Creato da Avv.FAZZARI il 07/01/2009
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Immigrati: si ad indennità di accompagnamento anche senza carta di soggiorno

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Avv. Simone Fazzari 

Simone Fazzari e Barry Smith Law Offices 

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L’indennità di accompagnamento spetta a tutti gli immigrati che siano regolari ed in possesso deirequisiti sanitari necessari e non solamente a quelli che siano titolari di permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo (ex carta di soggiorno).

Il citato permesso è a tempo indeterminato e può essere richiesto solamente da coloro che siano titolari di un permesso di soggiorno da almeno 5 anni.

La Corte Costituzionale, con la sentenza 15 marzo 2013, n. 40 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 80, comma 19, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2001) “nella parte in cui subordina al requisito della titolarità della carta di soggiorno la concessione agli stranieri legalmente soggiornanti nel territorio dello Stato della indennità di accompagnamento di cui all’articolo 1 della legge 11 febbraio 1980, n. 18 (Indennità di accompagnamento agli invalidi civili totalmente inabili) e della pensione di inabilità di cui all’art. 12 della legge 30 marzo 1971, n. 118 (Conversione in legge del decreto-legge 30 gennaio 1971, n. 5 e nuove norme in favore di mutilati ed invalidi civili)”.

La disposizione come formulata, escludeva dal beneficio tutti quegli stranieri che, seppur erano in possesso dei requisiti sanitari necessari, erano, però, presenti in Italia da meno di cinque anni, non potendo, quindi, ottenere, il documento di soggiorno richiesto.

Secondo quanto precisato dalla Corte Costituzionale, nella sentenza in commento, tale situazione portava ad una discriminazione e disparità di trattamento in ordine ai diritti fondamentali della persona tra cittadini italiani e cittadini stranieri, rappresentando una violazione del diritto alla salute tutelato costituzionalmente.

L’assistenza alle famiglie che abbiano all’interno portatori di handicap grave non può essere rifiutata in ragione della “mera dura del soggiorno”.

Si legge, infatti, testualmente, nella decisione in oggetto che ... “In ragione delle gravi condizioni di salute dei soggetti di riferimento, portatori di handicap fortemente invalidanti (in uno dei due giudizi a quibus si tratta addirittura di un minore), vengono infatti ad essere coinvolti una serie di valori di essenziale risalto – quali, in particolare, la salvaguardia della salute, le esigenze di solidarietà rispetto a condizioni di elevato disagio sociale, i doveri di assistenza per le famiglie –, tutti di rilievo costituzionale in riferimento ai parametri evocati, tra cui spicca l’art. 2 della Costituzione – al lume, anche, delle diverse convenzioni internazionali che parimenti li presidiano – e che rendono priva di giustificazione la previsione di un regime restrittivo (ratione temporis, così come ratione census) nei confronti di cittadini extracomunitari, legalmente soggiornanti nel territorio dello Stato da tempo apprezzabile ed in modo non episodico, come nei casi di specie”.

La concessione, quindi, agli stranieri extracomunitari, che siano legalmente soggiornanti in Italia, della indennità di accompagnamento nonché della pensione di inabilità, non può essere subordinata al “semplice” requisito della titolarità della carta di soggiorno.

 

 

Avvocato Simone Fazzari 

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Convivente non può essere estromesso da abitazione senza congruo preavviso

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La sentenza della Cassazione n. 7214/2013, occasionata da una vicenda alquanto singolare di cui sono protagonisti due conviventi, fa il punto sulla rilevanza nel diritto italiano dei rapporti inerenti alle coppie di fatto.

La Corte compie un lungo exursus logico e giuridico per giungere a legittimare alcuni effetti delle unioni non fondate sul matrimonio, effetti che stanno ampliandosi sempre di più a livello legislativo e giurisprudenziale.

Il caso riguarda una coppia di conviventi e la vendita di un immobile di proprietà del compagno alla compagna. L’appartamento, ceduto con regolare atto di compravendita, è l’immobile in cui la coppia convive stabilmente. Finita l’unione, la donna costringe l’uomo a lasciare l’abitazione con un’azione singolare: sostenendo di essere vittima di un tentativo di furto o violazione di domicilio, chiama i carabinieri i quali, verificato il regolare possesso da parte della donna, si fanno consegnare le chiavi dal convivente.

L’uomo allora agisce presso il Tribunale di Roma con un’azione di reintegra nel possesso, riuscendo a dimostrare che nonostante il passaggio di proprietà, era in corso una situazione di compossesso dell’immobile derivante dalla convivenza. Il Tribunale da ragione all’uomo, ma la ex compagna ricorre alla Corte di Appello, la quale conferma però la decisione di primo grado, qualificando la situazione di fatto che si era venuta a creare, come compossesso e non semplice detenzione dell’immobile, stante la continuazione della convivenza more uxorio anche dopo l’atto di compravendita.

Si arriva in Cassazione, dove la donna deduce che in realtà la convivenza era già terminata e che comunque la situazione di compossesso non poteva essere dedotta dalla convivenza more uxorio tra le parti, poiché la convivenza non produce effetti sul possesso, e la relazione sulla cosa sarebbe assimilabile a quella di un “ospite”.

