Creato da nina.monamour il 11/06/2010 |
L'INFERNO CHE HO SCELTO..
Lei gli sussurrò
"Sono il tuo inferno"
e lo guardava con occhi densi di desiderio.
Lui la attirò prepotentemente a sé...
e mentre la spogliava con gli occhi e con le mani rispose...
"TU.. sei l'Inferno che mi sono scelto..."
il resto....è storia...
CARPE DIEM..
Ci sono persone che non vivono la vita presente, ma si preparano con grande zelo come se dovessero vivere una qualche altra vita e non quella che vivono e intanto il tempo si consuma e fugge via..
"Carpe diem, quan minimun credula postero"
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Post n°8407 pubblicato il 29 Maggio 2018 da nina.monamour
Lasciate perdere Lino Banfi e le sue proverbiali "orecchiettole", perchè raccontare la Puglia, e la sua gastronomia, vuol dire infatti andare ben oltre il tormentone e il luogo comune. Per tuffarsi invece in un ventaglio di materie prime straordinarie che, da sole, valgono il viaggio tra i sapori e la gastronomia della Puglia, nonché il pasto. E per capirlo basta cedere alla tentazione del matrimonio più semplice e irresistibile, pane e olio. In Puglia infatti, granaio generoso sin dai tempi dei Romani e dei loro litigiosi dirimpettai, nasce uno dei pani più prelibati d’Italia, il pane di Altamura (e non sarà un caso se si tratta del primo, nel gruppo dei prodotti da forno, ad avere ottenuto il marchio europeo Dop). Questa pagnotta, dote fortunata di una manciata di comuni in provincia di Bari (Altamura certo, ma anche, tra gli altri, Gravina e Minervino) ha sfamato per secoli pastori e contadini prima di guadagnarsi disciplinari e regolamenti multilingue che, di fatto, non sono altro che fotocopia di quella ricetta che ogni buon fornaio di queste terre conosce da sempre. E se anche Orazio nelle "Satire" parla con trasporto di questo pane un motivo ci sarà. L’Altamura infatti, che si abbina con piacere a ogni pietanza, con la sua mollica paglierina è in grado di reggere ben più di qualche giorno e si sublima con il companatico più antico e umile, l’olio (divino). Proprio una delle altre grandi ricchezze di questa regione che vanta cinque tipologie di oli premiati dall’Europa (su un totale di 38 oli italiani Dop. E anche l’oliva Bella di Daunia ha il suo marchio). Da Foggia a Lecce, da Taranto a Brindisi, passando ovviamente per Bari, ogni provincia della Puglia ha il proprio olio e questa ricchezza si ritrova nei panorami e sulle tavole. Nei piatti, con una declinazione di color oro che profumano di frutta e pizzicano di piccante, e nelle campagne che grazie a quasi cinquanta milioni di alberi di ulivo si tingono di una infinita serie di sfumature dal verde al bruno. E nel contrasto con il blu del cielo e il turchese del mare si arricchisce la tavolozza che tratteggia la Puglia. Carne magra di maiale, spalla e coscia, tagliata finemente con una piccola parte di grasso, sale pepe e vino: ecco la ricetta di questo salume che poi stagiona un paio di mesi prima di finire, a fette, sul solito pane. Vincendo, dettaglio non banale, condizioni climatiche che in teoria, non sarebbero certo quelle ideali per la carne conservata. Ecco perché, per il capocollo, è fondamentale la concia e l’affumicatura. E il sapore intenso, arricchito di aromi, si imprime fatalmente nel ricordo di chi ha la fortuna, nel piccolo territorio di produzione che sconfina sino alla terra dei Trulli, a Locorotondo e Alberobello, di trovare una tavola amica dove sedersi a pranzare. Un pranzo che, i pugliesi non avrebbero dubbi, non può definirsi completo senza almeno un assaggio di lampascioni. Siamo onesti, il nome sgraziato non evoca brividi lussuriosi da gourmet e la difficoltà di preparazione sembra sconsigliarli ai non pugliesi. Ma la gente delle Murge sa bene che questo bulbo, lontano parente della cipolla, è in realtà una prelibatezza e anche il solito Apicio, l’onnisciente guru della gastronomia antica, lo cita più volte. Ecco perché vale allora la pena di provarlo senza formalizzarsi se si finisca per impiattarlo dopo averlo lessato, cotto sotto la cenere o fritto. E’ probabile che vi piacerà comunque. Non amate il gusto amarognolo di questo bulbo? Poco male, la Puglia, regione in apparenza omogenea ma che già Federico II tripartiva nettamente, sa offrire materia anche a schifa i vegetali e si accalora per il formaggio. E, per fortuna, non si deve più sobbarcare la fatica aspra della transumanza per ottenere il piacere del canestrato pugliese. Un formaggio di latte ovino, a pasta dura, che prende il nome dai canestri di giunco dove, la tradizione è una gran cosa, viene posto a stagionare prima di titillare il palato. Se giovane, magari abbinato a verdure crude o come merenda, se stagionato e occorrono non meno di dieci mesi, grattugiato sulla pasta. E alla fine, siamo buoni, con le orecchiette sarebbe davvero un’accoppiata vincente. Per finire però l’ultimo accenno va ai vini, che mangiare va bene ma occorre anche sapere bere. Una necessità che in Puglia si declina con il piacere. Aleatico, Negroamaro, Primitivo, nero di Troia, l’enologia locale sa proporre dei piccoli classici che dopo decenni di «schiavitù» (i prodotti pugliesi venivano esportati per “tagli” fondamentali di blasonati vini del nord) ora hanno conquistato l’attenzione di chi sa cosa c‘è nel bicchiere. Ed è bello scoprire che dai tempi del poeta latino Marziale poco è cambiato. Ora wine lovers e sommelier decantano la potenza ricca di frutto e i toni speziati del Primitivo o la struttura grande e complessa dei migliori Negroamaro. E fioccano bicchieri e voti da lode per bottiglie che, ancora, si possono acquistare senza accendere un mutuo. Mentre il Primitivo lotta con il mitico Zinfandel della California per stabilire quale sia l’originale e quale la copia. Ed è ovvio a questo punto che non sono “orecchiettole“. Questo post lo dedico al mio amico Carlé |
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