Creato da tommaso.mt il 26/07/2010
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PREFAZIONE. IL PROTAGONISMO DI GALATINA DAL RISORGIMENTO ALLA COSTITUENTE

Post n°22 pubblicato il 25 Gennaio 2011 da tommaso.mt

Lo scritto che qui presento dei due giovani galatinesi Donato Lattarulo e Tommaso Manzillo, è il frutto di un loro duplice amor patrio: quello per Galatina, e quello per l'Italia. E quest'amore, è del tutto  convergente in unità, senza riserve e residui, e con una nettezza che si propone ad oggetto di riflessione. Il protagonismo di Galatina dal Risorgimento alla Costituente, vuole infatti dimostrare la presenza di Galatina, e dei galatinesi, nell'intero percorso italiano, prima e dopo l'Unità, nei fermenti risorgimentali e, ad Italia unita, nelle istituzioni nazionali.  Questa presenza, questo esserci di Galatina, è non solo un gesto di orgoglio, ed una determinazione di costanza, e di volerci essere ancora in una 'lotta per la politica' ch'è e dev'essere all'interno della 'unità politica',  come dicono senza mezzi termini  gli autori;  questa esigenza di affacciarsi, come un tempo, al livello alto delle istituzioni, è, oggi più che mai, anche una scelta di campo ideale, più che ideologica, ma addirittura è una scelta di scrittura per un certo tipo di politica, e per un certo sistema di regole della politica da conservare, e da indicare così come s'è formato nella storia. Intendiamoci, il contributo di Galatina alle varie stagioni del Risorgimento, come è, del resto, evidente, in questo stesso scritto, e nelle sue fonti, è tutto sommato notevole per la sua ininterrotta continuità, ma non è dissimile, o superiore, a quello di altre città del Salento. Questo non sorprende, perché nel Risorgimento, e dopo il 1799,  il 'partito italiano' è il partito degli strati medi della popolazione, cioè di quel partito che ha subito e soprattutto compreso, il danno immenso fatto all'Italia meridionale dall'assenza di riformismo degli ultimi Borboni, ed anche dalla indifferenza ottusa al richiamo dell'Illuminismo innovatore, che invoca l'intensificazione delle colture agricole, e l'abolizione del peso feudale sulle campagne, e invoca la stessa riforma nei  rapporti sulla terra, senza spingersi necessariamente alla legge agraria. Genovesi e Palmieri, uno di queste parti,  avevano ben avvertito la necessità, di orientare il sistema dei poteri sul sistema della proprietà, secondo il modello inglese e, per quel che riguarda le tecniche agricole, anche francese. Quel che rivela il mondo dei Borboni e spiega la loro fine, non ha a che fare subito con le forche, ma anzitutto con l'incapacità, tante volte dimostrata,  di comprendere il senso di una costituzione liberale. Ci sono personaggi galatinesi che vivono tutto questo, nemmeno tanto tra le righe, come si può ricavare dalle lettere dell'abate Tanza che parla del 1799 e dell'abolizione francese, ad inizio del Decennio, della feudalità, come in queste pagine è ricordato. Ci sono poi altri personaggi liberali di notevole caratura culturale, come lo stesso Baldassar Papadia, o Raimondo Vinella, che fanno parte di questa schiera, anche se certamente altri brillano maggiormente di luce italiana, anzitutto perché brillano di luce propria, come Cavoti nel 1848, e Toma nel 1860, secondo il racconto dei giovani autori. Ed anche come Nicola Vallone o Pietro Siciliani, che tracciano, con la loro vita di intellettuali e professori universitari, e con il loro impegno politico,  il percorso,  in Galatina,  di quel rinnovamento generale delle classi dirigenti che interessa l'intera Italia meridionale, appunto in coincidenza dell'Unità: si tratta poi della prima classe politica del Sud consapevole dei ritardi del Mezzogiorno e intenzionata a fare di questi ritardi un problema politico, appunto perché l'Unità c'è stata. E questo va detto: nello stesso partito liberale unitario dell'età borbonica, che esprimeva alla fine una borghesia agraria socialmente attenta, ma conservatrice,  si inclinava a ritenere il Mezzogiorno un'isola felice d'Europa (così era per Settembrini e De Sanctis) e c'era dunque una pressoché totale ignoranza, e non di rado una   voluta ignoranza   (come negli scritti, oggi,  dei neoborbonici),  delle immense contraddizioni sociali e della miseria contadina e pastorale,  che invece si erano manifestate spesso e sono anzi da ritenere insorgenze da uno stato quasi endemico di povertà  e che saranno poi la prima e fraintesa linfa del cosiddetto fenomeno del brigantaggio.  