La Corte suprema, da una parte riconosce che la convivenza non fa instaurare automaticamente in capo al non proprietario un diritto possessorio autonomo (Cass. Civ. n. 847/2001), ma nega che la posizione del convivente può essere equiparata sic et simpliciter alla posizione di un ospite.

Al convivente che goda con il partner iure proprietatis dello stesso bene, deve essere riconosciuto una situazione assimilabile alla “detenzione autonoma” fondata sulla relazione familiare.

Si cita a tal proposito la sentenza n. 9486/2012 la quale, negando la possibilità di usucapire per il convivente, gli riconosce, in ragione di tale sola convivenza, la qualifica di detentore autonomo.

La convivenza determina, sulla casa in cui si svolge la vita comune, un potere di fatto basato su un interesse proprio, di conseguenza l’estromissione violenta o improvvisa legittima le azioni a tutela del possesso.

La vicenda concede lo spunto ai giudici, per affrontare l’argomento della rilevanza giuridica e di dignità del rapporto di convivenza che è sempre più oggetto di disciplina da parte del legislatore e della giurisprudenza.

Ne sono esempi:

  • l’art. 342 c.c. sugli ordini di protezione anche del convivente contro gli abusi familiari;
  • gli art. 408 e 417 c.c. sull’amministrazione di sostegno che introducono accanto al coniuge la persona “stabilmente convivente”;
  • l’art. 44, l. 184/1983 permette in alcuni casi l’adozione anche a chi non è coniugato;
  • in materia di procreazione assistita anche le coppie conviventi non coniugate possono accedere alle tecniche;
  • in materia di consultori familiari non vi è alcuna distinzione tra coppie di conviventi e coniugi

A livello giurisprudenziale è ormai acquisito il diritto del partner che conviva more uxorio ad essere risarcito in caso di morte del compagno, sia per il danno morale sia per il danno patrimoniale derivante dalla perdita del contributo economico, sempre che la relazione sia caratterizzata da stabilità e mutua assistenza morale e materiale (Cass. Civ. n. 23725/2008).

Anche il convivente more uxorio affidatario di prole naturale, succede nel contratto di locazione stipulato dal defunto convivente ai sensi della legge n. 392/78.

La tutela scaturisce dalla considerazione che la famiglia di fatto può essere considerata come “formazione sociale” riconosciuta dal diritto (art. 2 Cost.) che diventa fonte di doveri morali e sociali per ciascun convivente nei confronti dell’altro (Cass. Civ. n. 14343/2009).

Pur riconoscendo la non equiparazione alla famiglia fondata sul matrimonio, tuttavia l’unione caratterizzata da stabilità e contribuzione reciproca, comporta che non si possa parlare di “ospitalità” per il convivente non proprietario e di conseguenza lo stesso non può essere estromesso improvvisamente dall’abitazione ma ha diritto di vedersi attribuito un congruo termine al fine di trovare un’altra sistemazione abitativa.

 

 

Avvocato Simone Fazzari 

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Il precedente olografo prevale sull’atto pubblico sottoscritto dal testatore incapace

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Avv. Simone Fazzari 

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Quando lo stato d’incapacità del testatore risulta permanente, incombe a colui che faccia valere il testamento dimostrare che la redazione è avvenuta in un intervallo di lucidità.

È quanto ha stabilito la Suprema Corte nella sentenza in commento, ribadendo un orientamento, consolidato nella giurisprudenza di legittimità, in tema di annullamento del testamento per incapacità di testare.

Nella fattispecie, un centro residenziale per anziani citava in giudizio due persone che un’anziana signora, ospite del centro, aveva nominato suoi eredi universali con atto pubblico. In particolare, l’attore chiedeva di dichiarare la nullità del tastamento in questione per vizio del consenso del disponente, e per l’effetto, di dichiarare valido ed efficace il precedente testamento olografo con cui l’anziana aveva nominato erede il centro.

I convenuti chiedevano a loro volta in via riconvenzionale di accertare la validità ed efficacia del testamento pubblico.

La domanda attorea veniva accolta dal Tribunale e confermata dalla Corte d’Appello.

Avverso la sentenza d’appello, i due “eredi pubblici” ricorrevano per cassazione, deducendo violazione o falsa applicazione degli art. 591 (che nega la capacità di testare a coloro che si sono trovati in uno stato di incapacità anche temporaneo nel momento in cui il testamento è stato redatto) e art. 2697 c.c. Innanzitutto, perché la sentenza impugnata ha  individuato in uno stato di eventuale mera alterazione delle facoltà intellettive la causa dell’incapacità della testatrice a redigere il testamento. Inoltre, perché il notaio, pur non potendo attestare lo stato personale della disponente, ha recepito una volontà di cui ha dato atto in un testamento destinato ad avere pubblica fede.

Secondo la Suprema Corte, tuttavia, correttamente il giudice dell’appello ha considerato di per sé irrilevante, al fine di valutare il possesso delle facoltà mentali da parte della disponente, la circostanza che il testamento pubblico fosse redatto da un pubblico ufficiale. Peraltro, nel caso di specie, è incensurabile l’iter motivazionale con cui il giudice del merito, valutati gli elementi probatori, ha aderito alle indicazioni del CTU, per il quale "in termini di prevalente probabilità” l’anziana non era capace di intendere e di volere all'atto della redazione del testamento pubblico.

