Creato da robertocass il 22/03/2011
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Messaggi di Agosto 2018

 

Spazzatura spaziale

Post n°151 pubblicato il 14 Agosto 2018 da robertocass
 
Foto di robertocass

 

 

 

 

Lo Sputnik 1 fu il primo satellite artificiale mandato in orbita intorno alla Terra, venne lanciato dalla Russia il 4 ottobre 1957.

Da allora abbiamo lanciato di tutto, ma dove sono finiti tutti questi oggetti?

Dove sono tutti questi satelliti che da 61 anni lanciamo nello spazio?

Dove finisce questa spazzatura spaziale?

Li chiamano "space debris" (detriti spaziali) e sono satelliti, sonde, rottami di veicoli, ma anche oggetti più o meno volontariamente lasciati da astronauti di varie missioni: macchine fotografiche, guanti, spazzolini da denti, attrezzi, fino a giungere ai sacchi d’immondizia prodotti dagli occupanti della stazione orbitante MIR in quindici anni di attività.

Le stime parlano di decine di migliaia di oggetti d’origine umana, di varie dimensioni e nazionalità, che orbitano attorno alla Terra in zone diverse e a una velocità non inferiore ai 28.000 Km l’ora.

Questo significa che lassù anche l’impatto con un bullone o una semplice scaglia di vernice può divenire pericoloso.

Ne sanno qualcosa, ad esempio, i sei astronauti che nel marzo scorso si trovavano sulla Stazione Spaziale Internazionale e che dovettero trasferirsi in fretta e furia nelle capsule di salvataggio.

C’era il pericolo, infatti, di entrare in collisione con i detriti di un missile russo, avvistati troppo tardi per tentare manovre elusive.

Oltre alla velocità con cui viaggiano, desta preoccupazione il numero degli oggetti potenzialmente pericolosi che l’uomo ha abbandonato nello spazio.

Secondo dati diffusi dalla NASA, si conoscerebbe l’esistenza di circa 22.000 pezzi orbitanti di dimensioni rilevabili dagli strumenti.

Questo movimento è seguito costantemente da radar e telescopi del Norad, il comando americano per la difesa aerospaziale, e dell’ESA, l’agenzia spaziale europea.

Di ogni rifiuto spaziale conosciuto è stata calcolata l’orbita.

Il problema più grande è rappresentato dalle centinaia di migliaia di pezzi così piccoli da non poter essere individuati, veri e propri proiettili vaganti.

Non basta: in dieci anni i rifiuti spaziali sono raddoppiati e si prevede che nel prossimo decennio saranno mandati in orbita almeno altri 1.150 nuovi satelliti.

Diventa di vitale importanza, quindi, cercare di mantenere "pulito" lo spazio.

Lo IADC (Inter-Agency Space Debris Coordination Committee), apposito comitato che riunisce le agenzie spaziali internazionali, ha stilato una serie di norme condivise che hanno lo scopo di tenere il più possibile controllato il problema.

Anche l’Unione Europea punta sullo spazio per assumere un ruolo leader a livello internazionale e dare opportunità di sviluppo a vari settori.

Per questo da tempo persegue da tempo la creazione di sistemi internazionali di sorveglianza e monitoraggio spaziale, capaci di garantire elevati livelli di sicurezza, anche rispetto ai rischi di collisione di satelliti tra loro o con rifiuti orbitanti.

Non mancano le proposte concrete per cercare di ripulire lo spazio.

Una di queste viene dall’Italia, precisamente dalla Seconda Facoltà di Ingegneria dell’Università di Bologna, che ha sede a Forlì.

Qui alcuni studenti hanno messo a punto un sistema per "frenare" la corsa dei rifiuti orbitanti.

Si tratta di una schiuma capace di espandersi e solidificarsi nello spazio dopo averli catturati.

In questo modo essi possono essere allontanati dall’orbita della terra o essere "dirottati" verso la sua atmosfera, che provvede a incenerirli.

L’ESA (Agenzia Spaziale Europea) ha deciso di trasformare l’idea in un esperimento, che è stato chiamato "Redemption" (REmoval of DEbris using Material with Phase Transition – IONospherical tests).

Nel marzo scorso, in Svezia, si è svolto un primo test che sarà ripetuto.