Dunque la scelta di campo di Lattarulo e Manzillo è anche una scelta di campo  per la tradizione liberale, per una tecnica delle libertà garantite e del progresso sociale. La continuità tra Risorgimento ed Unità, fino alla Costituente, è tale solo su questo fondamento. L' ideologia neoborbonica, può permettersi tanto? Direi di no, perché avanza, quasi inavvertitamente, molto meno e molto peggio che una proposta conservatrice: avanza una proposta reazionaria, in qualche caso spinta miseramente a nostagie aristocratiche, che cade alle spalle non solo delle tre grandi scansioni liberali e democratiche della storia nazionale, ma alle spalle delle grandi scelte di modernità della tradizione occidentale, e  non ha poi  nessun serio argomento da opporre alla illustre idea di Italia, che non è idea di toscani di lombardi o di napoletani, ma di italiani, dato che l'Italia  è una grande costruzione morale della cultura che unifica e precede, di secoli, il fatto politico dell' Unità. Naturalmente storici leghisti -anche insigni- di impasto cattolico (che è, evidentemente, la più tipica miscela antiitaliana), ci assicurano che lo Stato unitario "non corrispondeva ad una nazione", e ce lo dicono con la stessa disinvoltura con la quale scrivono che lo Stato assoluto "è una creazione del pensiero politico cattolico" o con la quale pensano che siano invece 'nazione' due popoli così diversi (di fronte a questo stesso e così povero concetto di 'nazione') come i lombardi e i piemontesi. In questo senso, quello cioè di un concetto serio di nazione, esserci semplicemente stati prima dell'Unità non è per niente esserci stati prima dell'Italia e degli Italiani.  La storiografia neoborbonica, intendo quella che abbia una qualche dignità scientifica, trascina con sé un andamento e un tono patetico, perché la sua legittimazione è povera cosa; perché parla il linguaggio d'un legittimismo tradito e di un popolo scannato, che sono cose diverse e che non fanno 'nazione' o anche solo sistema.  Intanto il legittimismo vagheggia impossibili restaurazioni, e senza poi legittimità nel vagheggiare, dato che i Borboni avevano, sul Mezzogiorno, lo stesso diritto politico degli Austriaci degli Spagnoli degli Angioini  o dei Normanni, cioè un diritto di conquista senza alcun riscontro nella autodeterminazione  delle popolazioni;  e non è certo su di loro che si può delineare un'identità meridionale nemmeno in senso politico, perché in questo senso un'autodeterminazione dei popoli meridionali inizia soltanto con l'Unità e con il loro ingresso nel portale europeo della modernità e cioè del liberalismo, perché se la democrazia è un plebiscito di tutti i giorni, per il Mezzogiorno il primo giorno di democrazia è quello del Plebiscito.   Per il resto, se ci si mette sul piano del dare e dell'avere, che non è il piano della scienza, e se si  ergono i cosiddetti 'briganti' a 'patrioti' e 'martiri', bisognerà pur dare statuto alle migliaia di loro vittime- i 'borghesi' e proprietari massacrati nei tanti paesi delle dorsali appenniniche- e dire quel che si pensa di loro,  dato che hanno eguale diritto alla storia; almeno nel senso che di entrambe queste categorie di caduti deve essere unitariamente ritessuta la storia vera, perché il brigantaggio non è una rivolta politica, e tanto meno 'patriottica',  ma anzitutto una rivolta sociale: la prima evidenza storica delle classi subalterne del Mezzogiorno, così come ridotte da secoli di asservimento feudale e di sfruttamento padronale,  che, o pro o contro,  presuppone necessariamente lo Stato unitario, ed ha un progresso possibile, e certamente visibile,  solo dentro di questo,  così come  presuppone lo Stato unitario la questione meridionale, ch'è oggi anzitutto questione criminale. Irrisolta, naturalmente, ma irrisolvibile in termini di secessione. Questa farebbe del Settentrione una periferia d'Europa, come potrebbero finire per capire gli stessi leghisti, ma cosa sarebbe un Mezzogiorno restaurato su queste, o su altre basi: una monarchia borbonica a trazione mafiosa, o una repubblica ad oligarchia camorristica? Cosa ha fatto mai, da solo, il Mezzogiorno,  da far presagire una sua dimensione europea nel tenore di vita della gente e nel riferimento politico? Se storicamente  lo sviluppo capitalistico dell'Italia settentrionale presuppone la presenza, e il sacrificio,  del Sud, può la questione meridionale non essere una questione unitaria e nazionale? Può trovare fuori dell'unità la sufficiente forza politica per una prospettiva morale, pur nelle generali condizioni morali della classe politica? Non a caso, dunque uno di questi giovani autori ha parlato, in altra occasione, degli 'scarti allarmanti del Mezzogiorno',  ed entrambi, all'unisono, ci dicono che la lotta politica, anche per il Sud, anche per Galatina,  è lotta nell'unità politica,  e non può essere altro.  Io penso come loro.   

Giancarlo Vallone

 
 
 
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