Infine, la Suprema Corte ha ribadito che il “rilevato stato di incapacità di intendere e di volere di carattere totale e permanente della testatrice comporta l'inversione dell'onere probatorio a carico di coloro che intendono avvalersi del testamento impugnato in ordine al pieno possesso delle facoltà mentali  da parte della testatrice al momento della redazione dell'atto”, onere che nella fattispecie non è stato assolto. In sostanza, qualora il testatore fosse incapace in momenti antecedenti o successivi alla redazione del testamento, non è escluso che il testamento possa essere considerato valido in quanto redatto in un lucido intervallo. In questo caso, però, spetta a chi vuole avvalersi del testamento dimostrare che esso fu redatto in un momento di lucido intervallo.

 

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Lieve entità: non è esclusa anche se il pusher ha 200 dosi di ''fumo''

Avv. Simone Fazzari 

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La Sesta Sezione della Suprema Corte di Cassazione affronta, con la recentissima sentenza 9723/13, pubblicata lo scorso 28 febbraio, sia il tema dei limiti di applicabilità ad ipotesi detentive della scriminante dell'uso esclusivamente personale, che quello della configurabilità concreta di fattispecie che giustifichino il riconoscimento della circostanza attenuante  - ad effetto speciale – della lieve entità prevista dal comma 5 dell'art. 73 DPR 309/90.

1) la detenzione ad uso esclusivamente personale : canoni ermeneutici e critiche alla posizione della Corte di Cassazione

Il giudice di legittimità manifesta di condividere ed apprezzare l'intervento della Corte territoriale posto che essa corregge, in appello, l'impostazione, a propria volta, esplicitata dal GUP.

In primo grado, il giudicante pare avere, infatti,  sostenuto la tesi, che declina il principio per cui, attraverso la previsione della locuzione “uso esclusivamente personale”, il  legislatore avrebbe introdotto, allo scopo di dirimere ogni dubbio e creare una regola certa di giudizio – in relazione alla complessa questione della detenzione di stupefacente - una presunzione semplice di carattere negativo.

Stando a tale indirizzo, quindi, ogni qualvolta non fosse stata dimostrata, esclusivamente da parte dell'indagato/imputato, la destinazione finale personale dello stupefacente detenuto, la condotta deve venire classificata come sicuramente illecita, (e, dunque, penalmente rilevante).

A tale conclusione si perverrebbe, in virtù di una valutazione complessiva della condotta, che, peraltro, sia assolutamente svincolata dall'esistenza di prove a sostegno della asserita illiceità.

L'adesione a questa tendenza interpretativa ha sempre – naturalmente – postulato e comportato, in grave deroga ai principi generali del diritto, l'inversione dell'onere della prova, (gravame che, invece, compete alla parte che intenda invocare l'esistenza di un fatto o di un comportamento a sé favorevole o sfavorevole ad altri).

Si verrebbe, così, in modo del tutto inammissibile, ad attribuire alla difesa, l’obbligo di dimostrare la propria innocenza e manlevando, contemporaneamente,  in maniera giuridicamente indebita, l'accusa dal genetico dovere di provare la colpevolezza dell'indagato/imputato.

La sentenza in commento riafferma, invece, quella condivisibile ed auspicabile visione, che assegna all’accusa lo specifico compito di selezionare, raccogliere ed indicare in modo logico (e plausibile) i cd. “elementi di contraddizione” che si reputano frapporsi all’evocata scriminante soggettiva.

Siffatto onere appare, altresì, necessariamente patrimonio anche del giudicante – per quanto di propria competenza –.

La scelta delibativa di ricondurre una condotta detentiva nell’alveo penale piuttosto che in quella della sola rilevanza amministrativa (o viceversa) va , infatti, coniugata, ad avviso della Suprema Corte, attraverso un ampio scrutinio di “tutte le circostanze oggettive e soggettive del fatto-reato”.

Va, però, rilevato che la sentenza in commento suscita un moto di perplessità, laddove essa conferisce al dato ponderale – in relazione al caso concreto (circa 88 grammi lordi) -  un valore sintomatico di assoluta eccedenza rispetto all’intrinseca necessità del singolo detentore, tale, quindi, da escludere l’operatività della causa giustificativa dell’uso personale.

Sull’altare della suggestione fornita dal peso (criterio, che l’esperienza forense ci mostra, invece, come suscettibile di interpretazioni estremamente variabili, se non ondivaghe), vengono, pertanto, così immolati, indicatori, ai quali, invece, in altre occasioni, sono state attribuite autorevoli valenze sul piano probatorio.

Ma il dubbio non è circoscritto solo a questa sfaccettatura.

V’è, inoltre, da rilevare che non pare persuasiva e condivisibile la scelta della Corte di affidarsi alla dose media giornaliera, evocata quale parametro, per determinare (o meno) la compatibilità del compendio stupefacente ad un uso esclusivamente personale.