La Svizzera, invece, vuole lanciare in orbita il primo prototipo che avrà il compito di ripulire lo spazio dai detriti di origine umana.

E’ un satellite-spazzino, capace di catturare i rottami al volo e spedirli verso l’atmosfera terrestre.

Una sorta di Wall-E orbitante, certamente meno romantico del personaggio disneyano, ma dotato della proverbiale precisione elvetica, dote fondamentale per afferrare oggetti che viaggiano a oltre 7 Km al secondo.

Questo per quanto riguarda lo Spazio, e la Luna?

L'umanità ha abbandonato sulla superficie lunare circa 170.000kg (170 tonnellate) di oggetti vari la maggior parte dei quali non sono più utili e possono essere considerati spazzatura spaziale o lunare.

Oltre a bandiere, stendardi e altro ci sono gli oggetti personali lasciati dagli astronauti come ad esempio la palla da golf diAlan Shepard abbandonata durante la missione Apollo 14 o la statuetta denominata Fallen Astronaut (Astronauta Caduto) lasciata sul suolo lunare dell'equipaggio dell'Apollo 15 per ricordare gli astronauti di tutte le nazioni morti durante la corsa allo spazio.

Il Fallen Astronaut al momento attuale è l'unico manufatto artistico su un suolo diverso da quello della Terra.

Sono stati portati sulla Terra invece 382 kg di rocce lunari prelevati durante le missioni del programma Apollo e Luna.

Tra gli oggetti artificiali che sono ancora utilizzati per scopi scientifici vi sono i riflettori usati negli esperimenti di Lunar Laser Ranging che furono installati dagli astronauti delle missioni Apollo 11, 14 e 15.

Questi riflettori, che non necessitano di nessuna alimentazione, sono stati utilizzati per condurre esperimenti sulla gravità e oggi dopo 48 anni funzionano ancora perfettamente.

Nessuno degli oggetti artificiali rimasti sulla Luna è direttamente osservabile dalla Terra, questo perché anche i migliori telescopi compreso l'Hubble possono risolvere oggetti sulla superficie lunare aventi dimensioni minime di 60 metri.

Gli oggetti più grandi abbandonati sono i moduli di discesa del Lem che hanno un diametro di circa 10 metri.

Insomma siamo riusciti a sporcare non solo la Terra ma anche lo Spazio e i costi per la bonifica di entrambi sono e saranno costosissimi ed è un problema che riguarda tutti.

E in entrambi i casi la soluzione sta diventando urgente.

 

 
 
 

Una sonda sul Sole

Post n°150 pubblicato il 12 Agosto 2018 da robertocass
 
Foto di robertocass

 

 

 

 

La NASA ha lanciato la sonda Parker Solar Probe, la più importante mai realizzata per analizzare il Sole.

Parker Solar Probe è stata progettata per studiare il vento solare, il flusso di particelle cariche emesso dall’alta atmosfera del Sole che in periodi di alta attività della stella raggiunge la Terra causando, oltre alle aurore polari, interferenze e problemi di comunicazione, soprattutto ai nostri satelliti.

Il vento solare è un flusso di particelle cariche emesso dall'alta atmosfera del Sole, generato dall'espansione continua nello spazio interplanetario della corona solare.

Queste particelle sfuggono alla gravità del Sole per le alte energie cinetiche in gioco e per l'alta temperatura della corona che accelera le particelle, trasferendo loro ulteriore energia.

Vicino alla Terra, la velocità del vento solare varia da 200 km/s a 900 km/s, mentre la sua densità varia da alcune unità a decine di particelle per cm cubo.

La velocità del vento solare è nettamente superiore alla velocità di fuga di tutti i pianeti del sistema solare.

ll moto pertanto prosegue in linea retta, non deviato dalle orbite dei pianeti e impiega da 2 a circa 9 giorni per percorrere i 149.600.000 km che mediamente separano la Terra dal Sole.

Il Sole perde circa 800 milioni di kg di materiale al secondo eiettandolo sotto forma di vento solare (rispetto alla massa del Sole questa perdita è del tutto insignificante).

Quando raggiunge l’atmosfera terrestre il vento solare può causare interferenze e problemi di comunicazione ai nostri satelliti.

