accumuli di residui che ne hanno ridotto l’efficacia.

Senza un controllo preciso dell’orientamento, Voyager 1 rischiava di perdere l’allineamento dell’antenna con la Terra, un evento che avrebbe segnato la fine delle comunicazioni dopo quasi 50 anni di missione.

La situazione era resa ancora più critica da una scadenza improrogabile: il 4 maggio 2025 l’antenna terrestre utilizzata per inviare comandi alle sonde Voyager doveva essere spenta per mesi di aggiornamenti.

Ogni intervento successivo sarebbe stato impossibile.

I propulsori di riserva, responsabili delle delicate manovre di rollio necessarie per mantenere la giusta direzione della sonda, erano stati disattivati nel 2004 dopo la perdita di 2 piccoli riscaldatori interni, fondamentali per il loro funzionamento.

Considerati ormai irrecuperabili, erano stati accantonati senza aspettative di rianimazione.

La situazione disperata ha però spinto gli ingegneri a ripensare l’impossibile.

Con calcoli precisi e un rischio calcolato, hanno pianificato una manovra per riaccendere i riscaldatori e riattivare i propulsori dormienti, senza sovraccaricare il sistema.

Un errore avrebbe potuto provocare un picco di pressione pericoloso.

Vista la distanza, oltre 23 miliardi di km dalla Terra, ogni comando richiede ben 23 ore per giungere alla sonda, rendendo ogni test un esercizio di pazienza e nervi saldi.

Il 20 marzo 2025, la sonda ha finalmente risposto: i propulsori si erano riaccesi, i riscaldatori funzionavano.

L’impresa si inserisce nella lunga storia di successi della missione Voyager, nata per esplorare i pianeti esterni del Sistema Solare e poi estesa allo studio dello Spazio interstellare.

Voyager 1 ha lasciato la nostra bolla solare nel 2012, seguita da Voyager 2 nel 2018.

Oggi, entrambe sono le entità artificiali più lontane mai create, avendo percorso oltre 46,7 miliardi di km.

Nel corso degli anni, la loro sopravvivenza ha richiesto sacrifici tecnici: strumenti scientifici disattivati per risparmiare energia, guasti risolti con ingegnose soluzioni software, e un costante adattamento a una tecnologia vecchia di decenni.

Le sonde sono alimentate da generatori a radioisotopi che si indeboliscono progressivamente, ma la missione continua.

Nonostante l’età avanzata e le difficoltà crescenti, le Voyager continuano a inviare dati scientifici senza precedenti dallo Spazio interstellare, un ambiente che nessun’altra sonda ha mai esplorato direttamente.

Ogni bit trasmesso rappresenta una conquista scientifica, una testimonianza di resilienza tecnologica e una fonte inestimabile di conoscenza.

La riattivazione dei propulsori di riserva non è solo un trionfo tecnico: è un simbolo della capacità dell’ingegno umano di superare i limiti e dare nuova vita anche a ciò che sembrava irrimediabilmente perduto.

Finché Voyager continuerà a parlare, noi continueremo ad ascoltare

 

Da Internet

 
 
 

Un segnale di vita dagli abissi dello Spazio: il miracolo interstellare di Voyager 1

Post n°228 pubblicato il 17 Maggio 2025 da robertocass
 
Foto di robertocass

 

 

Gli Ingesgneri della Nasa hanno compiuuo un impresa che sembrava impossibile, sono riusciti a riattivare i propulsori di riserva della sonda Voyager 1, inattivi dal 2004 e datempo ritenuti irrimediabilmente fuori uso.

Questo successo rappresenta un nuovo capitolo nella straordinaria odissea della missione Voyager, lanciata nel lontano 1977, e testimonia l’ingegno e la determinazione di un team che continua a sfidare i limiti della tecnologia e del tempo.

La riattivazione dei propulsori si è resa necessaria a causa del degrado progressivo dei propulsori principali, compromessi da accumuli di residui che ne hanno ridotto l’efficacia.

Senza un controllo preciso dell’orientamento, Voyager 1 rischiava di perdere l’allineamento dell’antenna con la Terra, un evento che avrebbe segnato la fine delle comunicazioni dopo quasi 50 anni di missione.

La situazione era resa ancora più critica da una scadenza improrogabile: il 4 maggio 2025 l’antenna terrestre utilizzata per inviare comandi alle sonde Voyager doveva essere spenta per mesi di aggiornamenti.

Ogni intervento successivo sarebbe stato impossibile.

I propulsori di riserva, responsabili delle delicate manovre di rollio necessarie per mantenere la giusta direzione della sonda, erano stati disattivati nel 2004 dopo la perdita di 2 piccoli riscaldatori interni, fondamentali per il loro funzionamento.

Considerati ormai irrecuperabili, erano stati accantonati senza aspettative di rianimazione.

La situazione disperata ha però spinto gli ingegneri a ripensare l’impossibile.

Con calcoli precisi e un rischio calcolato, hanno pianificato una manovra per riaccendere i riscaldatori e riattivare i propulsori dormienti, senza sovraccaricare il sistema.

Un errore avrebbe potuto provocare un picco di pressione pericoloso.

Vista la distanza, oltre 23 miliardi di km dalla Terra, ogni comando richiede ben 23 ore per giungere alla sonda, rendendo ogni test un esercizio di pazienza e nervi saldi.

Il 20 marzo 2025, la sonda ha finalmente risposto: i propulsori si erano riaccesi, i riscaldatori funzionavano.

L’impresa si inserisce nella lunga storia di successi della missione Voyager, nata per esplorare i pianeti esterni del Sistema Solare e poi estesa allo studio dello Spazio interstellare.

Voyager 1 ha lasciato la nostra bolla solare nel 2012, seguita da Voyager 2 nel 2018.

Oggi, entrambe sono le entità artificiali più lontane mai create, avendo percorso oltre 46,7 miliardi di km.

Nel corso degli anni, la loro sopravvivenza ha richiesto sacrifici tecnici: strumenti scientifici disattivati per risparmiare energia, guasti risolti con ingegnose soluzioni software, e un costante adattamento a una tecnologia vecchia di decenni.

Le sonde sono alimentate da generatori a radioisotopi che si indeboliscono progressivamente, ma la missione continua.

Nonostante l’età avanzata e le difficoltà crescenti, le Voyager continuano a inviare dati scientifici senza precedenti dallo Spazio interstellare, un ambiente che nessun’altra sonda ha mai esplorato direttamente.

Ogni bit trasmesso rappresenta una conquista scientifica, una testimonianza di resilienza tecnologica e una fonte inestimabile di conoscenza.

La riattivazione dei propulsori di riserva non è solo un trionfo tecnico: è un simbolo della capacità dell’ingegno umano di superare i limiti e dare nuova vita anche a ciò che sembrava irrimediabilmente perduto.

Finché Voyager continuerà a parlare, noi continueremo ad ascoltare

 

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