Va, infatti, osservato che in forza di questa opzione, il giudice di legittimità disapplica inspiegabilmente il canone costituito dalla QUANTITA’ MASSIMA DETENIBILE.

Per chiarire i termini della critica, che si va svolgendo, è necessario un breve riepilogo storico.

In funzione della riforma del dpr 309/90, fu insediata dal Ministro della salute dell’epoca (Storace) l’11 febbraio 2006 una commissione scientifica di studio con il compito, tra l'altro, di «definire per ciascuna delle sostanze stupefacenti o psicotrope descritte nella Tabella I "allegata alla legge" i limiti quantitativi massimi di principio attivo riferibili ad un consumo esclusivamente personale».

Va precisato, che pare che, ad espresso giudizio della commissione istituita dal ministro Storace, “…..soltanto uno dei dati elaborati - cioè quello relativo alla dose media singola, intesa come quantità di principio attivo per singola assunzione idonea a produrre in un soggetto tollerante e dipendente un effetto stupefacente e psicotropo - fosse «espressione» di evidenza scientifica”.

Accolto tale presupposto, venne, quindi, adottato dal Governo (in carica all’epoca) il decreto 11 aprile 2006, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 95 del 24 aprile 2006.

Si legge testualmente nelle premesse di tale provvedimento che la commissione «ha osservato che i valori della dose singola efficace sono espressione di evidenza scientifica, mentre permangono margini di incertezza nei valori relativi alla frequenza di assunzione nell'arco della giornata che, a giudizio della stessa commissione, richiedono ulteriori approfondimenti», venendo confermato, così, il giudizio della commissione Storace.

In buona sostanza, balza all’evidenza che gli esperti incaricati non avevano raggiunto alcuna forma di accordo su quello che avrebbe potuto costituire il termine di paragone per definire il concetto  di uso personale.

Se, infatti, utilizzando la dose media giornaliera, si poteva identificare un’unità (quantum) di principio attivo effettivamente drogante, (onde poter accertare, quindi, quando una cessione di sostanza potesse assumere contorni penalmente rilevanti), rimaneva desolatamente irrisolta la questione di quale quantitativo di principio attivo stupefacente potesse, invece, apparire funzionale all’uso personale (ed anche l’arco di tempo nel quale si ipotizzasse l’effettiva possibilità di esaurire il consumo di tale sostanza).

Poiché, però, un simile approfondimento, per la sua complessità, avrebbe comportato, senza ombra di dubbio, un ritardo tutt’altro che lieve, della pubblicazione del nuovo testo legislativo, il Governo intese seguire una via assolutamente e discutibilmente compromissoria per potere inquadrare il concetto di uso esclusivamente personale.

Essa si tradusse nella adozione della formula «allo stato, ai fini dell'attuazione del disposto dell'art. 73, comma 1-bis, del Testo unico citato, appare opportuno utilizzare i valori relativi alla dose media singola efficace, incrementati in base ad un moltiplicatore variabile in relazione alle caratteristiche di ciascuna sostanza, con particolare riferimento al potere di indurre alterazioni comportamentali e scadimento delle capacità psicomotorie».

Si è, così, giunti a fortiori all’introduzione di quella che è stata definita QUANTITA’ MASSIMA DETENIBILE e che trova la sua esclusiva ragione funzionale nella finalità di disciplinare, proprio le condotte – concernenti gli stupefacenti - che sia vincolate escatologicamente ad un uso personale.

Deriva, pertanto, dal complesso delle considerazioni storiche, logiche e giuridiche, che precedono, che l’eventuale adozione giurisprudenziale del canone della dose media giornaliera, in relazione alla condotta detentiva (e, comunque, relativamente all’insieme delle condotte che appaiono strumentali all’uso personale), appare del tutto improprio e, comunque, non corretto, perché non pertinente.

La dose media giornaliera costituisce, infatti, criterio da utilizzare solamente in relazione a comportamenti di cessione a terzi di quantitativi di stupefacenti, onde inferire la reale gravità della condotta  posta concretamente in essere.

Come, pertanto, appare dal complesso delle considerazioni sin qui svolte, nel caso di specie – come, però, anche in altre situazioni recentemente affrontate dal S.C.  - la suddivisione inD.M.G. del quantitativo di stupefacente detenuto dall’imputato, costituisce metodica e procedura per nulla corretta, in quanto offre un risultato aritmetico (le dosi) incompatibile – sia sul piano logico, che su quello strettamente quantitativo - con la condotta oggetto di incriminazione .

2) L'applicazione dell’attenuante ad effetto speciale dell'art. 73 comma 5.

La Corte, intervenendo, poi, sul tema del comma 5° dell'art 73 DPR 309/90, afferma come l’applicazione di tale circostanza venga governata da canoni assolutamente autonomi rispetto a quelli che vanno adottati per  ravvisare (o meno) la destinazione ad uso personale.

E’ di tutta evidenza che già la definizione “lieve entità” contenga in re ipsa uno dei canoni che si impongono sul piano logico-giuridico per la soluzione del problema e cioè la “minima offensività penale della condotta”.