Parker Solar Probe permetterà alla NASA di analizzare per la prima volta il vento solare nel posto dove si origina, cioè nella parte dell’atmosfera solare chiamata corona e permetterà anche di prevedere i fenomeni di interferenza che arriveranno sulla Terra.

La sonda ovviamente non andrà a finire sulla superficie del sole ma ci si avvicinerà fino a una distanza di 6,2 milioni di chilometri, cioè molto vicino in termini astronomici.

Il Sole ha un diametro di 1,39 milioni di chilometri ed è a quasi 150 milioni di chilometri da noi.

Per capire meglio cosa significa, considerate che se la distanza tra la Terra e il Sole fosse di un metro, Parker Solar Probe arriverebbe a soli quattro centimetri dal Sole.

Finora la sonda che più di tutte si era avvicinata al Sole era stata Helios-2, nel 1976: era arrivata a 43 milioni di chilometri dalla stella.

Parker Solar Probe diventerà inoltre l’oggetto costruito dall’uomo a muoversi più velocemente della storia: arriverà alla velocità di 190 chilometri al secondo, cioè 609mila all’ora.

La sua missione fu pensata per la prima volta 60 anni fa, ma all’epoca non c’erano ancora le tecnologie necessarie per far resistere un oggetto alle temperature della corona solare; sarebbe dovuta partire quasi dieci anni fa, ma poi ci furono vari ritardi per ragioni finanziarie.

Il razzo che manderà la sonda nello Spazio è un Delta-IV Heavy.

La lancerà verso l’interno del Sistema Solare in modo da farle oltrepassare Venere in sei settimane e arrivare vicino al Sole dopo altre sei settimane.

La sua missione durerà sette anni, durante i quali Parker Solar Probe farà 24 giri attorno alla nostra stella.

Sarà alimentata, comprensibilmente, dall’energia solare e per resistere ai più di 1.000°C della corona solare ed evitare di essere distrutta dovrà sempre tenere orientato tra sé e il Sole uno scudo fatto di un composto del carbonio spesso 11,5 centimetri, che manterrà la sonda a 30°C.

I suoi pannelli fotovoltaici, che per funzionare dovranno esporsi fuori dallo scudo, saranno raffreddati da un circuito ad acqua.

L’ESA, l’Agenzia Spaziale Europea, ha in programma una missione molto simile a quella di Parker Solar Probe: si chiama Solar Orbiter (solitamente abbreviato in SolO) e dovrebbe essere lanciata nel 2020.

La sonda arriverà a 42 milioni di chilometri dalla superficie del Sole più o meno verso la fine della missione di Parker Solar Probe.

Non studierà le stesse cose della sonda della NASA ma raccoglierà dati complementari a quelli raccolti da Parker Solar Probe e potrà realizzare catturare immagini dirette del Sole dato che si troverà a una distanza maggiore.

Parker Solar Probe è stata chiamata così in onore del fisico Eugene Parker, che in un articolo scientifico del 1958 intitolato “Dynamics of the interplanetary gas and magnetic fields” ipotizzò per la prima volta l’esistenza di quello che poi fu chiamato “vento solare”.

Sulla sonda si trova una memory card che contiene alcune fotografie di Parker, una copia del suo articolo del 1958 e i nomi di 1,1 milioni di persone appassionate di Spazio che hanno partecipato a un’iniziativa di comunicazione della NASA.

Parker è la prima persona ancora in vita a cui la NASA dedica una sua missione, attualmente ha 91 anni ed è professore emerito all’Università di Chicago.

 

 
 
 

Io me la ricordo la felicità

Post n°149 pubblicato il 03 Agosto 2018 da robertocass
 
Foto di robertocass

 

 

 

 

Io me la ricordo la felicità, era fatta di operai che andavano al mare nei giorni di agosto.

Le macchine senza aria condizionata, con i portapacchi piene di valigie e le autostrade senza bollini neri.

Erano gli anni dove i pensionati potevamo permettersi la giusta ricompensa dopo una vita di sacrifici, erano gli anni delle spiagge con i tavolini e le paste al forno e quei contenitori frigo, più forniti dei supermercati.