La circostanza attenuante in questione si sostanzia, come noto, di un insieme di parametri, che vanno esaminati l’uno indipendentemente dagli altri (peso dello stupefacente, modalità o circostanze dell’azione e mezzi utilizzati).

Per costante giurisprudenza, il vaglio in senso negativo anche di uno solo dei parametri di riferimento individuati dalla legge deve condurre ad escludere l'ipotesi del fatto di lieve entità (Cfr. App. Lecce, 5 settembre 2012) .

Appare, dunque, del tutto condivisibile il principio manifestato dalla sentenza, laddove impone che il giudice, in presenza di elementi fattuali di carattere equivoco – in relazione al genetico principio di minima offensività – operi una ricognizione globale di tutti i canoni contenuti nel citato comma 5°.

Il collegio di legittimità, inoltre, riafferma, in modo del tutto inequivoco e tassativo, come il criterio prevalente e centrale, ai fini dell’applicabilità dell’attenuante ad effetto speciale in oggetto, sia rinvenibile nel peso della sostanza.

Ove la stessa non appaia “considerevole” (aggettivo testualmente usato in sentenza), vale a dire quando il dato ponderale, di per sé solo, non risulti idoneo ad escludere la possibilità, per l’imputato, di invocare l’operatività del temperamento sanzionatorio fornito dalla circostanza dellelieve entità, solo la presenza di altri indici (tra quelli stabiliti ex lege) che risultino incompatibili con un giudizio finale e complessivo di minima offensività, può costituire utile e efficace riferimento motivo.

Il recupero dei criteri sussidiari, solo in assenza di una decisiva capacità dell’aspetto ponderale di porsi – in uno specifico caso - quale unico ed esclusivo elemento condizionante in senso negativo il giudizio di riconoscimento della circostanza attenuante, dimostra, al di là delle varie considerazioni che hanno affollato la giurisprudenza, come il giudizio sulla fattispecie attenuata, non pare potere prescindere dal ricorso a tranquillizzanti riferimenti aritmetici (sia in senso favorevole, che in senso negativo).

Avvocato Simone Fazzari 

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Processo tributario continua anche se coobbligato paga

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Avv. Simone Fazzari 

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In tema di cessione d’azienda, il ricorso del contribuente volto a contestare l’accertamento della maggiore imposta di registro – derivante dalla rettifica del valore aziendale – non viene meno anche laddove il coobbligato provveda nel frattempo a pagare il tributo richiesto.

Ciò è quanto stabilito dalla sentenza 22 ottobre 2012 della Commissione Tributaria Provinciale di Lecco, la quale ha ritenuto ammissibile il ricorso avverso un avviso di rettifica e liquidazione dell’imposta di registro, proposto dal cedente dell’azienda, nonostante l’eccezione dell’Agenzia delle Entrate che chiedeva la cessazione del giudizio poiché l’imposta era già stata versata dalla parte acquirente.

Ebbene, secondo i giudici di Lecco la richiesta di estinzione del giudizio per cessata materia del contendere deve essere disattesa, in quanto “… il valore dell’avviamento determinato in questa sede ai fini dell’imposta di registro può avere efficacia probatoria di valore presuntivo nella diversa sede della imposizione diretta” (sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Lecco n. 20/01/13).

Dalla sentenza, dunque, emerge la profonda consapevolezza dei giudici di prime cure in merito alle eventuali conseguenze in tema di imposte sui redditi in caso di adesione all’imposta di registro.

Pur sottolineando la profonda differenza tra i due tipi di tributo (da evidenziare, infatti, che nell’imposta di registro il presupposto è il valore venale dell’azienda mentre ai fini delle imposte sui redditi va considerato il compenso effettivamente corrisposto al momento della vendita) i giudici nel caso di specie sono giustamente garantisti riconoscendo l’eventuale pregiudizio che può comunque causare un accertamento di questo tipo una volta divenuto definitivo.

 

Avv. Simone Fazzari 

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Marchio CE su macchinario non esonera datore da responsabilità per infortunio

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La garanzia di conformità alla normativa comunitaria, rappresentata dal marchio CE impresso sul macchinario, non esonera il datore dalla responsabilità penale per l’infortunio occorso al dipendente: questo il principio ribadito dagli ermellini con la sentenza 11 marzo 2013, n. 11445 depositata l’conferma i due precedenti dictum dei giudici di merito.

Il titolare di un calzaturificio toscano era stato condannato a venti giorni di reclusione, tenuto conto delle attenuanti generiche, pena condizionalmente sospesa e confermata in grado d’appello, per aver posto a disposizione del prestatore di lavoro, a seguito infortunato, un macchinario, che sebbene recasse il marchio CE, era stato ritenuto non conforme alle prescrizioni della normativa vigente sulla sicurezza e la salute nei luoghi di lavoro.

Nella fattispecie, nonostante il costruttore avesse garantito l’idoneità del macchinario, secondo i giudici di merito dapprima, e quelli di legittimità poi, grava comunque sul datore di lavoro l’obbligo di verificare l’effettiva mancanza di pericolosità del macchinario medesimo.

La circostanza che l’attrezzatura fosse stata carente di una specifica parte finalizzata alla protezione delle mani dell’operatore, nella particolare fase di “configurazione dell’appoggiatacco”, era stata considerata dai giudici contraria ai principi che presiedono la normativa in materia di sicurezza. Detta mancanza aveva determinato l’infortunio alla mano del dipendente, nello specifico amputazione parziale della falange del pollice, dalla quale era derivata una malattia giudicata guaribile in circa sessanta giorni.

Nel ricorso la difesa del titolare del calzaturificio aveva, peraltro, dedotto la sussistenza di un “vizio occulto” del macchinario, ancorandolo alla circostanza per cui il datato impiego del medesimo, nella fase di lavorazione in cui era avvenuto l’incidente in questione, non aveva determinato ulteriori e pregressi sinistri: la Cassazione, confermando il proprio indirizzo in tema di infortuni sul lavoro occorsi a causa e per effetto dell’utilizzo di macchinari recanti il marchio CE (ex multis Cassazione penale, sez. IV, Sent. n°33285 del 07/09/2011), ha rigettato il motivo in tal modo formulato, motivando, peraltro, che “il fattore statistico non varrebbe a superare il risultato cui conduce il canone della conoscibilità del vizio secondo la diligenza esigibile dal datore di lavoro, la quale non trova motivo di attenuazione per il fatto di essere il macchinario attestato dal costruttore come conforme alla normativa CE”.

 

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Commissione di massimo scoperto: dai Tribunali soluzioni contrastanti

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Le sentenze del Tribunale di Macerata, dell’11 marzo 2013, e quella del Tribunale di Milano del 27/03/2013, analizzano alcune delle problematiche tipiche del contenzioso promosso dai clienti delle banche al fine di ottenere la restituzione delle competenze abusivamente addebitate dall’istituto di credito, unica parte nel rapporto bancario che “tiene il conto”.

Delle due sentenze solo la prima affronta il problema della c.d. usura da cms, ben nota alla S.C., sezione penale, ma poco valorizzata nei procedimenti civili, mentre la seconda ripercorre delle strade, care alla filobancaria, ma superate da tempo.

Sulla poca difendibilità, sul piano della trasparenza, delle CMS, basti riportare le parole del Presidente DRAGHI:

«Abbiamo già in passato richiamato l’attenzione sulla commissione di massimo scoperto, un istituto poco difendibile sul piano della trasparenza. Va sostituita, dove la natura del rapporto di credito lo richieda, con una commissione commisurata alla dimensione del fido accordato, come avviene in altri Paesi. Una simile innovazione richiede un complesso adattamento della prassi delle banche. Essa però dovrebbe essere avviata con decisione, proponendo il cambiamento ai nuovi clienti, anche per evitare il rischio che la questione sia risolta con gli strumenti operativi della legge». (Considerazioni Finali del Governatore della Banca d’Italia DRAGHI all’assemblea Ordinaria dei Partecipanti, in Roma, 31 maggio 2008)

Ma, procediamo con ordine.

Per quanto riguarda la CMS è necessario distinguere tra il periodo anteriore all'entrata in vigore del decreto legge 185/2008 e quelli successivi.

Relativamente al primo periodo è evidente la mancanza di una definizione univoca della CMS con la conseguente differente applicazione della stessa nelle differenti banche.

In particolare, se si prende per buona la definizione della CMS operata dalla Banca d’Italia, secondo cui la CMS costituisce il corrispettivo della banca a fronte dell’onere di tenere a disposizione del cliente una determinata somma nell’ambito di un contratto di affidamento, si deve rilevare che la CMS è applicabile solo alla commissione di affidamento e non certo alla commissione sullo scoperto, dato che si parla di scoperto (extrafido) solo fuori dei limiti dell’affidamento.

Ma ipotizzando l’applicazione della CMS alla commissione di affidamento va rilevato come, per consolidata prassi bancaria, la CMS è sempre stata applicata non sulla parte di fido inutilizzata, bensì, al contrario, sul massimo importo utilizzato intra fido. Le clausole relative alla CMS, presenti nei contratti bancari, si limitano genericamente ad indicare la percentuale di commissione di massimo scoperto applicata al conto, senza specificare su quali importi e per quali periodi venga applicata (cfr. Trib. Verbania, Dott. Claudio Michelucci, Sent. n. 257 del 24 aprile 2013; TRIBUNALE di CATANZARO, Dott. M. A. NASO, Sent. n. 517 del 21 marzo 2013; Tribunale di Taranto - Sezione Distaccata di Manduria, Dott.ssa Francesca Caputo, Sentenza N. 70 del 14 Febbraio 2013; Tribunale di Taranto - Sezione Distaccata di Manduria, Dott.ssa Francesca Caputo, Sentenza N. 70 del 14 Febbraio 2013 tutte edite in www.studiotanza.it)

Quanto detto comporta l’invalidità di detta clausola ai sensi dell’art. 1346 c.c., in quanto un contratto per essere valido richiede che l’oggetto sia determinato o determinabile.