La felicità, con quelle sedie pieghevoli e quei caffè nei termos a fine pranzo, le foto con i rullini, i discorsi tutti insieme a fine pranzo, i bambini che facevano i bambini.

Aveva un altro sapore la felicità!

Le discoteche in spiaggia, fatte di legno con le lampadine colorate, le ragazze sedute che aspettavano l’invito per ballare quei lenti e per conoscersi meglio, eravamo più estranei e molto più intimi senza nemmeno sapere il suo nome.

Noi, con una chitarra e un fuoco in spiaggia, avevamo il paradiso, noi in cerchio e una bottiglia che girava trovavamo un bacio, e ti capitava sempre quella che non ci piaceva.

Noi, figli dei francobolli e delle cartoline “tanti saluti dal mare” che li spedivamo sempre l’ultimo giorno, forse per questo avevano il sapore amaro quei francobolli quando li leccavi, perché le vacanze finivano, ma si tornava a casa felici, senza bollette arretrate nei cassetti, con le cartoline che arrivavano in autunno, con la serenità nella testa e la speranza sempre a portata di mano.

Abbiamo ottenuto uno smartphone per parlare con il mondo e ci hanno fregato la voglia di stare insieme.

Io me la ricordo la felicità, rimaneva a te, sulla pelle, e non aveva bisogno di nessuna password.......

 

 
 
 

Acqua su Marte

Post n°148 pubblicato il 02 Agosto 2018 da robertocass
 
Foto di robertocass

 

 

 

 

Una scoperta italiana sta facendo discutere tutta la comunità scientifica mondiale, grazie al radar italiano Marsis (Mars Advanced Radar for Subsurface and Ionosphere Sounding) della sonda orbitale europea Mars Express, è stato scoperta una presenza di acqua liquida sotto il suolo marziano.

Si trova ad una profondità di un chilometro, ha un diametro di 20 chilometri (un po' meno del lago di lago di Bracciano) e uno spessore,si presume, di almeno qualche metro, anche se il dato potrebbe dilatarsi di parecchio.

Acqua liquida ed evidentemente salata perché altrimenti il radar avrebbe individuato un gigantesco iceberg dato che scendendo verso il cuore di un pianeta morto e senza attività vulcaniche, il termometro scende a meno 150 gradi.

L'eccezionale scoperta è merito delle intuizioni dello scienziato italiano Giovanni Picardi, della Sapienza di Roma, scomparso tre anni fa.

Suggestioni e ipotesi vengono spazzate via dalla completezza dei dati raccolti e analizzati dal 2015 a oggi dagli scienziati italiani che hanno fatto fare un salto ai colleghi di tutto il mondo.

Non si tratta più di presunte vene d’acqua superficiali ghiacciate o di permafrost, lo strato più esposto del terreno intriso di acqua ugualmente ghiacciata.

Ambienti ostili per gran parte delle forme di vita.

No, questa volta è stata individuata acqua allo stato liquido, salata (con i sali che fanno appunto da antigelo) e in un ambiente riparato dalle micidiali radiazioni che da tre miliardi di anni inceneriscono la crosta marziana fino a una profondità di almeno 80 centimetri.

A confermarlo in maniera inconfutabile sono gli echi delle onde lanciate dal radar Marsis che equipaggia la sonda Mars Express decollata da Bajkonur nel 2003, in volo orbitale a 250 chilometri di altezza dal pianeta.

E’ lo strumento, ricorda Enrico Flamini, capo degli scienziati dell'Asi, ideato da Picardi e realizzato da Asi e Thales Alenia Space-Italia con l’aiuto della Nasa che già nella missione Apollo aveva testato tecnologie di questo tipo.

Marsis dispone di due esili antenne di kevlar lunghe 20 metri e, grazie alle sue frequenze, è in grado di investigare fino a 5 chilometri di profondità su Marte.

Le onde poi rimbalzano e grazie a questi echi gli scienziati capiscono che cosa hanno attraversato.

Nessun dubbio: i risultati marziani nella regione di Planum Australe sono paragonabili in tutto e per tutto a quelli ottenuti con gli stessi sistemi scandagliando il sottosuolo dell’Antartide terrestre sempre alla ricerca di acqua.