Infine, se si accede ad una definizione della clausola di massimo scoperto conforme al suo nome, cioè come commissione sullo scoperto, allora la clausola suddetta dovrebbe ritenersi illegittima per essere priva di valida causa negoziale, in quanto onere aggiuntivo agli interessi passivi che la banca già percepisce su quella somma per effetto dell’utilizzo da parte del cliente. Trattandosi di onere calcolato in percentuale, avrebbe una natura non dissimile da quella dell’interesse e quindi si tratterebbe di un onere occulto che si va a sommare all’interesse pattuito, remunerando due volte lo stesso servizio. (Cfr. Tribunale di Lecce - Sez. di Gallipoli - Di Noi - Sent. n. 305 del 22 novembre 2012; Trib. Arezzo – Sez. dist. Sansepolcro, Dott. Antonio PICARDI, Sent. n. 1 del 9 gennaio 2012; Tribunale di Sala Consilina, Sez. di Sapri, Giudice Dott.ssa Diana, Sent. N. 20 del 18 marzo 2011; Tribunale di Torino, Dott. MARINO, Ord. 14.03.2011, RGN Cont n. 22290/06; Tribunale di Taranto, Dott. Di Tursi Sent. 445 del 3 marzo 2011; Tribunale di Napoli, Sez. Capri, Dott. A. Quaranta, Sent. n. 106 dell’8 novembre 2010; . Tribunale di Lecce Sez. Maglie – Dott. Angelo Rizzo, Sent. 246 del 12 luglio 2010, tutte edite in www.studiotanza.it)

Gli interventi normativi successivi alla Legge 185/2008 si sono rivelati, ancora una volta, un pasticcio di difficile comprensione e foriero di maggiori dubbi rispetto al passato.

Soprattutto le nuove disposizioni sembrano tradire la volontà del legislatore di portare la commissione di massimo scoperto in via di estinzione, sostituendola con strumenti più trasparenti.

Al contrario, si è generata tanta incertezza a causa dei vari interventi normativi susseguitisi in breve tempo, così giungendo alla confusa situazione attuale, dovuta alla presenza di numerose contraddizioni all'interno dello stesso articolo di legge, che favorisce una moltiplicazione degli oneri, spesso di difficile comprensione circa gli effetti pratici, a carico del correntista.

La CMS, poi, costituisce per la banca un guadagno e non certo un costo e, pertanto, va inserita nel computo del calcolo dell’usura: tanto è stato pacificamente ammesso dalla stessa Banca d’Italia con la famosa Circolare del 2 dicembre 2005, alla quale indirettamente la CTU resa dal Tribunale di Macerata fa riferimento.

La questione non è di poco conto: infatti, già in detta circolare della Banca d’Italia le c.m.s. erano trattate, seppur come una voce a sé stante, come entità sottoposta al calcolo dell’usura e stante anche la qualificazione soggettiva degli organi bancari e la disponibilità di strumenti di verifica da parte degli istituti di credito non si può non tener conto anche a livello soggettivo delle conseguenze in campo penale.

Quindi: interessi ultralegali, C.M.S., spese per operazione, spese fisse di chiusura, spese assicurative, spese revisione fido, giorni di perdita di valuta sulle operazioni di prelevamento e di versamento, interessi anatocistici calcolati su detti oneri e riferiti a singoli trimestri (peraltro illegali), costituiscono il costo effettivo sopportato dal cliente per il credito e rientrano tutte nel calcolo dell’usura, civile e penale.

 

Avv. Simone Fazzari 

Simone Fazzari & Barry Smith Law Offices 

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TASSA SULLE SIGARETTE ELETTRONICHE E TAGLI ALL'EDITORIA

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Stop alla tassa sulle sigarette elettroniche, arrivano i tagli all'editoria. E' quanto prevede la riformulazione dell'emendamento dei relatori al decreto per i pagamenti dei debiti della Pubblica Amministrazione che, a copertura del patto di stabilità verticale, prevedeva l'adeguamento delle tasse sulle sigarette elettroniche a quelle per le sigarette con tabacco. Tra le coperture alternative individuate e approvate nuovi tagli all'8 per mille e, soprattutto, ai fondi per l'editoria, già rivisti dal governo Monti.

FNSI SULLE BARRICATE -  Durissima la reazione della Federazione nazionale della stampa italiana. " I tagli a casaccio sono sbagliati, perché all'editoria serve un disegno riformatore che, anzi, richiede risorse", osserva il segretario della Fnsi, Franco Siddi che 'boccia' senza mezzi termini la misura. ''E' una scelta sbagliata - continua Siddi -. La fretta fa fare gattini ciechi e questo senza voler mancare di riguardo a nessuno, e nemmeno al Parlamento, perché comprendiamo l'esigenza per trovare risorse per le autonomie locali e lo sviluppo. Ma se si tolgono risorse a settori che incidono non solo sul fronte del lavoro ma anche su quello dei valori, come per i tagli all'editoria e con l'8x1000 per i paesi in via si viluppo, non possiamo che giudicare le scelte come sbagliate. Non bisogna invece dare spazio ad esigenze di propaganda che in alcuni casi arrivano da scorie dell'ultima campagna elettorale''.