Del resto Marte, e qui si fonda gran parte del fascino per il Pianeta Rosso, rappresenta il futuro della Terra lontano nel tempo forse miliardi di anni, ma già adesso utile da studiare se si vogliono comprendere le ragioni della vita e della morte di un pianeta.

La presenza di acqua allo stato liquido (e non così irraggiungibile per le tecnologie che verranno usate in una futura colonizzazione) rilancia allora la possibilità della presenza anche attuale di vita sul Pianeta Rosso e permette di pianificare con maggiori certezze le future missioni.

Nell’articolo pubblicato da Science si sottolinea inoltre che il lago marziano potrebbe essere solo il primo di altri bacini sotterranei: servirà altro tempo, infatti, per studiare la formidabile massa di dati fornita in questi 12 anni dal radar Marsis che sono stati inoltre incrociati con quelli di un altro radar italiano, lo Sharad, installato sulla sonda Mro della Nasa.

Dati che saranno esaminati anche dalla Nasa che due mesi fa ha annunciato la scoperta di molecole organiche da parte del rover Curiosity nel cratere Gale.

E poi quest’acqua liquida e salata individuata sotto il Polo Sud marziano collega le prime visioni dell’astronomo italiano Giovanni Schiaparelli che nel 1877 affermò che i canali di Marte indicavano che in un passato non sappiamo quanto lontano vi erano fium i e laghi.

Nel 2020 il trapano della Leonardo del rover Exomars potrà per la prima volta perforare il terreno marziano fino alla profondità di due metri rispetto ai pochi centimetri dei robot attuali, raggiungendo così strati riparati dalla radiazioni che oltre all’acqua potrebbero ospitare forme di vita o tracce della loro esistenza.

Le intuizioni di Schiapparelli sono state poi confermate nel 1976 dalla sonda Viking e dalle altre missioni che si sono susseguite ed il dato che la superficie di Marte fosse un tempo coperta da mari, laghi e fiumi è oggi una certezza scientifica.

«Il grande dilemma era quindi quello di dove fosse finita tutta quell’acqua, racconta Roberto Orosei dell’Inaf, primo autore dell’articolo. 

Buona parte di questa è stata portata via dal vento solare, che spazzò quella che mano a mano si vaporizzava dalla superficie degli specchi d’acqua.

Un’altra significativa porzione è depositata sotto forma di ghiaccio nelle calotte, soprattutto quella nord, e negli strati prossimi alla superficie o è legata al terreno nel permafrost.

Ma una parte doveva essere rimasta intrappolata nelle profondità e potrebbe ancora trovarsi allo stato liquido».

Questo era ciò che si ipotizzava a metà degli anni ’90, quando la missione Mars Express fu annunciata dall’Agenzia Spaziale Europea e l’Asi propose di adottare un radar a bassa frequenza per investigare il sottosuolo a grande profondità.

Strategia che si è rivelata vincente.

«Questi risultati indicano che ci troviamo probabilmente in presenza di un lago subglaciale, dice Elena Pettinelli, responsabile del Laboratorio di Fisica Applicata alla Terra ed i Pianeti dell’Università Roma Tre e co-investigatore di Marsis, simile ai laghi presenti al di sotto dei ghiacci antartici, relativamente esteso e con una profondità certamente superiore alla possibilità di penetrazione delle frequenze usate da Marsis.

In alternativa potrebbe trattarsi di un acquifero profondo nel quale l’acqua liquida riempie i pori e le fratture della roccia.

Non siamo attualmente in grado di stimare con precisione la profondità del lago, ovvero dove si trova il fondo del lago o la base dell'acquifero, ma possiamo senza dubbio affermare che sia come minimo dell’ordine di qualche metro».

Roberto Battiston, presidente dell'Asi:

«Questa scoperta è una delle più importanti degli ultimi anni. 

Sono decenni che il sistema spaziale italiano è impegnato nelle ricerche su Marte insieme a Esa e Nasa. 

I risultati di Marsis confermano l’eccellenza dei nostri scienziati e della nostra tecnologia, e sono un ulteriore riprova dell’importanza della missione Esa a leadership italiana ExoMars, che nel 2020 arriverà sul Pianeta Rosso alla ricerca di tracce di vita».

 

 
 
 
 
 

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