 

Avv. Simone Fazzari

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Bankitalia: nuovo record del debito pubblico a marzo Entrate tributarie in calo

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A marzo nuovo record per il debito pubblico che si è attestato a 2.034,725 miliardi di euro (2.017,615 miliardi a febbraio). Lo comunica la Banca d’Italia nel supplemento al bollettino statistico dedicato a finanza pubblica, fabbisogno e debito.

A MARZO ENTRATE IN CALO A 26 MLD - Nel mese di marzo le entrate tributarie contabilizzate nel bilancio dello Stato sono state pari a 26,0 miliardi, in diminuzione dello 0,7 per cento (0,2 miliardi) rispetto a quelle dello stesso mese del 2012 (26,2 miliardi). Lo comunica la Banca d’Italia nel supplemento al Bollettino statistico dedicato a finanza pubblica, fabbisogno e debito.

Il debito delle amministrazioni pubbliche aumenta di 17,1 miliardi rispetto al mese precedente attestandosi a 2.034,7 miliardi. L’aumento, spiega Bankitalia, riflette principalmente il fabbisogno del mese di marzo (21,8 miliardi, inferiore di 3,8 rispetto a quello dello stesso mese dell’anno precedente). Tale fabbisogno, elevato per fattori stagionali, è parzialmente controbilanciato dalla diminuzione di 3,8 miliardi delle disponibilità liquide del Tesoro (a 45,9 miliardi).

Con riferimento alla ripartizione per sottosettori, rispetto a febbraio il debito delle Amministrazioni centrali è aumentato di 16,9 miliardi, quello delle Amministrazioni locali di 0,2 miliardi; il debito degli Enti di previdenza e’ rimasto sostanzialmente invariato.

 

Avv. Simone Fazzari 

Simone Fazzari & Barry Smith Law Offices 

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Equitalia non c'è più: niente multe. Caos in 6 mila Comuni. Ecco chi la passerà liscia

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Avv. Simone Fazzari 

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Menefreghisti della cintura di sicurezza, cultori della sosta selvaggia, fuggitivi di Ici e Imu: c'è una possibilità in più per sfuggire a tasse e multe. Non pagare contravvenzioni e bollettini potrebbe non avere alcuna conseguenza in oltre 6 mila Comuni. A premere sulla riscossione non ci sarà più Equitalia. La società ha comunicato ai sindaci di interrompere, a partire dal 20 maggio, l'invio di ogni documento. La ragione è semplice: mancherebbe il tempo per incassare il tributo perché dal primo luglio Equitalia dovra "cessare l'attività" di riscossione relativa a Comuni e Province. Un provvedimento che, nonostante fosse previsto dal decreto Sviluppo del 2011, ha colto di sorpresa molte amministrazioni, incapaci di sostituire lo spauracchio di Equitalia con un'altra agenzia di riscossione. E allora? Allora non c'è nessuno, per ora, disponibile a fare il lavoro sporco fatto fino a ora dagli uomini di Attilio Befera.

Senza qualcuno che si occupi di recuperare i crediti, quanti saranno i cittadini che accetteranno comunque di pagare? Il rischio è che i Comuni vedano di colpo troncate le entrate da verbali: circa 1,4 miliardi  di euro l'anno. Senza calcolare Ici-Imu e tassa sui rifiuti. I fondi delle multe dovrebbero essere destinati per il 50% alla sicurezza stradale: da lunedì potrebbero esserci a disposizione 700 milioni in meno. Tante buche e meno sicurezza sull'asfalto. 

Ma allora, tra voci, indiscrezioni e leggende metropolitane, è davvero reale la possibilità di restare impuniti? La risposta è sì, ma con alcune distinzioni: innaznitutto la cessata attività di Equitalia vale solo per Comuni e Province: per quanto riguarda le multe, si parla di quelle comminate dai vigili urbani e dalla polizia provinciale. Per tutte le altre infrazioni non cambia nulla.

Altro punto da sottolineare: quando l'amministrazione chiama in causa l'agente riscossore (Equitalia) significa che ha una ragionevole sicurezza che il pagamento non avverrà. Tra la multa e questa "ragionevole sicurezza" può passare molto tempo. Si sommano infatti i tempi di legge a quelli di un eventuale ricorso, all'attesa dell'amministrazione che, anche dopo la scadenza dei termini, attende ancora che la pecorella smarrita torni all'ovile prima di attivare il riscossore. In opche parole: se avete già una multa in ballo, con l'addio di Equitalia ci sono concrete possibilità che andrà in prescrizione, che scatta dopo 5 anni.

Per le sanzioni beccate dopo il 20 maggio, il discorso è più complesso: è vero che probabilmente, per un po' di tempo, non ci sarà nessuno che busserà alla vostra porta per rendere conto di una multa. Attenzione però. Le amministrazioni, prima o poi, si doteranno di un nuovo riscossore: se volete correre il rischio di non pagare un verbale, dovete sperare che il vostro Comune impieghi più di 5 anni prima di trovare un sostituto di Equitalia. L'ipotesi è improbabile, anche perché i sindaci, tra Patto di Stabilità e i mancati introiti Imu se l'imposta dovesse essere abolita, hanno un bisogno disperato di risorse (fonte: affaritaliani).    

 

Avv. Simone Fazzari

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